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11 ottobre 2010 - S. Firmino - Anno XVIII - n. 359


Notam

«Ecco cosa dovrete fare: dirvi reciprocamente la verità» (Zaccaria 8,16)
 
 
Milano, 11 ottobre 2010 - S. Firmino - Anno XVIII - n. 359
 
TRENTA RIGHE DI ATTUALITÀ
Mariella Canaletti
Il panorama italiano è desolante; ma se allunghiamo lo sguardo altrove, non cogliamo certo segni di speranza: ciò che sconcerta è l’assoluta mancanza di razionalità, il prevalere di sentimenti e di passioni di cui è emblema la situazione nella terra detta santa. Ovunque dominano odi e pregiudizi, così da far pensare che l’uomo ben poco abbia imparato dalla storia passata. 
Da Milano, città in cui vivo e che mi piaceva considerare civile, arrivano questi messaggi: no alla costruzione di una moschea; no alla concessione di case popolari ai rom. Basta questo per qualificarela petulanza di un sindacoche, per far piacere ai compagni di strada, viola principi inalienabili della democrazia, fa confusione fra zingari e clandestini, e occupa il suo tempo a acquisire posizioni di potere nell’affare dell’Expo.
Se poi guardiamo all’Italia intera, non siamo certamente messi meglio: dopo la guerra estiva combattuta all’interno delle forze di governo con le armi sofisticate della corruzione e della delazione, non si vedono linee razionali di comportamento da nessuna parte. Il 29 settembre è stato, si dice, il giorno della verità. È così: autocelebrazioni e promesse hanno assicurato al governo la fiducia, che si mostra ora fragilissima e si nasconde solo dietro la menzogna. Persino gli industriali, prima Marcegaglia, poi Marchionne commentano che in Italia «s’è perso il senso delle istituzioni». Gli scenari sono aperti: elezioni, nuova coalizione, tenuta di un governo incapace di occuparsi veramente dei problemi del paese... ci vorrebbe la sfera di cristallo! Ognuno parla a ruota libera e coltiva il proprio orticello...
Sconfortanti appaiono anche gli scenari mondiali: quotidiane notizie di morti, civili e non, vengono dall’Iraq, dall’Afganistan –anche di italiani-, dalla terra palestinese, per citare solo i paesi più colpiti, dove il terrorismo mostra la sua vera faccia e la lotta per il potere ignora i poveri della terra, vittime non solo delle potenze occidentali ma proprio di chi dichiara esserne paladino. Integralismo e razzismo dilagano poi dalle Americhe alla vicina Svizzera, dove anche gli orgogliosi padani sono considerati terroni o, ancora peggio, peggio ratt (vedi http://www.balairatt.ch).
«Fino a quando, Signore?... Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’op-pressione?». Sentiamo a volte nostro questo grido del profeta Abacuc contro l’avidità della ricchezza, la superbia, la violenza, il degrado morale, e per non disperarci ricordiamo le parole di Paolo, quando esorta i Romani «a tenere viva la speranza... che proviene dalla Scrittura». Non curiamoci troppo dei mercanti che affollano i nostri templi, e trafficano con i rappresentanti della nostra chiesa: ci sono, e sono all’opera ogni giorno, uomini dall’animo retto, che spendono la vita per il bene dell’umanità. Uomini, credenti e non credenti, che non fanno notizia, ma che non cessano di avere fiducia e di confortare anche il lavoro di noi, redattori e lettori di questo foglietto, che vorremmo fosse come le tavolette dove Abacuc, ispirato dall’alto, scrive la sua visione di attesa e di speranza.
 
in questo numero                             
U. Basso «GHE PENSI MI!» u abbiamo partecipato G. Chiaffarino A NAPOLI, RICORDANDO BONHOEFFER uF. Colombo CONFRONTARSI PER CONOSCERE u E. Brunetti UNA SURA ANCHE PER LE FORMICHE u sottovento g.c. C’era una volta la politica estera – Felix culpa - Qui Napoli u nel deserto M, Canaletti E. Brunetti LA NOSTRA LETTURA DEL LIBRO DEI NUMERI – 1 premessa u segni di speranza s.f. AMATE I VOSTRI NEMICI u schede per leggere m.c. u Il Gallo da leggere u.b. u la cartella dei pretesti
«GHE PENSI MI!»
