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«Ecco cosa dovrete fare: dirvi reciprocamente la verità» (Zc 8,16)


22 novembre 2010 - S. Cecilia - Anno XVIII - n. 362


Notam

«Ecco cosa dovrete fare: dirvi reciprocamente la verità» (Zaccaria 8,16)
 
 
Milano, 22 novembre 2010 - S. Cecilia - Anno XVIII - n. 362
 
TRENTA RIGHE DI ATTUALITÀ
Sandro Fazi
La crisi finanziaria è ben lontana dall’essere superata; ogni volta che ritroviamo nella stampa quell’acronimo pigs abbiamo un brivido nel timore che la i riguardi proprio noi Italia (gli altri sono Portogallo, Grecia, Spagna). La crisi resta alle porte; oggi si abbatte sull’Irlanda, con le banche dissestate, e si prepara ad azzannare il Portogallo e la Spagna.; tutti nostri vicini di casa, verso i quali non proviamo, temo, sentimenti di solidarietà, quanto di sollievo che non sia toccato a noi il dissesto, pur avendo anche noi vissuto per lunghi anni al di sopra delle forze. Il ministro della economia tedesco Bruederle ha detto che l’Italia «non crea tensioni, c’è grande tranquillità… la manovra di Tremonti ha già dato risultati di stabilità» (Repubblica del 17 nov). Per quanto abbiamo capito noi uomini della strada, le cose che ci hanno tirato fuori da questa crisi, oltre ai provvedimenti del governo, sono: l’inventiva e l’intraprendenza dei medio-piccoli imprenditori (i PMI), qualità congenite, che altri paesi, più ordinati e disciplinati, non hanno; la natura portata al risparmio sotto al mattone; un sistema bancario che ha elargito mutui con una cautela che abbiamo vituperato tante volte. Meglio di quanto potessimo sperare da questi governanti di cui tanto diffidiamo, ma per dire le cose come stanno (Romano Prodisul Messaggero del 14 nov), non dobbiamo dimenticare che la disoccupazione è al 8% e la crescita italiana è tra le più lente al mondo.
Del teatrino della politica è stato già detto tutto. Il rinvio della sfiducia può giovare probabilmente allo sfiduciato, in forte affanno. Ma una coalizione eterogenea, come quella formata contro il presidente, non potrà coordinarsi facilmente. Sentiremo i cori del si stava meglio prima; dopodiché la china del pd sarà ancora più scoscesa. Nel frattempo sul giornale del presidente si raccolgono firme contro Saviano che ha spiegato a tutti come funziona la fabbrica del fango. La cosa è avvilente. Saviano è un vero eroe.
In campo internazionale l’evento più rilevante mi sembra il G20 a Seul. Hanno colpito molti aspetti di questo grande incontro. Un primo punto è il ruolo dei paesi asiatici, a conferma che il baricentro del mondo industrializzato si è spostato; il presidente Hu Jintao ha sostituito il presidente usa quale regista dell’incontro (Repubblica del 13 nov). Immagino che il ridimensionamento della figura di Obama, abbia dato soddisfazione a chi non ha mai accettato la sua pelle, la sua politica, le sue scelte. Speriamo di non dover rimpiangere l’arroganza con cui gli usa hanno sempre gestito le cose del pianeta; comunque ci dispiace per il tramonto dell’uomo che ammiriamo per l’integrità intellettuale e morale di cui ha dato prova. Torniamo al G20. Per la prima volta hanno partecipato i cosi detti paesi emergenti (Brasile, India, Indonesia; presto anche Turchia?), a conferma della loro indubbia importanza mondiale. Mentre ci rallegriamo che un maggior benessere abbia raggiunto altre nazioni, oltretutto molto popolose, dobbiamo confessare qualche apprensione nel vedere aumentare una concorrenza sempre più qualificata e agguerrita. Speriamo che questa ci spinga a una sempre maggiore efficienza. Terzo punto, infine, la mancanza di attenzione alle gravi emergenze di molte aree del mondo (es. Haiti), e più in generale la cronica mancanza di alimenti, che potrebbe essere eliminata anche solo con la distribuzione degli avanzi che i paesi più ricchi distruggono quotidianamente.
in questo numero                             
U. Basso I MISCREDENTI DEL VATICANO u DOPO LE PRIMARIE DI MILANO u echi sportivi E, Brunetti PARLIAMONE… u visto in TV G. Chiaffarino QUANDO L’AUDIENCE C’È u film in giro F. Colombo LA PECORA NERA u botta e risposta    G, Chiaffarino a S. Fazi SUL SISTEMA ITALIA u Il Gallo da leggere u.b. u segni di speranza s.f.u nel deserto m.z. LA NOSTRA LETTURA DEL LIBRO DEI NUMERI cap. 1-5 u schede per leggere m.c. u la cartella dei pretesti
I MISCREDENTI DEL VATICANO
Ugo Basso
Non uso volentieri questa espressione con la quale don Paolo Farinella, parroco genovese noto ai nostri lettori, indica collettivamente i dirigenti della chiesa di Roma. Non la uso volentieri perché irritante e aggressiva, lontana dal mio linguaggio, ma, soprattutto, perché molto prossima a una realtà dolorosa da accettare per chi cerca di credere anche nella chiesa. Naturalmente non è mai corretto un giudizio collettivo su questioni, come la fede, così strettamente personale da indurre padre Turoldo a dichiarare impossibile, perfino di se stesso, definire chi crede e chi non crede: ma l’espressione riferita al Vaticano non intende giudicare le singole persone, quanto il complesso che nel parlare comune si indica come il Vaticano, la sede del potere della chiesa cattolica. 
