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Notam

8 novembre 2010 - S. Goffredo - Anno XVIII - n. 361


Notam

«Ecco cosa dovrete fare: dirvi reciprocamente la verità» (Zaccaria 8,16)
 
 
Milano, 8 novembre 2010 - S. Goffredo - Anno XVIII - n. 361
 
TRENTA RIGHE DI ATTUALITÀ
Margherita Zanol
Il Presidente del Consiglio prosegue con l'alternanza di dichiarazioni e smentite. A volte allo stesso, a volte rivolgendosi a interlocutori diversi: ha dichiarato alla stampa tedesca di non avere voluto una legge che copra le sue malefatte, ma poi, in Italia, la chiede a gran voce.
Si riapre l’argomento delle sue frequentazioni e, questa volta, sull’uso del suo potere per togliere dai guai una ladruncola minorenne, che aveva in precedenza accolto a casa sua, spacciandola, pare, per la nipote di Mubarak. E. Quella notte ha chiesto e ottenuto dalla questura la sua liberazione e da un giudice minorile l’affido a un’altra giovane donna, questa volta consigliere regionale del Pdl, dai trascorsi molto chiacchierati. L’affido, come ha detto qualcuno, è un bene prezioso per i ragazzi che ne usufruiscono, per le persone che si rendono disponibili all’accoglienza, per la società, ma non si risolve con una telefonata.
A sua giustificazione il Presidente del Consiglio ha detto:
§    Sono un uomo che ama la vita e le donne e conduco uno stile di vita di cui vado or-go-glio-so.
§ Ho aiutato una ragazza in difficoltà, come aiuterei lei (la giornalista) anche se mi fa queste domande sbarazzine (sic!).
§    Non posso avere abusato dei miei poteri, perché il Presidente del Consiglio non ne ha nes-su-no.
Forse il Presidente del Consiglio è davvero malato, come dice la sua ex moglie. Mi domando però da che cosa sono affetti i suoi stretti collaboratori. Di alcuni si parla come di persone intelligenti e abili. Sono invece insipienti? Lo manovrano per raggiungere obiettivi più disastrosi ancora? Davvero non riescono a opporsi alla sua caparbia presunzione? O perché tutto il gruppetto è in ostaggio di qualcuno che manovra tutti, capo compreso? A oggi la chiesa non si esprime attraverso le sue autorità maggiori. È stata sempre sensibile al denaro e probabilmente ne riceve a volontà.
Su altri fronti, la Lega, scandalizzata da decenni sui comportamenti della Roma ladrona, adesso che ha i numeri, si comporta esattamente come l'oggetto delle sue contumelie. Solo con più grettezza. In linea con i modi che la contraddistinguono.
Dopo più di due mesi dalla scomparsa di Sarah Scazzi e un'invasione totale, con commenti e pettegolezzi, di tutti i canali generalisti, L'Agcom dichiara «Basta spettacolarizzazione». Ben alzata! L'opposizione è morta. Come ha detto Vauro, è inutile che «si alzi e cammini», perché tanto non sa dove andare. E forse è morta anche la cosiddetta società civile, se è vero che Fli, che fa del rispetto delle regole una sua bandiera, raccoglie il 5-6% di consensi.
E noi? «Piccolo uomo, oggi è la tua festa/e la tua donna è pronta per l'amore;/tuo figlio è in piazza, grida la protesta/ per il Vietnam; “Ma è così lontano!”,/tu pensi e ridi e poi scuoti la testa/e cerchi il seno caldo con la mano». Così inizia una canzone di Paolo Ciarchi negli scorsi anni Sessanta. C’è sempre una ragione per dire che noi siamo diversi. Ma forse non è vero. Chi ha detto: «Non è che non mi piace Berlusconi in sé, non mi piace Berlusconi in me»?
in questo numero                             
U. Fazi SISTEMA ITALIA uF. Mandelli DOMANDE SENZA RISPOSTA uE. Peyretti UN POVERO UOMO uM. Canaletti RENZO FABRIS E IL DIALOGO u  F. Colombo UOMINI ALTROVE u abbiamo partecipato U. Basso TESTIMONIANZE DELLA RESISTENZA MILANESE uE.Camesasca CHE BELLO SENTIRSI DIRE GRAZIE! u film insieme E. Brunetti GRAN TORINO u sottovento g.c. u segni di speranza s.f.u la cartella dei pretesti
SISTEMA ITALIA
Sandro Fazi
In questi giorni non si può non parlare di Marchionne, amministratore delegato (ad) del Gruppo Fiat, in questo momento la persona più importante di Italia, e non possiamo non prendere posizione rispetto a quello che ha detto recentemente. Propongo alcune mie considerazioni con un auspicio.
I dati sono chiari (Repubblica, 22 ottobre 2010 e intervento televisivo di Marchionne del 24 ottobre): le previsioni del bilancio Fiat del corrente anno fanno prevedere una forte crescita del Gruppo, nonostante le sofferenze del mercato italiano; il bilancio è salvato dalla attività degli stabilimenti esteri ed è stato detto che non un euro del bilancio è stato guadagnato dagli stabilimenti italiani (?!?); il programma di internazionalizzazione del Gruppo procede bene; la strategia che guarda alle aree dell’estremo oriente e al potenziamento di quelle già in parte conquistate (Sud America) è confermata.
Il gruppo Fiat, sull’orlo del disastro solo pochi anni fa, si può sedere oggi al tavolo dei grandi attori del mercato mondiale dell’auto cui non aveva mai partecipato. L’unione con la Chrysler, per la quale Marchionne aveva presentato l’unico progetto di salvataggio «credibile» –così definito da Prodi sul Messaggero del 28/10/10 citando il prof. Rattner al quale Obama aveva affidato l’incarico di salvare e rilanciare l’industria automobilistica americana-, ha dato al gruppo una fisionomia e una consistenza nuovi. La trasformazione alla ricerca di maggiore efficienza e capacità produttiva non è certo terminata: gli impianti italiani sono in parte obsoleti e dovrebbero essere rinnovati al livello di quelli esteri più recenti, ma il Gruppo ha comunque ora le carte in regola per essere un interlocutore ascoltato.