Ugo Basso
Prima della temperie presente, dell’esondare di parole che dai bar inquinano la politica e dalla politica tornano a mistificare il parlar comune, questa espressione milanese poteva anche essere una cordiale dichiarazione di disponibilità a dare una mano, un fraterno farsi carico di problemi altrui. Parlare il linguaggio del bar piace molto, fa sentire popolari, «vicini alla gente», come si dice: ma vicini per aiutare o per ingannare? La politica moderna pare non sia più analisi, confronto, discussione, assunzione di responsabilità, decisioni circa i grandi problemi della comunità, ma ottenere un mandato senza limiti per personaggi costruiti secondo modelli di cui si è accertato il gradimento. Al potere giungono figuri che non hanno nessuna volontà, e probabilmente nessuna o pochissima capacità di occuparsi dei problemi dei cittadini, ma molto interesse a fare gli affari propri soltanto preoccupati della futura rielezione, da cui la modestissima attività di governo e l’incessante campagna elettorale. 
Chi vuole opporsi deve prestare molta attenzione al linguaggio: parlare come il popolo diventa fuorviante, sembra prossimità e può essere inganno. È più facile trovare gradimento con le pacche sulle spalle e le battute, che mettendosi a ragionare per esaminare e risolvere i problemi: «ghe pensi mi!». Tante grazie a questa brava persona: perché darsi inutili pensieri, quando c’è chi risolve al posto mio? Quell’espressione così accattivante e cordiale, così generosa sulla bocca di un amico dovrebbe indurre a diffidenza quando si tratta di questioni pubbliche: chi si candida a risolvere i nostri problemi ci deve dire che cosa vuol fare, quando, con quali soldi e deve essere disponibile a dare conto di ogni scelta e a  discutere con noi i risultati. Ricordiamo bene il Gatto e la Volpe di Pinocchio: segui noi nel campo dei miracoli e troverai la ricchezza senza fare fatica. Sappiamo come è andata a finire. 
L’espressione lombarda rimanda all’I care, reso famoso da don Milani. Mi sta a cuore, me ne preoccupo e quindi me ne voglio occupare: chi parla così non chiede una delega senza garanzie, non dice di prendersi le mie responsabilità, ma, proprio al contrario, assicura interesse, partecipazione, collaborazione perché l’altro sia accompagnato e trovi sostegno nel decidere e nell’agire. Non è il populismo che illude e utilizza gli altri ai propri fini e li esclude da ogni controllo, ma passione per l’altro, è riconoscere che i problemi sono comuni e «sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’ava-rizia», come scrive nella Lettera a una professoressa. I care è impegnarsi a che l’altro cresca, diventi autonomo e, attraverso l’informazione su tutto quanto lo riguarda e una formazione impegnativa, sia messo in grado di valersi sempre dei propri diritti. Se non voglio essere ingannato e dilapidato, non posso rinunciare a occuparmi di quanto mi riguarda, naturalmente negli ambiti delle responsabilità e delle competenze. E dell’azio-ne dei delegati bisogna sempre chiedere conto.
Già Dante –guarda la letteratura dove ci porta!- aveva denunciato come pessimi politici quelli che gridano ai quattro venti «I’ mi sobbarco» (Purgatorio, VI, 134), io mi sacrifico. Parlava di chi finge generosità e dichiara competenze, mentre ambisce alle poltrone facendo disastri a causa della propria incapacità e della propria ambizione: è quello che succede al suo tempo, quando la gravità e la complessità dei problemi induce chi «ha la giustizia in core», e sarebbe capace, a non accettare «lo comune incarco», le cariche pubbliche, da cui si tiene lontano proprio perché sa vedere i problemi e ha senso di responsabilità. L’analisi è impietosa: il degrado politico non è tragica fatalità, ma i responsabili hanno nomi e cognomi e sono tantissimi, e al di sopra di tutti l’imperatore e gli uomini di chiesa, compreso il papa: «ahi gente che dovresti esser devota […] se bene intendi quel che Dio ti nota». Se i religiosi comprendessero la volontà di Dio, si comporterebbero in tutt’altro modo.