Penso alle guardie che difendono gli accessi alla sede apostolica opponendo l’alabarda, bellissime nei loro colori cinquecenteschi: ma che cosa hanno a che vedere con quel Cristo che, «nato da Maria, patì sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto e il terzo giorno è resuscitato»? Ricordo quel libretto della Locusta, piccola voce libera purtroppo scomparsa, che leggeva nella targa automobilistica dell’automobile del papa, SCV (Stato Città del Vaticano), l’acronimo di Se Cristo Vedesse… La stessa basilica di san Pietro superba nelle colonne tortili e nei mausolei dei pontefici non porta segni di Cristo. Né li suggerisce la maestosa cupola per la quale Ugo Foscolo celebra l’architetto Michelangelo come colui che «nuovo Olimpo/ alzò in Roma a’ Celesti» (Sepolcri vv. 159-160), immensa, sacra come la montagna degli dei (Celesti), quindi monumento pagano.
Vorrei ancora ricordare alcuni versi di Dante che denunciano impietosamente –o forse, al contrario, con grande pietà- la corruzione della chiesa proprio ai più alti livelli. Il tema è ricorrente nel poema e anche nelle opere cosiddette minori trova un linguaggio ben oltre l’espressione di don Farinella. Nel canto XIX dell’Inferno sono puniti i simoniaci: arricchiti con il sacro stanno conficcati in fori del terreno a testa in giù e agitano scompostamente le gambe per il dolore provocato dalla fiamma che arde le piante dei piedi. Sono pontefici rivestiti da vivi con il «gran manto» (v. 69): Nicolò III non riconosce Dante e, credendolo Bonifacio VIII morto in anticipo, stupisce che abbia così presto rinunciato ad arricchire con i beni della chiesa. «Se’ tu sì tosto di quell’aver sazio,/ per lo qual non temesti torre a ‘nganno / la bella donna e poi di farne strazio?» (vv. 55-57). Il papa dunque è un crudele ingannatore che prende «la bella donna», fuori metafora la chiesa, solo per sfruttarla e farne scempio.
Nel canto XVI del Purgatorio, è il personaggio di Marco Lombardo a spiegare al poeta viaggiatore che causa della corruzione, della mancanza di giustizia è proprio la collusione del potere politico con quello religioso –«giunta la spada / col pasturale» (vv. 109-110)-: Dante è perplesso nell’ascoltare queste affermazioni che Marco conferma citando il vangelo: «se non mi credi, pon mente alla spiga / ch’ogn’erba si conosce per lo seme» (vv.113-114). Già, guardiamoci attorno e rileggiamo Matteo 7, 17. 
Nel Paradiso valutazioni decisamente più pesanti sono espresse affidate addirittura da san Pietro che arrossa di sdegno con tutte le anime beate che sono con lui. Già il santo antenato di Dante, Cacciaguida, aveva definito la sede apostolica il luogo «dove Cristo tutto dì si merca» (dove Cristo ogni giorno viene venduto, Paradiso XVII 51), e ora Pietro afferma che il pontefice regnante a causa del suo comportamento così lontano dal vangelo è un usurpatore e il posto che dovrebbe essere del papa agli occhi di Cristo è vuoto: «Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio,/ il luogo mio, il luogo mio che vaca/ ne la presenza del Figliuol di Dio,/ fatt’ha del cimiterio mio cloaca/ del sangue e della puzza; onde ‘l perverso/ che cadde di qua su, là giù si placa» (XXVII, vv. 22-27). La mia tomba –tradizionalmente la basilica di san Pietro si ritiene costruita sulla tomba di Pietro- e quindi la sede apostolica, è una fogna (cloaca) violenta e puzzolente dove il demonio si sente tranquillo a casa usa.
Questa la situazione al centro della chiesa, ma non meglio se la passano le diverse diocesi nel mondo perché anche i vescovi non hanno cura delle persone affidate a loro, ma pensano piuttosto a dilapidarle per arricchire: «In vesta di pastor lupi rapaci/ si veggion di qua su per tutti i paschi» (dal paradiso si vedono in tutte le diocesi vestiti da vescovi lupi avidi, vv. 55-56). Partecipiamo dello sdegno di Dante, senza dubbio credente e fedele membro della chiesa, nella forza espressiva del grande poeta: noi possiamo solo osservare e, con il massimo impegno nella ricerca della fedeltà, non tacere. Ignorare sarebbe complicità, denunciare senza praticare un atteggiamento evangelico sarebbe ipocrisia. Perché ogni credente è chiesa.
E lo Spirito? Azioni, abiti, ricchezze, prese di posizione della gran parte degli esponenti del magistero inducono a pensare che la presenza promessa dello Spirito sia altrove. Dono dello Spirito è il discernimento, la capacità di distinguere, di riconoscere, di confrontare, pensando e pregando: di questo occorre valersi per operare e per ritrovarlo nei sacramenti che la chiesa offre gratuitamente sempre a tutti e forse ancor più ne ravvisiamo la presenza in chi nella vita cerca un senso e crede che la speranza possa spingere all’impegno e all’azione; in chi crede nella giustizia e cerca di farla e prova ad asciugare qualche lacrima; in chi ha fiducia che la politica non sia solo spazio per corrotti e corruttori; in chi nelle periferie africane, nell’America latina o in Calabria con i poveri ci sta davvero.
 

Ringraziamo sin d'ora gli amici che ci segnaleranno l'indirizzo di persone che potrebbero essere interessate a questa pubblicazione e anche quelli che la inoltrano attraverso la propria mailing list.

 
DOPO LE PRIMARIE DI MILANO
Accogliamo questo spontaneo piccolo forum sulle primarie che aiuta a comprendere non solo le diverse posizioni, ma gli atteggiamenti con cui pensiamo al futuro politico di Milano e ci auguriamo che aiuti anche a ritrovare compattezza nella speranza di riportare nella nostra città una decenza politica e amministrativa di cui in troppi si sono dimenticati.
Fioretta Mandelli
uFra tutti i brutti pensieri, il disgusto e le preoccupazioni che mi assalgono ogni volta che sento o leggo qualcosa della situazione politica del nostro paese, avevo fino a domenica scorsa un piccolo angolo di speranza: chissà che almeno nella mia città questa volta non ce facciamo a cambiare qualcosa?