Per quanto tempo ancora il Gruppo resisterà alla tentazione di marginalizzare le attività italiane lo vedremo in seguito. Al momento gli elementi di cui il Gruppo dispone sono molto importanti: ha un leader apprezzato internazionalmente che è elemento prioritario e determinante (il Rattner lo ha definito «uomo di grandissime capacità e ambizioni, e di una resistenza al lavoro mostruosa»); ha una strategia di grande respiro, sulla traccia di altri gruppi europei benedetti già da importanti successi; ha le risorse finanziarie necessarie perché il mondo finanziario ha fiutato e accettato il cambiamento. La società quindi si sta attrezzando per i tempi attuali e a venire. Anche lo stile e il linguaggio sono cambiati: il parlare dell’ad è diretto, semplice, efficace, di stampo sicuramente anglosassone, come serve.
Questo Gruppo chiede ora alla sua struttura e alla società nella quale opera efficienza, responsabilità, rispetto dei doveri. È certamente ingiusto e sbagliato cancellare con un colpo di spugna tutta la storia dei rapporti Fiat-Stato italiano: «i conti sono stati pareggiati». Troppo semplice, troppo comodo, non fa chiarezza. Ma, a mio avviso, non è questo il punto su cui meriti fermarsi; non serve rimescolare il passato. Con le contrapposizioni e le recriminazioni non si va da nessuna parte.
Oggi l’evoluzione di questo Gruppo può essere vista come una straordinaria fortuna per l’Italia, una occasione per fare entrare nel nostro cortile soffocato una ventata di quella aria fresca di cui abbiamo bisogno. I criteri di gestione industriale impongono efficienza, serietà, rispetto dei doveri contrattuali. Di questo dobbiamo prendere atto. L’assenteismo non è un diritto. Come non lo è il menefreghismo, che si affida poi allo Stato per pareggiare i conti. Smorziamo le rivendicazioni. Sappiamo tutti che è la disoccupazione il centro del problema. Ed è ovvio che l’efficienza debba essere migliorata: lo dicono i dati e non perdiamo tempo dietro agli affabulatori che sostengono il contrario.
È ovvio che il miglioramento comporti sacrifici aggiuntivi. E allora? dove è il problema? Alla guerra come alla guerra! Certo il miglioramento non dovrebbe essere sempre sulla pelle dei più deboli; ma purtroppo cosi va il mondo: siamo diventati grandi sulle spalle di tanti milioni di poveri operai emigranti e non, che con fatica poi a loro volta hanno trovato stabilità e fortuna per sé e le loro famiglie. Questa è la nostra storia, ora riprende il ciclo: è il momento di parlare di doveri più che di diritti. È amaro, ma è cosi, prendiamone atto. Concentriamoci piuttosto perché la gestione sia basata sulla coabitazione, sul dialogo, sulla corresponsabilità. In Germania una stretta collaborazione tra impresa-governo-sindacati sta funzionando. La proprietà Fiat è per definizione disponibile a questo tipo di incontro che ormai si studia sui manuali; verifichiamola nei fatti. Il sindacato non si tiri indietro; dimentichi gli ideologismi che riaffiorano e gli slogan di altri tempi; operi principalmente per impostare una collaborazione che ancora manca.
Utilizziamo anche l’effetto Obama che ha dato una imprevedibile apertura di credito all’Italia. Non ostacoliamo la trasformazione Fiat, ma anzi cerchiamo di estendere gli stessi criteri di risanamento ad altri ambiti del nostro sistema produttivo e non solo. Se ci riuscissimo, la crisi, che purtroppo stiamo ancora soffrendo, potrebbe risultare anche salutare.
 
DOMANDE SENZA RISPOSTA
Fioretta Mandelli
Il racconto dell’esperienza con il nipote diciottenne e le riflessioni esposte da Franca Colombo su Notam 358 mi invogliano a continuare il discorso.
I nostri nipoti scoprono i rapporti sessuali spesso anche prima dei diciotto anni. Per loro la prima vera cotta comporta –di solito dopo un periodo non troppo lungo in cui stanno insieme– di arrivare al rapporto sessuale completo. Inizia così tra i due un perio- do di vita quasi in comune e alcune volte uno dei due si trasferisce occasionalmente a casa dell’altro. È un periodo di solito felice, fanno insieme esperienze di vacanze, di lavoro, certe volte di impegni di tipo sociale. Prima o poi però la coppia quasi sempre si scioglie. Ne soffrono? Certamente almeno uno dei due, quello che si sente lasciato. Però dopo un certo periodo di tempo, più o meno lungo, nasce un altro amore, e si forma una coppia con un altro partner: una nuova esperienza, che spesso sembra far progredire ciascuno dei due, e che si accompagna a una diversa fase di metamorfosi e di crescita. È destinata probabilmente anch’essa a finire, finché una di queste fasi viene vissuta come possibilmente definitiva, e si prova a vivere insieme. Poi qualcuno anche si sposa.
Io sento davvero di appartenere a un passato remoto, visto che ero adolescente poco meno di settanta anni fa. Da allora il mondo è cambiato così rapidamente e integralmente come forse mai nella storia della umanità. E, nella nostra cultura occidentale, è cambiato forse soprattutto per ciò che riguarda il campo dei rapporti dell’individuo con il proprio corpo e con la sessualità, e dei due sessi tra loro.
Per noi il sesso prima del matrimonio (per la donna!) era assolutamente tabù, e per la coppia era qualcosa cui si poteva arrivare appunto solo dopo un impegno, che si dava per scontato sarebbe durato tutta la vita. Allora non mettevo in questione quanto mi veniva trasmesso dalla mia educazione, tanto più che ai precetti sul comportamento sessuale si attribuiva una valenza religiosa. Debbo dire però che la mia esperienza e le esperienze che vedevo intorno a me e con cui venivo a contatto anche per i miei compiti educativi mi hanno portato, già molto prima della rivoluzione sessuale, a mettere decisamente in questione tutto ciò che riguardava la castità prematrimoniale, fonte –non ne ho dubbi– di difficoltà per tutti e di infelicità e malintesi durevoli per molti.