Il poeta dedica alla politica italiana il canto VI del Purgatorio che prende l’avvio con testimonianze di sangue e di violenza: scenario inevitabile quando la politica è fatta da avidi presuntuosi indifferenti al bene comune. Le circostanze del medioevo sono molto diverse da quelle attuali e l’ideale bipolarismo papa-imperatore, i famosi due soli in reciproco controllo, auspicato dal poeta era già superato al suo tempo: ma il continuo richiamo al confronto fra il dichiarato e l’agito, come diremmo con linguaggio moderno, e la denuncia dello scandalo della corruzione fra i governanti civili e l’autorità religiosa e dei loro intrallazzi a danno del popolo rappresentano ancora un monito alla vigilanza e al discernimento, perché le nefaste conseguenze sono molto simili: l’Italia non ha più il potere per reggere nella pace e nella sicurezza le sue regioni, non è più, dice ancora il poeta, «donna di province, ma bordello». Insomma, un casino!
abbiamo partecipato
A NAPOLI, RICORDANDO BONHOEFFER
Giorgio Chiaffarino
Il treno che porta il Vangelo che abbiamo ricevuto, partito da Firenze 1, con tappa a Firenze 2, è arrivato a Napoli. E la metafora utilizzata da padre Valletti -quello di Scampia!- serve per augurarci che questa sia solo una ulteriore tappa di uno stimolante cammino e non un finale capolinea. Il tema poi è stato di grande impatto: da Bonhoeffer, Pregare e fare ciò che è giusto tra gli uomini, un richiamo forte al senso di responsabilità di ciascuno, a nome della propria coscienza, senza cercare appoggi e coperture altrove. Ciò che è giusto, certo nella chiesa, ma anche nella società civile.
Maria Cristina Bartolomei ha introdotto i lavori e si è domandata come concepiamo e viviamo la chiesa, come la comunichiamo con un accenno al tema molto attuale della sinodalità, che non può essere coniugata con l'uniformità. Si è richiamata alla necessità di superare la fase del disagio -che pure esiste- evitando il limite di fare solo l'elencazione delle doleance.
Assente il professor Onida, la Bartolomei non lo ha fatto rimpiangere svolgendo efficacemente il tema delle relazioni dei credenti in ordine agli attentati alla Costituzione che sono sotto i nostri occhi. La continua erosione dei suoi contenuti qualificanti, camuffata da aggiornamento e modernizzazione, ha in realtà lo scopo principale di giustificare l'impunità dei forti e la coercizione dei deboli. Ha citato l'efficace principio: libere volpi tra libere galline! E la reazione delle autorità ecclesiastiche suscita spesso molte perplessità. Per esempio, nel caso delle oscillazioni tra il troppo -pretendere addirittura delle leggi ad hoc- al niente. Lasciando la sensazione che per loro sia preferibile la tutela degli interessi alla cura degli ideali. Grandi rischi sembrano essere sottovalutati: la tensione verso l'uomo forte, la svalutazione della morale come moralismo e la fede relegata solo nel privato con l'inevitabile deriva della doppia morale, una per la frequenza nelle chiese e l'altra, ben diversa, per agire nell'economia e nella politica.
Alberto Melloni ha ricordato il gioco più intrigante della politica della maggioranza nei confronti della chiesa: fare le viste di consentire alle sue richieste contro i nemici della cattolicità per poi concludere che, visto quanto vi abbiamo dato, cosa volete di più? Lasciateci fare quello che vogliamo. Ma non abbiamo tradito anche noi?
Tra i tanti stimoli che in queste giornate ci sono stati offerti, un cenno particolare merita Pino Ruggieri, che è un po' il grande animatore di tutta questa iniziativa. Ha approfondito la lezione di Dietrich Bonhoeffer a partire dalla frase che è stata messa a tema di tutta la sessione. Cerco di raccogliere in sintesi le sue indicazioni che mi sono parse più significative.