Mi sembrava chiaro che tutti coloro che avevano questa speranza realisticamente avessero il dovere di scegliere tra i tre candidati senza altro criterio che la digeribilità del candidato del pd rispetto al numero di elettori che occorre per eleggere un sindaco: elettori possibilmente di tutte le matrici, ma in particolare quelli che in tutte le elezioni passate hanno scelto sindaci di destra. Non mi pareva che fosse necessario spiegare a persone intelligenti e preparate come molti miei amici che l’unico candidato che poteva avere questi requisiti era Boeri. Ma troppi hanno votato con il cuore e non con la testa. Capisco, e me ne rallegro, che i miei nipoti e anche i figli che hanno nostalgia di Rifondazione comunista abbiano votato Pisapia. Lo stimo molto, e le sue idee sono le più simili ai miei ideali: ma questa volta bisognava che tutte le persone ragionevoli davvero scegliessero in modo realistico e non ideologico. Io non ne ho mai dubitato.
Ora, certo, c’è da sperare che ci siano collaborazione, unità, spirito realistico e capacità di comunicazione in tutti quelli che vogliono cambiare. Ma, visto quello che accade nel pd, non so se ci possiamo contare.                                                                               
Giorgio Chiaffarino
uMa allora per il pd è proprio un vizio! Nella nota del numero scorso si diceva: dopo la Puglia perché riprovarci ancora e rischiare anche a Milano? Bastava aver seguito un minimo gli umori della gente e gli inizi di questa mini campagna per capire, come si dice, il giro del fumo. Così non è molto sorprendente il successo di Pisapia. I dodici punti della sua proposta sono davvero un antidoto all'affarismo speculativo e ai signori del cemento che hanno scorrazzato per la città fino a oggi e minacciano di farlo ancora in futuro. Ma quello che ha colpito di più è stato il tono generale e il tema dell'inclusione e del futuro. Mai una parola contro gli avversari e, massime, nei confronti del pd, anche perché tanti iscritti erano presenti tra i suoi sostenitori. Ha detto: senza rinnegare il passato, voltiamo pagina e guardiamo avanti i problemi da risolvere della nostra città. Se il centro sinistra vuole la svolta di cui Milano ha bisogno, chiunque avesse vinto avrebbe dovuto, e lui dovrà, aprire spazi e favorire le maggiori convergenze possibili.
Tutto si può, si deve discutere in genere, figuriamoci in politica, figuriamoci alle primarie di Milano. Quello che però induce a qualche stupore, nella critica al vincitore, è chi non discute le sue scelte di oggi, ma ricorda la sua elezione di ieri (o avantieri) nelle liste di Rifondazione: in fondo si tratta di un comunista! Così chi ha stigmatizzato le campagne elettorali di Berlusconi, fino a ieri fatte contro i comunisti (che ormai esistono solo nelle sue ossessioni), curiosamente si troverà in mano gli stessi argomenti nella campagna elettorale per il comune di Milano.
Che cosa ora si dovrebbe sperare? Intanto che Pisapia mantenga quanto ha promesso sulla strada che lo ha portato al 14 novembre. Ha detto: potremo perdere, ma se vincerò questa tornata mi propongo di lavorare insieme ai colleghi, se solo loro lo vorranno. E poi che venga ben utilizzato il tempo che c'è perché tutti ragionino, concretamente e senza ideologismi, per evitare di fare regali alla destra e vincere la corsa finale.
Una parola intorno al pd: giuste le dimissioni della dirigenza milanese. Dovrebbe fare la stessa cosa il partito anche a livello nazionale: chi perde paga, e non resta per insistere a provarci un'altra volta. È un vero peccato che non sia stata ascoltata Rosi Bindi nella sua insistenza a evitare una scelta del candidato prima del risultato delle primarie. Queste hanno dimostrato, se ce ne fosse stato bisogno, che il partito ha perso molto di vista l'umore di grande parte del suo popolo e c'è da domandarsi se riuscirà a tirare correttamente la lezione che oggi ha bruscamente ricevuto.                                  
Ugo Basso
uAggiungo una mia riflessione che, condividendo quasi tutto quello che sopra dicono gi amici, curiosamente mi ha indotto a sostenere Onida: necessità di sicura legalità, inflessibilità di fronte all’invadente corruzione, personalità di specchiato rigore, urgenza di raccogliere il massimo dei consensi fuori dai partiti nella cosiddetta società civile e fra i cattolici… Posso aggiungere che non è espressione di nessun partito e che ha ricoperto la quinta carica dello stato. Questo pensavo quando ho deciso il mio voto. A risultati proclamati, resto convinto che sarebbe stata la scelta giusta e la soddisfazione del sindaco me lo conferma.
Al di là delle mie valutazioni personali sulla storia politica di Pisapia, non mi pare realistico pensare che la Milano di oggi possa darsi un sindaco di militanza comunista –con tutte le attenuazioni e i distinguo che potranno essere forniti-: naturalmente mi auguro che Pisapia sappia impostare una campagna convincente e che riesca a mettersi accanto teste pensanti meno schierate di lui che riescano a dare l’immagine di una pragmaticità amministrativa non ideologica. Sperando nel contrario, temo che allo stato attuale la Moratti vincerebbe al primo turno: se si candidasse Albertini per il centro potrebbe essere che si arrivi al ballottaggio e qualche gioco potrebbe riaprirsi (se Pisapia facesse convergere i suoi voti sul non rimpianto ex sindaco).
Un’ultima nota. Anch’io ho apprezzato le dimissioni della dirigenza del pd milanese: ma mi è sembrata degna di rilievo l’osservazione (Corriere della sera, Milano del 18 scorso) di don Gino Rigoldi: non è imprudente azzerare una dirigenza politica in sostanza alla vigilia delle elezioni, magari anche politiche? Non sarebbe stato più prudente rimandare le stesse dimissioni alla primavera postelettorale?                    