E ben presto mi sono anche resa conto di come a quei precetti non corrispondesse alcun valore genuinamente religioso. Così ho accompagnato con comprensione e valutazioni positive le esperienze che vedevo fare dai giovani, ben diverse dalle mie, che presupponevano una visione molto più libera e gioiosa della sessualità, e che mi parevano e mi paiono poter essere una preparazione molto più valida a una scelta impegnativa come quella del formare una coppia con l’intenzione di fondare una famiglia. Tuttavia sono ben lontana da avere idee chiare in questo campo, e mi chiedo quale sia la direzione che stiamo prendendo, dove ci porti la grande libertà, ma anche la confusione che regna in questi ambiti. Quaranta anni fa mi ero occupata a lungo di educazione sessuale; ho studiato e discusso per anni su come orientare e anche su come informare bambini e adolescenti sul sesso. Ricordo che ci trovavamo quasi sempre davanti a situazione di ignoranza, certe volte anche di timore e di preoccupazione, specie negli adolescenti. Ma alla fine degli anni settanta ho deliberatamente smesso di occuparmi di questo aspetto dell’educazione, proprio perché io stessa avevo idee sempre più incerte, e non mi sentivo più di dare nessun orientamento specifico. 
Se osservo questi ragazzi e ragazze che vedo crescere sotto i miei occhi devo constatare che sono disinibiti, ma anche seriamente informati. Certamente molti ragazzi di oggi vivono il sesso totalmente separato dall’amore, in modo episodico, spesso anche psicologicamente e fisicamente rischioso. Ma molte di queste coppie che durano mesi, un anno, o anche di più, rivelano nel loro modo di comportarsi di nutrire reciprocamente sentimenti di confidenza, di rispetto reciproco, di tenerezza, di comprensione, che fanno pensare che tra loro non ci sia solo sesso, ma certo anche amore. Quale amore? Quando penso a quel tipo di amore coniugale che noi siamo stati educati a considerare come l’unico lecito e l’unico che ci era destinato, vedo certo una grande differenza tra noi e loro, ma non saprei dare una risposta. E quello che mi rende più perplessa è il pensare al loro futuro. Questo apprendistato amoroso li prepara a una scelta equilibrata che possa garantire alla coppia anche una continuità?
La mia esperienza personale mi induce a dare un grandissimo peso alla continuità dell’amore coniugale per la felicità della vita. Ma pare che ormai la durata per tutta la vita stia diventando qualcosa di raro. Nascono nuovi modelli di coppie e anche di famiglie. È vero che ci sono strade diverse per arrivare a essere felici. Ma mi pare inevitabile porsi molte domande: forse la coppia sta diventando sempre più centrata sullo scopo di far vivere ai suoi componenti un periodo felice, senza porsi problemi di responsabilità? La coppia appare sempre meno capace di costruire un progetto comune, che richieda tempo e impegno per essere realizzato.Ma la famiglia è un progetto, che presuppone anche i figli con le responsabilità che ne derivano: è possibile assumersi questo impegno senza accettarlo anche come un vincolo? È possibile maturare passando da un amore episodico a un amore fedele? Ed è davvero necessario che si arrivi a questo, per costruire non solo la propria felicità, ma anche una famiglia felice?

UN POVERO UOMO
Poveruomo! Perduta la donna che un tempo ti confortò, ora ne trovi una che consola la tua solitudine, o che sollazza il tuo machismo? Accettala. Se chiede soldi, pagala. È affare tuo, se non conosci livelli migliori di umanità. In fondo, tu vali per i tuoi soldi, e lei non può o non sa vivere  diversamente. Non è affare nostro, non riguarda la «cosa di tutti», la  repubblica. Ma non permetterti di usare donne disorientate, o disperate! Questo è affare nostro, di tutti, perché il  prepotente e corruttore offende tutti. Non permetterti! Tanto meno se sono donne deboli, come sono fisiologicamente deboli di orientamento, di tutela sociale, di esperienza, i giovani e le giovani, specialmente oggi, fatti  bersaglio della propaganda dei consumi infiniti, anche del consumo di sé stessi. […] Non ti è lecito abusare del fascino del potere, che è fumo, come vedrai presto, quando ancora non te lo aspetterai, perché sei drogato della massima illusione, quella appunto del potere sugli altri. Non puoi violare le regole, non puoi comandare alle questure, non puoi mentire, non  puoi inventare fandonie sempre più grosse. Fai umanamente pena. Te lo dico con dura sincerità. Ti fai forte del fatto che grande parte del popolo basso ti approva, per volgare invidia? Sono i tuoi peggiori nemici, e tu non lo sai. Li hai sedotti, ma solamente sedotti, che è il niente. Appena scivoli, li avrai addosso. La bestia ferita, il branco l’abbandona. Nulla è più fragile del potere. Credi che sia tuo, e invece ti è concesso. Concesso e revocato, appena il volgo, annoiato del vecchio gioco, trova un altro illusionista. Perché cambiano le mode? Mistero, capriccio. Per lo stesso motivo cambiano i potenti. Certo, ci sono fattori strutturali. Ma anche quelli usano te, più di quanto tu usi loro. Il risveglio ti sarà brutto. Per questo ci fai pietà, perché sei un povero uomo.                                                        Enrico Peyretti

RENZO FABRIS E IL DIALOGO
Mariella Canaletti
Tenere desta la memoria dei maestri che ci hanno preceduto, non dimenticare la preziosa eredità che ci hanno lasciato è compito essenziale, vitale per il tempo presente, così proiettato nell’apparenza da avere perso la forza e la gioia di riflettere e approfondire. In questo compito si impegna Brunetto Salvarani con il suo Renzo Fabris (Editrice Missionaria Italiana 2009, pagg. 296), dedicato a una figura di grande intellettuale, purtroppo precocemente scomparso, che ha dedicato una vita per il dialogo cristiano-ebraico, come recita il sottotitolo.
L’impossibilità di condensare in poche righe la ricchezza dell’excursus percorso dal-l’autore, l’analisi puntuale, e direi esaustiva, dell’azione e del pensiero di Fabris portano a sottolineare solo alcuni filoni importanti per noi, oggi impegnati a seguirne le orme.