 
echi sportivi
PARLIAMONE…
Enrica Brunetti
Di sport giocato e commentato esondano le cronache e le telecronache, l’informazione e i discorsi di bar, mezzi pubblici e salotti privati. Si tratta di un mondo parallelo più compreso, seguito e appassionatamente vissuto di quello rappresentato dalla società civile o dall’astruso agone politico. Un mondo dove tutti dicono la loro e hanno l’impres-sione di partecipare, di condividere, insieme alle emozioni, anche le scelte che comunque altri compiono altrove per ragioni di solito sconosciute alle dispute delle rispettive basi. L’identificazione è sfegatata e totale l’appartenenza. I gaudium e spes, i luctus et angor della specie umana, sogni compresi, passano più facilmente dalla pagina sportiva che dalla vita dei giorni feriali.
Interessi di pochi e passioni collettive muovono settori dell’economia reale, mentre le speranze di masse diseredate e l’orgoglio di interi popoli giocano talvolta partite decisive sui campi o nelle piste della geografia mondiale.
Spesso lo sport, di squadra o no, anche duro, proprio perché irto di ostacoli, sacrifici e confronti, acquista valore di iniziazione adulta. I giovani trovano qui motivazione per mettersi alla prova, sia dalla parte di chi gioca sia nei ruoli delle tifoserie. Spesso crescendo davvero, talvolta infilandosi in situazioni estreme e distruttive e, comunque, accettando regole e liturgie derise o aggirate in altri contesti, di famiglia, formazione o convivenza sociale.
Marco Paolini in Album d’aprile racconta di una meglio gioventù che giocava a rugby e «faceva squadra davvero, soprattutto per difendere la Iole del bar che andava sotto il palco del comiziante fascistone a dirgliene quattro». La sua affabulazione trasporta in fangosi campacci di periferia, ma dice insieme di un mondo e di una generazione, che giocava e inseguiva un sogno, come Nelson Mandela, raccontato da Clint Eastwood in Invictus, che, proprio nella Coppa del Mondo di rugby 1995, fa leva sullo spirito nazionale e spinge alla vittoria finale la squadra sudafricana degli Springbock, bandita dagli anni ’80 dal campionato a causa delle differenze razziali: anche lo sport fa democrazia!
Oppure fa il contrario perché poteri e regimi possono usarlo per distrarre, ottenere consenso e fregiarsi delle sue glorie. Se i romani storici, in origine, avevano affidato a una gara all’ultimo sangue tra Orazi e Curiazi le sorti del regno, gli imperatori successivi potevano infinocchiare il popolo somministrando adeguate dosi di panem et circenses, tramandando la lezione ai secoli a seguire.
Anche lo spirito di Olimpia si è perso con l’andar del tempo e i giochi universali, più che sospendere battaglie, attirano sponsor e accendono sul palcoscenico globale fiamme di nuovi furori o sacrosante aspirazioni, dal terrorismo di Monaco 1972 alle proteste pro Tibet di Pechino 2008. Per non parlare di nazionalismi e razzismi sfogati nelle guerriglie degli stadi, come il recente esempio serbo di Genova o gli striscioni e gli insulti delle curve indirizzati a giocatori dal colore di pelle sgradito.
Del resto la ricerca di modelli di comportamento, positivi o discutibili che siano, trova migliori convergenze nello sport che nella società. Alcuni campioni si trasformano in mito, come Pelé o Maradona; altri in storia, come Coppi e Bartali, altri ancora in testimonial griffati di boxer o telefonini. Alcuni fungono da opinion makers, altri si fanno notare nelle cronache mondane.
Dunque, nelle palestre, negli stadi o sulle piste c’è chi incrementa calciopoli e chi si tassa per la squadra del cuore, chi punta allo spettacolo e chi difende la sicurezza degli atleti, chi bara e chi è leale, chi si impegna e chi se ne approfitta, chi si trova e chi si smarrisce, chi guadagna e chi ci rimette, chi vince e chi perde. Insomma, lo sport e il mondo funzionano allo stesso modo, stessa la gente e inevitabili i travasi. Interpretare la sua cronaca, ripercorrere i suoi umori, dare un’occhiata al suo backstage, allora, può aiutare a capire qualcosa in più di ciò che ci avviene intorno e che, sportivi o no, ci riguarda e ci trasforma,
 
visto in TV
QUANDO L’AUDIENCE C’È
Giorgio Chiaffarino
Non è vero che da noi c'è solo cattiva televisione. Ci sono delle eccezioni, non molte, è vero, ma qualcuna c'è e una, clamorosa, è Vieni via con me di Fabio Fazio, Roberto Saviano con Abbado, Benigni, don Gallo e altri ospiti.
Un successo straordinario: 7.600.000 spettatori e il 24% di share (controprogrammazione: Il grande fratello!) la prima puntata e due milioni in più la seconda. Certo si sono viste lentezze e qualche approssimazione più del consentibile: difetti certo, se volete, ma un grande senso civile di cui si sentiva il bisogno.
Nel regno della disinformazione e dei talk show, Saviano si è presentato con la sola forza delle idee e della parola. Il monologo sulla Fabbrica del fango sarà difficile da dimenticare: una grande emozione e spazio a momenti di commozione, si spera, anche per gli animi più induriti e così anche per il successivo sulla purtroppo nota penetrazione delle mafie in Lombardia.
Un grandissimo successo solleva critiche, tutte lecite, ci mancherebbe e alcune anche azzeccate. Ma a pensar male… andreottianamente, si direbbe però che in qualche caso sono stati esibiti attacchi incoercibili di invidia.
Per fare una critica corretta prima ci si dovrebbe porre il problema di che cosa gli autori, e lo stesso Saviano, volevano fare per poi argomentare se ci sono riusciti o meno e il perché. Al proposito mi ha colpito la nota di Marco Travaglio, su il Fatto quotidiano dell'11 novembre scorso, che avanza una critica radicale al programma. I rilievi sono: aver evitato i temi più scottanti: mafia, stragi, monnezza, casi Dell'Utri, Cuffaro, Schifani; una malintesa par condicio tra pro e anti Falcone e la sua santificazione e, da ultimo, un conformismo "di sinistra" che non sarebbe un vero antidoto al berlusconismo: Saviano come presepe del perfetto progressista.