Imprescindibile mi pare l’invito a prendere coscienza anzitutto del documento Nostra Aetate, maturato nella coscienza di pochi ed espresso dal Concilio Vaticano II,che finalmente spezza l’inaccettabile antisemitismo che ha imperversato per secoli in gran parte del mondo e che anche la nostra chiesa ha contribuito ad alimentare. Si tratta di una legge-quadro, che riflette la nuova visione del rapporto fra la chiesa cattolica e le religioni non cristiane, con un’ampia parte dedicata agli ebrei. Tale documento ha poi dato origine a un cambiamento di atteggiamento anche ai vertici ecclesiastici, ma richiederebbe, per non rimanere in superficie, un serio approfondimento (oggi a mio avviso non sufficientemente promosso, per una certa indifferenza con cui si celebra il 17 gennaio di ogni anno, la giornata del dialogo religioso cristiano-ebraico).
E se la conoscenza reciproca è elemento imprescindibile per una pace mondiale, come dicono le voci profetiche del nostro tempo e come con la sua instancabile azione ha testimoniato Renzo Fabris, spetta ai credenti, perché il cambiamento non rimanga un indirizzo calato dall’autorità, ma un convincimento del cuore, prendere atto della immensa ricchezza della riflessione ebraica sulla Scrittura. Potrà questo sicuramente aiutare a comprenderla non con i soli strumenti del nostro pensiero occidentale, ma oltre, per meglio capire il popolo che il Signore ha scelto come «regno di sacerdoti e nazione santa». Come è stato possibile ignorare per secoli le parole di Paolo che, nella lettera ai Romani, ci dice «Dio avrebbe forse ripudiato il suo popolo? Impossibile [...] perché i doni e le promesse di Dio sono irrevocabili»? Come ignorare che le nostre radici affondano nella storia di quel popolo, a cui appartenevano Gesù, Maria, i discepoli? Il discorso è estremamente complesso, richiede costante impegno, ma si rende pressante non solo nei confronti del mondo ebraico, ma anche per non escludere, dal dialogo, atei e altre religioni, e in particolare la realtà dei mussulmani che oggi vivono accanto a noi.
Ciò che ulteriormente stupisce, nella vita di Renzo Fabris, è la sua estraneità al mondo della teologia accademica e al contesto culturale italiano. Laureato a pieni voti in Giurisprudenza e in Scienze Politiche presso l’Università Cattolica di Milano, passa, dopo l’incontro con Adriano Olivetti, dallo studio a una realtà molto diversa: diventa infatti manager e vivrà nell’esperienza straordinaria di Comunità, unica in Italia, momenti fondamentali per la sua formazione. È un laico che continua ad approfondire il dialogo con gli ebrei senza trascurare la asimmetria delle posizioni di partenza; si arricchisce di innumerevoli rapporti a livello internazionale, in un percorso indipendente dall’autorità istituzionale del magistero; un teologo non professionale capace invece di offrire preziose indicazioni sulle vie da seguire: abbiamo oggi il documento Nostra Aetate grazie anche al suo contributo, esempio e richiamo alla fedeltà dei principi in esso riaffermati, e invito per noi a praticare questa fedeltà, e a rifiutare ossequio alle sciocchezze che spesso sfuggono anche dalla bocca di alti prelati.
Desidero ricordare infine la mia personale emozione suscitata dal ricordo della rete di amici che hanno accompagnato la vita e l’impegno di Renzo: fra questi ho ritrovato Giulia e Giulio Vaggi, che me li hanno fatti conoscere, di persona o attraverso i loro scritti, e mi hanno aperto un mondo che ha sicuramente convertito il mio cuore. A persone così devo, dobbiamo tutti, gratitudine immensa, per l’affetto che ci hanno donato e la ricchezza che ci hanno trasmesso. 
 
UOMINI ALTROVE
Franca Colombo
Arrivo in chiesa dieci minuti prima dell’inizio della messa. I miei occhi vagano sulla struttura interna, tra l’altare e le volte e vengono catturati dal luccichio dell’oro: ovunque stucchi dorati, candelabri dorati, turiboli, statue e lampadari dorati.
Signore, dove sei? Sono venuta per incontrarti, ma forse ho sbagliato casa. Forse è il palazzo di Erode. Forte la tentazione di andarmene. La parola di Dio mi trattiene: cerco di concentrarmi sul foglietto liturgico (Matteo 8, 16-20). Si parla di una chiesa missionaria che porterà a tutto il mondo la salvezza. Ma quale salvezza? Sono curiosa di ascoltare l’omelia del prete. Sarà il solito panegirico sulla grandezza della Chiesa cattolica che deve convertire gli infedeli? Invece no. Il prete che compare sull’altare è piccolo, la sua voce è stentata e il tono sommesso, in netto contrasto con la ridondanza della costruzione.
Dal testo di Matteo, questo piccolo prete estrae, come da uno scrigno antico, una perla preziosa che si incastona bene nella mia esperienza di oggi. Il Signore Gesù per farsi trovare dai discepoli dopo la sua morte, dice: «Andate in Galilea». Andate altrove, cercate il Signore in zone di confine, come la Galilea, zone di meticciato non solo geografico, ma anche dell’anima. Non fermatevi nelle strutture del passato, cercate luoghi di incontro nuovi, luoghi di culture e di relazioni diverse.
Mi sento interpellata personalmente. Ritrovo le parole del pastore valdese Platone che, commentando Marco 1, 29-39, evidenzia che Gesù, a Cafarnao, dopo aver operato molti miracoli e ottenuto grandi consensi di folla, dice ai discepoli: «Andiamo da un'altra parte» e in questo andare altrove c’è tutto il progetto di un Dio che non vuole fermarsi in nessun luogo privilegiato, né nella chiesa luccicante di ori, né nelle strade piene di folla osannante. Sempre sospinto altrove dall’urgenza di dare una testimonianza concreta al messaggio più importante: «Io sarò con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo…» purché siate disponibili a uscire dai vostri schemi mentali per seguirmi… altrove.
Ripenso al bellissimo film di Beauvois Gli uomini di Dio. Uomini veramente proiettati altrove, sradicati dalla loro realtà di provenienza (Francia) per raggiungere sperdute colline della Tunisia. In perfetta sintonia con un popolo diverso, condividono la stessa decorosa povertà, lo stesso contatto con la terra e la stessa fedeltà a un Dio che ha nomi diversi. Uomini di Dio, uomini che hanno incontrato Dio nelle zone di confine dell’ani-ma e della terra: confine tra dubbio e certezza, tra terrorismo e esercito regolare, tra tentazione delle armi e fede nell’amore. Come gli apostoli tentati di fuga per paura della morte e trattenuti alla vita per amore di un popolo. Ed è proprio qui, su questa linea di confine interiore e geografica, continuamente superata e riproposta, che gli otto uomini di Dio, allacciati nella preghiera, gridando i salmi, per sovrastare il fragore degli aerei da guerra, ce Lo rendono presente. «Sarò con voi fino alla fine». Inshallah!
 
abbiamo partecipato
TESTIMONIANZE DELLA RESISTENZA MILANESE
Ugo Basso
Una articolata e commossa lettera del presidente della repubblica Napolitano dà l’avvio alla tavola rotonda organizzata da Arturo Colombo il pomeriggio del 14 ottobre con la partecipazione di storici contemporanei nella sede milanese della società Umanitaria in via Daverio. Un pubblico numeroso, ma non troppo giovane, per riascoltare, attraverso testimonianze, immagini e documenti di prima mano, l’impegno di un gruppo di antifascisti, per lo più neppure trentenni, militanti fin dagli anni venti -anni di consenso in cui non era immaginabile la fine del regime-, nel movimento di Giustizia e libertà, erede del pensiero di Piero Gobetti e padre di quella formazione politica tanto ricca di pensiero quanto povera di voti che sarà, nell’immediato dopoguerra, il Partito d’Azione.
Non sono fra i temi oggi più frequentati, e Mimmo Franzinelli ha più volte lamentato nel suo intervento come ci siano ancora molti personaggi, archivi, situazioni neppure studiati: ma ogni volta che mi capita di muovermi fra quei materiali stupisco per l’originalità del pensiero che veniva elaborato nella clandestinità, con il coraggio del rischio e per molti il carcere, il confino o addirittura, come per Umberto Ceva, il suicidio nel timore di non riuscire a tacere sotto tortura i nomi degli amici. Non potendo fare politica attiva –solo il partito fascista aveva diritto all’attività pubblica-, questi giovani studiavano per il futuro una società pluralista e civile, con un’attenzione alla distribuzione non classista e non statalista, organizzata da uno stato fondato sulle regole e sul merito con reali possibilità per tutti, attraverso una scuola efficiente, di esprimere il meglio del proprio impegno. Quella generazione, in originale condivisione con i partiti marxisti e cattolici, ha prodotto la costituzione: quanto la realtà sia lontana da quei progetti  è troppo facile da vedere.
Mi ritrovo fra episodi noti e personaggi familiari, alcuni direttamente conosciuti, altri, non sopravvissuti al carcere, alle bastonate o ai campi di sterminio tedeschi, ma vivissimi nei ricordi di mio padre che era del gruppo. E risento di fraterne collaborazioni, di rischi condivisi anche da persone che avrebbero potuto facilmente rimanere estranee, di infiltrati che per salvare sé erano disponibili a vendere gli amici a un regime che gli era comunque indifferente. E ritrovo iniziative che mi fanno pensare alle nostre, misure di prudenza e piccoli strumenti di resistenza –oggi certo siamo ancora lontani da quegli anni violenti- come la creazione di reti amicali per incontrarsi e ragionare, come l’indi-viduazione di settori funzionanti della pubblica amministrazione, come l’indirizzarsi ai pochi politici che preferiscono il dovere alla carriera, la generosità al successo, la disciplina al guadagno. Superstiti moralisti che meritano di essere travolti dalla storia o lievito per il mondo di domani?
 
CHE BELLO SENTIRSI DIRE GRAZIE!
Emma Camesasca
Il tempo scorre, le usanze cambiano. Anche nella tanto aristocratica –un tempo– Inghilterra, ligia alle regole della buona educazione che il perfetto gentleman impersonava con eleganza, ora si scopre (La Repubblica, 24 agosto 2010) che persino l’uso del tradizionale thank you è andato via via scomparendo:  ringraziare sembra non si usi più.
Così dice un sondaggio condotto da un sito di regali online su tremila persone. Risulta che quasi la metà degli inglesi che hanno risposto dichiarino senza vergogna di non ringraziare più chi manda loro un regalo via posta, e l’84% di usare –per rispondere a un gesto gentile– l’espressione cheers invece di  thank you ormai troppo formale.
A pensarci bene la cosa non stupisce più di tanto. Anche nel nostro paese la consuetudine di ringraziare sembra sia andata man mano perdendosi nell’ultimo mezzo secolo, forse il ’68 ne è stato l’incipit?
Senza alcuna pretesa di indagine sociologica, osservo che in Italia ancora si mandano auguri, regali o condoglianze a seconda delle circostanze, ma spesso neppure si sa se il regalo o il messaggio giunge a destinazione. Nessun cenno di riscontro arriva. È ovvio che si fanno regali o auguri per significare affetto o simpatia verso le persone per le quali proviamo questi sentimenti, e proprio per questo un ringraziamento, anche di una sola parola, manifesterebbe il desiderio di mantenere viva la comunicazione affettiva che ci lega a chi abbiamo pensato con sollecitudine. Noto invece che, soprattutto dai giovani, questo desiderio non viene più espresso. Forse lo provano anche, lo danno per scontato, ma non lo esplicitano. Non ringraziare sicuramente semplifica la vita, fa risparmiare tempo e c’è chi lo ammette apertamente, ma potrebbe anche significare che la società attuale è una realtà dove troppo spesso la riconoscenza, la considerazione nei confronti del prossimo non sono più molto presenti, vi regna invece l’egocentrismo, la disinvoltura del chiedere, dell’usare l’altro senza eccessivi scrupoli o gratitudine. Piccoli segnali di un decadimento sempre più grande di valori?