Conclusione: secondo Travaglio da Saviano ci si aspettava qualcosa di più (?). Ma anche il titolo del pezzo -al solito non sarà di Travaglio- Caro Roberto datti una spettinata, denuncia il tono e gli obbiettivi della musica. Che poi sul Fatto lui replichi l'attacco anche alla seconda puntata ha un senso sinistro di ossessione che non avremmo voluto dovergli riconoscere.
Bene: i milioni di italiani che erano al video giudicheranno. Il torto fondamentale di Saviano sembra che sia stato quello di non voler scimmiottare Travaglio né di accodarsi alla abituale telerissa. Ma invece lo scopo è sembrato piuttosto quello di fare un’operazione culturale, proporre una riflessione seria su uno stile che manca e che fa di un paese un paese civile, il caso della fabbrica del fango come paradigma della crisi strutturale che ha travolto questa Italia. Una televisione di qualità, è stato detto, che non vuole necessariamente essere di sinistra o di opposizione, fatta non solo da grandi, ma anche da cittadini per i cittadini. Uno straordinario successo, dunque, a dimostrare che, permettendole, le idee e le capacità si fanno strada e tutte emergono. pudori atavici.
 
film in giro
LA PECORA NERA
di Ascanio Celestini, Italia 2010, colore, 93 min. 
Franca Colombo
Dieci minuti di applausi al festival di Venezia 2010, dieci minuti per scaricare l’ango-scia dei minuti di proiezione. Le immagini del bambino infilzato sulle punte del cancello, della donna immobilizzata sul letto di contenzione, del vecchio sbattuto per terra nell’indifferenza generale non sono facilmente accantonabili. Le figure immobili dei matti, sedati e seduti, con lo sguardo perso nel vuoto; le piastrelle bianche su tutte le pareti del manicomio, avvolgono, come in una bolla d’aria, quel mondo separato da noi. Un mondo a parte? O un mondo simile al nostro dove tutte le emozioni, i desideri, le attese, gli abbandoni vengono solo ingigantiti come in uno zoom al 500%? Forse l’angoscia nasce appunto da questo dubbio e dalla percezione che i due mondi si sfiorano e si intersecano continuamente. I confini tra realtà e immaginazione, tra ragione e illusione sono così esigui che spesso si confondono. È matto il bambino che aspetta i marziani per evadere dal suo dolore, mangia pillole marziane fatte di cacca o sono folli i fratelli che lucidamente sfruttano e uccidono una puttana? È matto il ragazzo che compie gesti ossessivi per tenere ogni cosa al suo posto o quello che sogna atti trasgressivi, per leccare la donna che ama? 
«Il manicomio è un «condominio di santi e il direttore è il più santo di tutti, anzi è Gesù Cristo». Allora, è più matta la suora che elabora questa costruzione mentale, tra un rosario e l’altro, o il ragazzino che la demolisce perché «la suora non può essere una santa perché puzza e fa 130 scorregge al giorno?» Ma in mezzo a questa altalena di verità e invenzioni, c’è un punto fermo nel film, che brilla come una faro e illuminare la realtà quotidiana dei protagonisti (…e forse nostra): il supermercato. Simbolo e metafora del nostro bisogno di sicurezze, dove c’è tutto e tutto è al posto giusto. Ma nel momento in cui viene a mancare un tassello in questo puzzle di oggetti organizzati negli scaffali, crolla anche l’impalcatura che sostiene il nostro equilibrio mentale, si rompono gli argini che separano realtà e immaginazione e la furia devastatrice ha il sopravvento. Non resta che il letto di contenzione. Una sottile denuncia delle istituzioni globali dei favolosi anni ’60.
Un film da vedere ma solo se si è forniti di un buon digestivo.
 
botta e risposta
SUL SISTEMA ITALIA
Giorgio Chiaffarino a Sandro Fazi
Ho letto, sostanzialmente consentendo, la riflessione di Sandro Fazi sullo scorso numero di Notam (Sistema Italia - 8.11.2010 nr. 361). Concordo anche che «il Gruppo (Fiat)… può essere una straordinaria fortuna per l'Italia». Mi hanno però colpito alcune affermazioni dell'uomo col maglione. Per esempio quella nota «non un euro dall'Italia…» e altre meno visitate come «in Polonia una fabbrica con X operai facciamo Y vetture e in Italia invece con N stabilimenti…».
In effetti, dopo un iniziale silenzio dei commentatori, qualche rilievo si è poi visto. Il paragone di Marchionne non regge. Come confrontare la Polonia, una fabbrica che lavora a pieno ritmo con modelli che il mercato assorbe bene, con l'Italia dove, è vero, le fabbriche sono tante, ma obsolete, e producono modelli vecchi poco richiesti, a ritmo ridotto, spesso con periodi (a carico dello stato) di cassa integrazione? Ci sarà il problema dell'assenteismo e dei menefreghisti, come dice Sandro, fenomeno urgente da combattere, ed è vera, aggiungo la tendenza del sindacato (almeno tempo addietro) di tutelare più i non lavoratori che i lavoratori, ma allora è solo un problema degli operai o anche, e soprattutto, di strategie, di modelli più o meno richiesti dal mercato e di programmi di produzione aziendali? Molti dicono che la Fiat manca di modelli nuovi nelle fasce medie o medio alte che, pare, sono le più profittevoli per i produttori (vedi Audi, BMW, Volkswagen). Leggo poi che l'ultimo modello nuovo verrà prodotto in Serbia. E in Italia? Verrà la Panda in Sicilia, ma è forse un nuovo modello? È certo che così… nemmeno un euro! E come potrebbe essere diversamente?