Curioso inoltre è notare che fra le altre diciannove espressioni, citate nell’articolo, con cui gli inglesi sostituiscono thank you, la più gettonata è cheers. Bizzarro l’affermarsi di questa espressione che nel British English, in origine, apparteneva al gergo marinaresco ed era un saluto, un incoraggiamento così come ancora oggi si usa nei brindisi. Thank you, invece, che ha la stessa radice di (to) think = pensare, garbatamente allude al voler tenere nel nostro pensiero l’altro, colui che si vuol ringraziare. Così come il nostro grazie, dal tardo latino gratus, richiama la gratitudine, il sentimento di riconoscenza che dovremmo avere verso chi ha mostrato interesse per noi.
O tempora o mores! Diceva Cicerone e a dirlo ora sicuramente si passa per parrucconi, ma in realtà qualcosa di non solamente linguistico è avvenuto: manifestare gratitudine oggi è scomodo per molti, è un peso, quasi un legame ingombrante, per cui non si ringrazia, si lascia perdere, si ignora. È più facile e conveniente chiedere.
Concludo con una breve nota personale: io evidentemente continuo a essere una sentimental-romantica: però, che bello quando sul mio cellulare trovo il messaggio di un nipote a cui ho mandato gli auguri che mi dice «grazie, zia, di avermi pensato: ti abbraccio!»
 
film insieme
GRAN TORINO
di Clint Eastwood, USA 2008, uscita 13 marzo 2009, colore, 116 min.
Enrica Brunetti
Ci piace questo film dalla trama semplice e lineare, dai bei sentimenti, dai toni epici, splendidamente recitato da un Clint Eastwood che dirige un se stesso ormai vecchio, ma sempre eroe. Anzi più eroe nel gesto di estrarre l’accendino del fine storia che nell’impugnare la 44 Magnum o la Colt dei personaggi interpretati un tempo.
Il personaggio, Walt Kowalski, gli sta cucito addosso su misura, Si tratta di un polacco -come ripete spesso-, cattolico of course, ma ostile al prete, anziano, solitario, misantropo e ringhioso, fucile M-1 sempre a portata di mano perché sia chiaro che non è opportuno pestargli i piedi, anche se il tempo incalza e i colpi di tosse macchiati di sangue avvertono che la resa dei conti è vicina. Sotto la bandiera americana che ora sventola sull’uscio di casa, il ruolo resta quello del pistolero hollywoodiano, ormai vecchio, ma totem di un'epoca antica, della quale Eastwood cerca di tramandare valori e idealismo alle generazioni di un’America diversa.
Della sua vita da metalmeccanico conserva fiammante in garage la mitica auto Ford 1972 del titolo; del passato di reduce dalla guerra di Corea mantiene, insieme a terribili ricordi, l’avversione per i musi gialli che ora, però, gli hanno invaso il quartiere, nella periferia di Detroit. Quartiere per altro multietnico, dove colori e origini nazionali coabitano più che fondersi in un’unica identità americana e i giovani esprimo la propria appartenenza nella violenza di bande contrapposte. Il film si apre e si chiude con un funerale, quello della moglie all’inizio e quello del protagonista alla fine. In mezzo, sfilano, negli eventi di una quotidianità difficile, i temi del razzismo, del rapporto padri-figli, della religione, della capacità di amare, della fatica a guardarsi dentro. I musi gialli della porta accanto sono Hmong, gente di montagna sparsa tra Laos, Cambogia e Tailandia. Alleati degli americani durante la guerra del Vietnam e resi sconfitti in casa dal suo epilogo, per sfuggirne le conseguenze, in molti, aiutati dalla chiesa luterana, seguono l’esercito usa sulla via del ritorno, finendo sradicati nei ghetti delle periferie urbane. E proprio lo strano mondo hmong prenderà consistenza di famiglia per Walt e lo aprirà a sentimenti solidali mancati nella relazione con i figli e i nipoti naturali. A modo suo, si lega a Thao, il ragazzino che tenta di rubargli l’auto-feticcio, cerca di educarlo, di tenerlo lontano dalla gang del cugino, di dargli carattere. E quando la gang violenta la sorella del ragazzo, è lui a ergersi da capofamiglia e a fare giustizia, alla fine senza armi, come vittima sacrificale e, dunque, eroe per sempre. Lo riconosce anche il giovane prete che finalmente acquista qui carattere per sé e i suoi astratti discorsi da catechismo. Eppure, nonostante il rigore della classicità, i godibili inframmezzi divertenti e le battute di pregio, il film che ci è piaciuto non ci sembra un capolavoro: i personaggi sono prevedibilmente prigionieri della parte, mancano di approfondimento e dell’originalità alla Million Dollar Baby.
sottovento                                                             g.c.  
Ombre su una buona idea- In un paese molto speciale, i cui rappresentanti vengono sì votati dagli elettori, ma scelti con il bilancino dalle segreterie dei partiti, quando un partito si lancia e organizza le primarie, bisogna togliersi tanto di cappello. Ricordiamo di che cosa si tratta: chi ritiene di avere capacità e titoli per la posta che è in palio si mette in lizza, a pari condizioni con chiunque altro che pensi la stessa cosa, gli elettori pagano anche una piccola quota e votano chi, a loro giudizio, è il più adatto. Sarebbe bene che, come in Usa, ci fosse una certa possibilità di registrazione. Chi vince sarà il candidato del partito e comincerà la campagna elettorale… Un bel manifesto incoraggia la partecipazione: «La tua Milano la decidi tu - Decidi tu il miglior sindaco per Milano - la democrazia in prima persona…». Assolutamente niente di meglio, almeno al momento: vinca il migliore, o quello che i probabili elettori, e i simpatizzanti, considerano tale: tutti i pretendenti nelle stesse condizioni alla partenza.
Ma se il partito che organizza questa splendida operazione dichiarasse preventivamente che lui ha già scelto uno tra tutti i partecipanti, non si dovrebbe considerare falsata tutta l'operazione? Non è forse l'indice di un «potrei ma non voglio»? Questo ragionamento vale fino a quando le primarie sono all'interno di un partito e dei suoi iscritti o simpatizzanti. Se in corso d'opera le primarie diventano primarie di coalizione, quindi vi partecipano più partiti, è naturale che anche ognuno di loro abbia titolo per sponsorizzare, e anche qualcosa di più, un suo candidato.
Una riflessione aggiuntiva quando il partito di cui si sta trattando è il Pd, reduce da una brutta figura come quella raccolta in Puglia, dove il candidato prescelto ha perso le primarie e l'altro ha vinto le elezioni: perché riprovarci ancora e magari rischiare anche in quel di Milano?
Bollettino dei giornali - Lo stato generale di disagio è fedelmente riprodotto anche dai quotidiani che, giustamente, fanno da specchio alla quotidianità. Spariti in genere i commenti, finite, sempre salvo eccezioni, le inchieste, inflazionate le interviste di chi dice così o dice cosà, senza che nessuno si domandi, o gli domandi, la plausibilità del suo dire. Ci sarebbero poi da verificare le omissioni… È vero che in poche pagine -che magari sono tante, troppe da leggere, ma sempre poche per l'alluvione quotidiana di notizie- bisogna fare delle scelte e, spesso, queste sono pilotate dalla voce del padrone. Ma è divertente -si fa per dire- leggere le smentite, di solito dei vip, quando prima, nel giornale, il lettore non ha mai visto la notizia. Facciamoci caso, di fronte a una certa inchiesta, per esempio, su un caso giudiziario l'interessato che cosa risponde? «Non è vero!». E il giornale pubblica. Niente dettagli sull'accusa né sul quantum: cento euro o cento milioni? Ma davvero basta la parola? Se poi si tratta di personaggi del governo o della maggioranza al potere, anche il giornalista si acconcia al noto panino. L'ultima parola sempre alla difesa: equilibrio o cerchiobottismo?
Una lenta agonia - È la definizione che mi viene alla mente a proposito del governo nell'attuale momento politico italiano e non ne trovo di migliori. Malgrado le avverse condizioni economiche che pretenderebbero iniziative ponderate e risolute, questa è la situazione e l'incognita è solo la durata. Ormai l'esito è scontato.
Anni addietro, a proposito dei governi (tutti a breve termine) a sostanziale guida democristiana, si diceva che al massimo riuscivano a gestire l'esistente e la velocità di marcia era minima perché risultante di due forze pressoché uguali, ma contrarie. C'è una certa analogia con l'attualità perché la stasi è portata, oltre che dalla necessità di dare protezione alle esigenze giudiziarie del premier, anche dalle forze contrapposte interne alla maggioranza, pur al netto dei futuristi di Fini, che rappresentano le corporazioni economiche mai defunte.
Il fascismo finì per suicidio il 25 luglio del 43 e il berlusconismo pare avviato sulla stessa china: il suo termine sarà un’implosione per il disgregarsi ulteriore di una maggioranza ormai inesistente e perché, come si dice oggi, nessuno nella maggioranza ha intenzione di «staccare la spina», assumendosene le relative responsabilità, soprattutto -azzardo- per scaramanzia, perché nel passato l'operazione non ha mai portato del bene a chi l'ha provocata.
Dunque implosione, davanti a una opposizione debole, il consenso alla quale non approfitta della crisi, anzi al limite tende a regredire (prendiamo pure i sondaggi con le molle). Altri sondaggi ci dicono che i partiti -è trasversale- non godono di credito. Se così è, che cosa immaginare al loro posto: le dinastie, le monarchie? Non c'è che da sperare come riescano a riformarsi i partiti che esistono o, se no, ne sorgano dei nuovi più adatti a interpretare le necessità di questo paese.
La pace la guerra e il terrorismo - Che i terroristi arrivino in casa nostra partendo dall'Afghanistan, come sostiene il nostro ministro degli Esteri, e quindi noi saremmo là con i nostri soldati per impedirlo, è una favola mondiale che non avrebbe mai dovuto convincere nessuno. Dopo l'11 settembre 2001 gli Usa dovevano fare qualcosa e quello hanno fatto. E noi dietro, per la solidarietà che ci impegna alle iniziative della Nato. Come invece ormai è noto -si veda in proposito PeaceReporter.net-, quell'intervento era stato pianificato molti mesi prima dell'attacco alle Torri Gemelle con lo scopo di stabilire «una presenza militare duratura in un'area ad alto valore strategico». Altra ipotesi il rilancio della produzione di oppio (quello afghano è fonte del 90% dell'eroina smerciata nel mondo) che in effetto dal 2001 ha ripreso a livelli elevatissimo polverizzando tutti i record. Il terrorismo, quello del 2001, è stato piuttosto organizzato all'interno degli Usa e non certo in quei poveri paesi.
La nostra costituzione ci dice che «l'Italia ripudia la guerra» e si impegna per la pace e la giustizia tra le nazioni. Il richiamo a non essere ipocriti che da più parti si ascolta deve essere accolto non per accettare una guerra, ma per dissociarsi da un conflitto che, se mai lo è stato, ora certamente non è una operazione di pace. Con le bombe e i cannoni non si portano né libertà, né pace, ma solo lutti e morte. Si dirà: ma la Nato? Era nata -si scusi il bisticcio- per una barriera occidentale contro il comunismo nel clima della guerra fredda. Sono caduti il muro e il comunismo, che farne? Non sarà il caso di iniziare a discutere la parola fine lasciando al loro destino le armi e i traffici dei loro fabbricanti? E ancora, nell'Unione Europea, invece di enne eserciti non sarà il caso di cominciare a discutere di un solo esercito a difesa di tutti? Tante giuste domande che hanno il torto di porsi solo quando muoiono dei nostri soldati e, dopo attimi, non se ne parla e non ci si pensa più.
segni di speranza                                                                     s.f.  
«QUESTI AL CASTIGO ETERNO, I GIUSTI INVECE ALLA VITA ETERNA»
Matteo 25, 31-46
Per quelli che, come me, si sentono già mandati nell’angolo in fondo a sinistra, la sentenza dovrebbe essere preoccupante: «Via da me, maledetti, nel fuoco eterno». Tuttavia, per quanto formulata in termini cosi definitivi, credo che questa minaccia sia presa piuttosto alla leggera e non influenzi più di tanto le nostre scelte di vita. Forse riteniamo di poter considerare i richiami a un premio o a un castigo finale solo come delle metafore per indicare una connessione tra le scelte storiche delle persone e il loro divenire figli di Dio, che dovrebbe costituire il premio finale della corsa. Di fatto, il testo ci presenta il tracciato di una vita intesa cristianamente: il fine, cioè, il divenire figli di Dio; le istruzioni per compiere al meglio questo percorso, il dovere quindi di aiutare gli esclusi in tutte le circostanze; le conseguenze future delle scelte sbagliate, cioè la punizione costituita dal non raggiungimento della nostra identità completa.