Ma a questo punto la bella domanda… sono due! Siccome è assolutamente improponibile che Marchionne non sappia queste cose, perché ha fatto ugualmente quella affermazione, parziale se non addirittura sbagliata? E la seconda è: come mai Fabio Fazio, che si prepara così bene alle interviste, non gli ha fatto, oltre alla prima (il solito vizio italiano), anche la seconda e, se del caso, la terza domanda? Avremmo potuto capire qualcosa di più sulle sue intenzioni invece di veder spostata l'attenzione sulla Fiat che lascia o non lascia l'Italia. Facile la risposta di Marchionne: no, non lascia. Ma in che condizioni rimane?
Una piccola riflessione finale: benissimo il risanamento, come dice Sandro, ma forse è almeno lecito qualche dubbio che il sistema Fiat sia in ogni caso quello giusto per ottenere il risultato qui in Italia.
Il Gallo da leggere                                                   u.b.  
Il quaderno del Gallo di novembre pubblica nelle pagine centrali una breve e incisiva selezione di poesie di Giovanni Raboni, uno di maggiori poeti del nostro tempo che non esita a prendere posizione sulla inquietante situazione del paese, presentate da Germano Beringheli. Ritroviamo l’attualità in un articolo di Maria Rosa Zerega che rilancia il problema della schiavitù delle donne anche a Genova, con un esempio di una che ce l’ha fatta; e in un’analisi di Dario Beruto dei pericoli del ritorno al nucleare sotto cui si muovono interessi non dichiarati. Ma il presente affonda le radici nella storia e cominciamo a occuparci dei centocinquanta anni dell’unificazione di cui Aldo Badini parla pensando anche al prossimo futuro. Luciana D’Angelo, con una attenta recensione, cerca il senso della Nona sinfonia di Beethoven. Per l’attualità religiosa Ugo Basso riferisce del convegno organizzato a Napoli dal coordinamento Il vangelo che abbiamo ricevuto, mentre per la riflessione religiosa Jean-Pierre Jossua avvia una lunga panoramica sul senso dell’essere cristiani nel mondo contemporaneo, che illustra la cristianità a chi ne voglia avere una corretta e aggiornata visione e che pone profondi interrogativi a chi cristiano intende essere; Mariateresa Aliprandi, attraverso citazioni bibliche, offre una originale e suggestiva visione della parte terminale della vita. E naturalmente parecchio altro fra cui tre considerazioni su diversi passi evangeli di Angelo Casati, Maria Pia Cavaliere e Vittorio Soana.
segni di speranza                                                                     s.f.  
«ALLORA APPARIRÀ NEL CIELO IL SEGNO DEL FIGLIO DELL’UOMO»
Matteo 24,1-31
Come ogni novembre, un ciclo liturgico è finito, quello definito C, e, con l’avvento, riprende il ciclo A. Incontreremo testi analoghi o uguali a quelli sui quali abbiamo già riflettuto, anche se i racconti saranno presentati talvolta da angolature diverse, con altre sottolineature, finalità e dettagli. La liturgia è una catechesi continua, ripetuta e insistita, tuttavia ci sfuggono, lo dico per me, i significati di alcuni gesti e passaggi rituali, che ripetiamo per abitudine, anche perché tanti gesti ci appaiono in parte pletorici e solo scenografici e, questa è la nostra impressione, forse potrebbero essere utilmente semplificati. Comunque la nostra partecipazione, talvolta distratta e svogliata, potrebbe essere più coerente con una spiritualità adulta. Spesso la scelta della celebrazione è guidata dalle circostanze e l’inte-resse è concentrato sul sacerdote officiante. Probabilmente questo atteggiamento non è molto corretto, specialmente se consideriamo che il commento delle scritture non è la parte più pregnante della celebrazione, che è ovviamente racchiusa invece nel mistero della eucaristia, che non approfondiremo mai sufficientemente. Ma, innanzitutto, possiamo anche chiederci se continuiamo a considerare importanti e utili le celebrazioni eucaristiche o se anche queste sono partecipate solo per abitudine, magari anche da noi.
Il brano evangelico di questa prima domenica di avvento presenta il così detto discorso escatologico, sulla fine del mondo prefigurata dalla distruzione di Gerusalemme. Sono previsti eventi ovviamente straordinari, di grande dolore, preannunciati da segni apocalittici: guerre, carestie, terremoti, e cosi via, molti dei quali purtroppo ci sono già alquanto familiari; cosi familiari che non li abbiamo mai considerati premonitori della fine del mondo. Questo, il mondo, formatosi in qualche miliardo di anni (tre e mezzo, secondo gli ultimi studi) dovrà certamente finire; la scienza ci dice qualche cosa sulle ipotesi possibili; ma nel testo che consideriamo si prevede che prima che questo accada verrà un giorno in cui «tutte le tribù della terra vedranno il figlio dell’uomo venire sulle nubi del cielo con grande potenza e splendore». Il racconto, per la verità piuttosto confuso, afferma quindi che finalmente alla fine dei tempi il Signore si manifesterà in quella gloria e potenza che forse ci saremmo aspettati fin dall’inizio. Questa immagine del Cristo Re è più consona alla idea di Signore Onnipotente che non quella dell’uomo della croce, alla quale tuttavia ormai noi aderiamo totalmente e definitivamente; tutto il messaggio del Figlio di Dio è per noi racchiuso nella croce, e non lo metteremo in discussione .
Il Cristo quindi tornerà un giorno: ma chi troverà ad aspettarlo? Le chiese si stanno svuotando, per ragioni anagrafiche prima di tutto, ma forse anche perché il cristianesimo è, di fatto, contro le aspettative, risultato inutile contro il male del mondo e contro le difficoltà che non riusciamo a risolvere da soli. Non dobbiamo però dimenticare il monito di Bonhoeffer a «vivere con Dio e davanti a Dio, ma senza Dio».
Prima domenica di Avvento ambrosiano
nel deserto                                                            m.z.