Ci viene presentato lo schema, ma noi prendiamo in fondo la minaccia con una certa leggerezza, forse per nostra difesa. Nel divenire dell’uomo il peccato, cioè la mancata attenzione e dedizione all’altro, è un ostacolo alla nostra crescita come persone, al nostro compimento. La conseguenza, rappresentata nel «castigo eterno», è il mancato raggiungimento della nostra identità, cioè il non poter divenire figli di Dio.
Come già sappiamo, senza un percorso di distacco da noi per andare verso l’altro, la nostra divinizzazione non può realizzarsi. Tutto il messaggio evangelico è indirizzato in questo senso; qui lo ritroviamo in altra forma: uscire da noi stessi per andare verso l’altro che incontreremo, forse, sulla strada di Gerico. Questo è lo stile e la condizione della vita cristiana. Tutto il resto è un di più, perché è scritto che «chi vuol salvare la propria vita la perderà». Di fatto il movimento è arduo e contro corrente, e necessita di un aiuto trascendente. Confidiamo quindi maggiormente nella immagine a noi più gradita del Padre che ci accoglie e ci abbraccia come siamo, sempre in ansia per il nostro arrivo, ardente di un amore che è la sorgente inesauribile della nostra speranza di poter ricominciare. D’altra parte, Gesù di Nazareth ha più volte ripetuto di non essere venuto per il giudizio.
Certo, l’uomo ha la possibilità del fallimento totale, del rifiuto, che siamo abituati a rappresentare con la categoria dell’inferno, cioè della lontananza incolmabile, luogo (?) metafisico dove forse sarebbe impossibile ogni relazione tra noi e la nostra Sorgente, dando luogo a uno struggente desiderio inappagabile («fuoco eterno»?).
Abbiamo certamente bisogno di immagini e linguaggi nuovi per aggiornare quelli che abbiamo ricevuto da tradizioni lontane. L’ermeneutica dimostra qui tutta la sua necessità. Comunque la sostanza del messaggio è ben chiara e si scontra con tutta la fragilità della nostra natura.
Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo – Ultima domenica dell’anno liturgico ambrosiano
la cartella dei pretesti 
Le idee hanno una forza amalgamante, se vengono diffuse compulsivamente attraverso i canali di informazione, se vengono ripetute ossessivamente, se vengono rilanciate dai tanti piccoli e grandi pulpiti delle nostre società, tanto che, a un certo momento, molte sono le persone che, senza sceglierlo, si ritrovano a pensarla in una determinata maniera. Sorvegliare con il senso critico l’eccesso di informazioni che quotidianamente ci travolge risulta un’operazione impensabile, vivendo in contesti in cui non c’è più tempo per fermarsi a pensare, così, a poco a poco, si finisce con l’assaporare come del tutto consuetudinarie maniere di pensare tremendamente aggressive.
MARCO GALLIZIOLI, L’avventura del dialogo intrareligioso, Rocca, 1 giugno 2010.
Come potrò, cittadino di una nazione che ha i maggiori pregi (e i maggiori difetti) della terra impadanirmi in una Padania inesistente, impantanarmi tra le stupidaggini di Bossi & C, monumenti all’ignoranza, accettazione e esaltazione dell’ignoranza (SPQR, gesti osceni, barbarie celtiche e ampolle). Per colpa loro, già sto odiando il verde, il color preferito, i miei prati e le mie colline. Non sopporterò più, tra un po’, la cadenza veneta, che amavo così tanto, Goldoni o la telefonata musicale del mio amico Zanzotto?
GIAN LUIGI BECCARIA, Non vogliamo impadanirci, Tuttolibri, 9 ottobre 2010.
Agli occhi (forse un po’ invidiosi) di Berlusconi, Israele appare non già come lo Stato pensato e creato in Palestina da ebrei in fuga dall’Europa razzista, bensì come il simbolico avamposto dell’Occidente alle prese con l’«accerchiamento islamico»: una sorta di efficiente sentinella avanzata, chiusa a riccio in difesa della propria integrità, impavida nel suo isolamento e capace, quando il caso lo richieda, di  ricorrere senza troppi scrupoli a politiche muscolari e a rispondere al nemico colpo su colpo.
BRUNO SEGRE, nota diffusa per e.mail, 7 ottobre 2010.
Non esistono valori soglia al di sotto dei quali l’inquinamento non nuoce: qualsiasi concentrazione di quelli che oggi sono considerati i principali inquinanti è dannosa; i limiti non sono altro che un compromesso tra esigenze industriali e della modernità, politica, ambiente, salute pubblica. Ma sempre di compromesso parliamo.
SERGIO HARARI, La polvere sotto il tappeto, Corriere della sera, Milano, 17 ottobre 2010.
Non si può essere liberi se prima di tutto non si è democratici. Ma chi è il vero democratico? Non conosco esattamente la definizione di questa parola e non saprei dire il perché, ma tutto mi fa pensare che il vero democratico ha il senso della misura in ogni manifestazione. Nella trasparenza, nell’onestà, nella forza e nell’essere sinceri anche quando la verità ti può danneggiare.
ADRIANO CELENTANO, L’italiano che precipita, Corriere della sera, 19 ottobre 2010.
Hanno siglato le rubriche: Giorgio Chiaffarino, Sandro Fazi.
Notam,lettera agli Amici del Gruppo del Gallo di Milano - www.ildialogo.org/notam
quelli di Notam
Giorgio Chiaffarino, Ugo Basso; Aldo Badini, Enrica Brunetti, Mariella Canaletti, Franca Colombo, Sandro Fazi, Fioretta Mandelli, Chiara Picciotti, Margherita Zanol
Corrispondenza:info@notam.it
Giorgio Chiaffarino, Via Alciati, 11 - 20146 Milano ® Ugo Basso, Via Muratori, 30 - 20135 Milano
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Marted́ 09 Novembre,2010 Ore: 14:24
 
 
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