LA NOSTRA LETTURA DEL LIBRO DEI NUMERI - cap.1-5
Riprendiamo a mettere in comune con queste note la sintesi dell’incontro mensile sul Libro dei Numeri, consapevoli naturalmente dell’impossibilità di rendere in questo spazio la ricchezza e la vivacità di tutto quello che ci siamo detti.
Il primo giorno, del secondo mese, il secondo anno dell’uscita dal paese d’Egitto, Dio parla e chiede il censimento degli Israeliti. È l’inizio dell’organizzazione del popolo.
Il Signore dà a Mosè e Aronne i nomi di coloro che liassisteranno e le indicazioni: «Fate il censimento di tutta la comunità degli Israeliti, secondo le loro famiglie, … contando i nomi di tutti i maschi… dall’età di venti anni in su, quanti in Israele possono andare in guerra». Il Signore chiede la conta di dodici tribù e dei Leviti, che non sono parte di esse. «Della tribù di Levi non farai censimento. Ecco, io ho scelto i Leviti al posto di ogni primogenito… degli Israeliti; i Leviti saranno miei, perché ogni primogenito è mio».
I Leviti sono del Signore. Non hanno insegna né terra. Hanno l’incarico di occuparsi e proteggere la Dimora e si accamperanno attorno a essa. Il Signore disse a Mosè: avranno ruoli diversi, a seconda delle famiglie.
Altre leggi sono date dal Signore a Mosè per la comunità: l’espulsione degli impuri, la ricompensa dei torti, il giudizio divino di fronte all’infedeltà senza prove della donna.
Nell’incontro è stata sottolineata l’epicità di questo inizio: la comunità degli Israeliti è uscita dall’Egitto e si sposta nel deserto verso la Terra. Ha ricevuto dal Signore, attraverso Mosè, le tavole della Legge, ma non è ancora popolo. Il Signore parla a Mosè e dà le sue indicazioni per costruire una comunità organizzata. Dà regole che ogni singolo deve applicare per il mantenimento della solidità dell’organizzazione, perché ogni danno fatto dal singolo ha un effetto negativo sulla comunità. Come atto iniziale, il Signore fa la conta, e quindi prende possesso, degli Israeliti. Conta le forze che ha per conquistare la Terra (per questo «dai venti anni in su»). Come atto iniziale chiarisce anche il ruolo dei Leviti: sono del Signore fin dalla nascita, al posto di ogni primogenito.
Questo libro è stato scritto a distanza di secoli dagli avvenimenti descritti, quindi è molto probabile che i dettagli siano riportati con modalità e per ragioni attinenti più all’obiettivo della scrittura che a fedeltà storica di fatti comunque mitizzati. Tra questi:
§         Il numero delle persone: la somma dà circa seicentomila maschi, che porterebbero a circa due milioni di Israeliti. Non si ha riscontro nella storia di una migrazione così importante. Si è trattato quindi di un’enfasi voluta, forse per sottolineare il compimento della promessa di Dio ad Abramo; forse per dare fiducia al popolo di Israele.
§         La genealogia: dà senso di unità, in mancanza di una organizzazione sociale. E mantiene il suo valore in seguito, dando continuità storica. Le dodici tribù sono scandite in un elenco rigoroso e il loro numero riportato una per una.
§         La scelta dei Leviti per il Signore: non hanno terra e insegna e si occupano della Dimora. Non si accampano ai quattro angoli del campo, ma al centro, attorno a essa. La proteggono e se ne curano e vivono con il denaro che gli Israeliti danno loro a riscatto dei primogeniti eccedenti.
§         Le regole: per una comunità non hanno necessariamente un valore etico. Sicuramente hanno un valore pratico, per la sopravvivenza e la compattezza dell’organizzazione. Neppure l’impurità per gli ebrei ha valore etico (per esempio partorire era considerato impuro), ma esige un rito di purificazione.
§         Le ripetizioni: sottolineano l’osservanza alle indicazioni che il Signore ha dato a Mosè. Vengono scandite più volte, a ribadire quanto in esse contenuto.
Alcuni interrogativi sono scaturiti da questo inizio:
§         Nei Numeri assistiamo a una celebrazione della struttura, con assegnazione e suddivisione di compiti, ruoli e potere. L’organizzazione è di tipo militare con regole inderogabili. Ci sono i soldati e i sacerdoti. Quanto di questo è necessario oggi? Il tempio? Il potere dei sacerdoti? C’è stato, attraverso i secoli, uno smussamento delle pene: il sacrilegio non è più punito con la morte. Ma l’effetto di questo ha portato con sé un allentamento del rigore, di cui dobbiamo prendere atto e su cui dobbiamo lavorare. Come? Da soli?
§         Siamo in una teocrazia; Dio è sopra tutto, Mosè e i Leviti sono i suoi mediatori. È oggi necessaria questa mediazione? A ogni costo?
§         Il Sacro va gestito, in quanto espressione di una potenza, altrimenti può essere distruttivo. Nel tempo la paura è scomparsa e ha acquistato familiarità. Siamo noi oggi in grado di vederlo come un patrimonio e non un potere?
§         Gesù ha rivelato il volto misericordioso del Padre e noi oggi crediamo in un dio che è Amore. E a noi che cosa ha chiesto Gesù? Una chiesa organizzata in gerarchia? Sacerdoti che costituiscono una casta? Il tempio? Di vivere cambiare la nostra vita ogni giorno?
schede per leggere                                             m.c.   
Pur se il tempo è tiranno, e non concede grandi spazi alla lettura, non posso non proporre a chi è interessato al mondo della Bibbia un testo che si percorre in poche ore, ma che è capace di condurre in una dimensione essenziale di vita; autore del Canto del viaggio (Edizioni Qiqajon, 2009, pag. 86, euro 7,50) è Jean-Pierre Sonnet, un gesuita belga docente di sacra Scrittura presso la Gregoriana di Roma.
Se per noi la Bibbia è «libro da portare con sé e bussola per chi la porta … tra le strade della Bibbia e quelle dei suoi lettori, le prime da percorrere sono le parole: il primo pellegrinaggio è la lettura». Così, confortati di essere su una strada che porta a paesaggi sempre nuovi, ci mettiamo al seguito di Adamo, che parte dal giardino per immettersi nel suo destino di homo viator, di Abramo, che lascia la sua terra e «va» incontro al suo destino; di Mosè, nell’esperienza traumatica e liberatrice dell’«uscita» dall’Egitto; di Elia, che nel deserto incontra il suo Signore. Dai profeti e dai salmi, il canto della salita alla città santa si concluderà con il Pellegrino per eccellenza, che lungo le strade della Palestina salirà a Gerusalemme per testimoniare l’onnipotenza dell’amore.
Giunti alla fine del viaggio, dice l’autore, ci sentiremo trasformati come Giuseppe, che intuisce «l’arte del Dio di Giacobbe di volgere in bene tutto il male di cui gli uomini sono capaci, le miserie che i fratelli si infliggono» (Gen. 50,20). Leggendo, cerchiamo di imparare e di crescere.
Leggere per divertirsi, e riflettere nello stesso tempo: questo è quello che offre Ken Follet, scrittore inglese di grande successo; come attestano i suoi libri migliori, fra cui La cruna dell’ago, Triplo, Il codice Rebecca, Un letto da leoni, i Pilastri della terra, è unanime il riconoscimento della sua abilità nel costruire storie, situandole in contesti storici e ambientali veri e documentati, che rimangono impressi nella memoria. Pur se alcuni dei suoi testi più recenti rivestono evidenti fini commerciali, il suo ultimo libro, La caduta dei giganti (Mondadori 2010, pagg. 995, euro 25,00) risponde invece con efficacia all’ambizione di raccontare le società e gli eventi del secolo scorso; sembra sia il primo di una trilogia, e abbraccia gli anni che vanno dal 1911 al 1924.
Si intrecciano, nel libro, più filoni che, attraverso la vita di personaggi di fantasia, fanno emergere diverse realtà: quella inglese, con lo sfruttamento dei poveri nelle miniere di carbone, l’arroganza della nobiltà, i fermenti politici e sociali che porteranno alla sua graduale trasformazione; quella russa, con la inettitudine e l’ottusità di una classe dirigente che sarà spazzata via dalla forza e dalla capacità dei bolscevichi; quella americana, con la sua potenza economica e militare che darà un fondamentale contributo alla sconfitta della Germania, e con le sue illusioni, che daranno vita alla fallimentare Società delle Nazioni.
Il quadro storico è dettagliato, e molti sono i personaggi realmente esistiti, i loro discorsi, gli intrighi, le decisioni che portarono a una guerra che si pensava dovesse terminare in pochi mesi e che diventò per anni una vera e propria carneficina. E’ davvero interessante ripercorre nel libro le principali tappe che, come un fiume senz’argini, trascineranno l’Europa in un conflitto criminale e assurdo; le battaglie, le stragi, l’incapacità dei comandi militari, gli ordini senza senso; e anche l’esaltazione di chi combatte, con la perdita di ogni sentimento se non quello di annientare il nemico. Tutto ciò si vive dal di dentro, attraverso azioni e pensieri di esseri umani e si rimane davvero sbalorditi di fronte all’insipienza, la irrazionalità e la ferocia che guidarono allora il destino di interi popoli, e gettarono il seme dei futuri, feroci regimi dittatoriali.
Il romanzo è lungo, ma si legge agilmente, e ha il merito di portare a conoscenza di un vasto pubblico ciò che troppo spesso rimane nascosto nel segreto delle cancellerie. 
la cartella dei pretesti 
Se t’importa solo della forza relativa degli USA o del Regno Unito nel mondo, allora c’è da essere molto spaventati. Nel caso degli Usa, il 1945 è stato il nostro picco massimo, in termini relativi. Da allora altri paesi dall’Europa all’Asia hanno ricostruito e sono diventati più prosperi, ma credo di non essere abbastanza nazionalista per vedere tutto in termini negativi […] Penso sia un bene che gli scienziati cinesi lavorino a farmaci oncologici, perché, se mio figlio avesse il cancro, non guarderei certo se sull’etichetta c’è scritto «made in China». E dobbiamo augurarci che si mettano a lavorare anche sui vaccini e sull’energia.
BILL GATES (intervista a Gideon Rachman), Il business più bello? È la beneficenza, Il sole 24 ore, 31 ottobre 2010.
Certi ministri, quando parlano, devono ricordarsi che non sono cittadini comuni al bar. Non possono dire certe cose. Semplicemente non possono.
VALERIA GOLINO (intervista a Valerio Cappelli), Il caos dei licei in un film-verità, Corriere della sera, 27 ottobre 2010.
Fra mille storie di ordinario razzismo colpisce di più quella di quanti, come certi vigili urbani o certi impiegati di uffici pubblici, davanti alla carta d’identità con scritto sopra «nazionalità italiana», ancora insistono: «Ma dov’è il permesso di soggiorno?»
GIAN ANTONIO STELLA, Mille piccole storie di ordinario razzismo, Corriere della sera, 17 novembre 2010.
Hanno siglato le rubriche: 
Ugo Basso, Sandro Fazi, Mariella Canaletti, Margherita Zanol
Notam,lettera agli Amici del Gruppo del Gallo di Milano - www.ildialogo.org/notam
quelli di Notam
Giorgio Chiaffarino, Ugo Basso; Aldo Badini, Enrica Brunetti, Mariella Canaletti, Franca Colombo, Sandro Fazi, Fioretta Mandelli, Chiara Picciotti, Margherita Zanol
Corrispondenza:info@notam.it
Giorgio Chiaffarino, Via Alciati, 11 - 20146 Milano ® Ugo Basso, Via Muratori, 30 - 20135 Milano
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del , 22 novembre 2010 - S. Cecilia - Anno XVIII - n. 362


 

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Martedì 23 Novembre,2010 Ore: 12:08
 
 
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