Bonhoeffer, lo sappiamo, reagisce alle connivenze della sua chiesa con il regime nazista che si sta affermando. Non è il caso di tentare una sopravvivenza o lamentare un futuro di macerie: Hitler può invece essere una grande occasione per la riaffermazione dei principi della fede che ci offre il Vangelo. Sarà quella che è stata definita la chiesa confessante. L'impegno è per fare ciò che è giusto fra gli uomini a prescindere da Dio: davanti a Dio senza Dio (come se Dio non ci fosse), agire eticamente come partecipazione alle sofferenze di Dio nel mondo.
L'adesione al Vangelo è sempre difficile: non sono poche le analogie di allora con l'oggi, se la dirigenza ecclesiastica si appiattisce su un messaggio morale naturale e sembra accettare che anche senza fede sia sufficiente che comunque venga accolto il messaggio della chiesa. Il sogno è una chiesa povera, senza potere, che confida soltanto in Cristo, attenta ad accompagnare con il cuore grande di Dio lo sforzo degli uomini che cercano. È il fare ciò che è giusto, e il discernimento che implica, che divide le chiese e la salute della anime che si persegue altro non è se non il bene concreto della persona. La salvezza è una volta per tutti, ma accade ogni giorno per ognuno di noi.
Per dire, infine, l'importanza di questo appuntamento, soprattutto vorrei riuscire a far apprezzare il profumo che si è respirato in quei giorni, non solo per le relazioni e la discussione, ma anche per le commoventi testimonianze che sono state presentate: La casa Ruth di Caserta e Figli in famiglia di S. Giovanni a Teduccio, ma anche la straordinaria parrocchia di Catania di padre Giuseppe Gliozzo e dei suoi amici. È emersa l'esistenza di una chiesa altra, aperta, accogliente, veramente inclusiva dei piccoli e dei poveri, purtroppo poco evidente nel panorama generale, che deve essere cercata sotto traccia, ma portatrice di una grande speranza. Come dice Ruggieri, è quella la chiesa che ci fa veramente vivi nel mondo.
CONFRONTARSI PER CONOSCERE
Franca Colombo
In tempi in cui una donna musulmana può venire lapidata per il reato di adulterio e un pastore cristiano brucia il Corano; in tempi in cui alcuni cristiani vogliono impedire l’edificazione di un segno di pacificazione e tolleranza come la Moschea al Ground Zero, o in cui i talebani mietono vittime tra i civili che non si adeguano ai loro precetti e comincia ad apparire sulla stampa il termine guerra di religione, non possiamo fare a meno di domandarci come contrastare questa escalation di intolleranza e favorire lo sviluppo di una pacifica convivenza tra diversi credi religiosi. È probabile che buona parte di queste difficoltà nascano dalla ignoranza reciproca, nel senso di non conoscenza dei valori delle culture altre. Purtroppo non possiamo in questa sede approfondire le ragioni storiche, religiose e politiche che hanno portato a tale profonda frattura tra le religioni. Possiamo tuttavia cercare di migliorare il livello di comprensione della realtà attuale degli altri ambiti religiosi per recuperare rispetto e tolleranza verso le diversità.
È quello che cerca di fare una Fondazione Interculturale Olandese (SPANDA) che propone incontri aperti ai laici di varie confessioni religiose (TEA FOR PEACE) per tentare una comparazione, in particolare tra le tre religioni abramitiche: ebraismo, cristianesimo e islamismo, intendendo ovviamente per cristianesimo non solo il cattolicesimo. Non si tratta di un confronto su base teologica, ma su base esistenziale. Si esaminano i problemi concreti che i credenti si trovano ad affrontare nella vita quotidiana a partire dai temi cosi detti sensibili (matrimonio, divorzio, convivenza, omosessualità…) fino ai problemi più ampi come energia, ecologia, globalizzazione, consumi. Unico scopo incrociare le informazioni, ma senza intenti valutativi. Già questo per noi cattolici appare come un approccio innovativo.
Vediamo infatti che, mentre per il cristianesimo e l’ebraismo il matrimonio è considerato un impegno preso dagli sposi davanti a Dio e ha valore sacro o sacramentale, per l’Islam, anche se celebrato dalla autorità religiosa, è un contratto giuridico tra le parti, reso necessario da motivi sociali come rimedio alla sessualità sregolata e retto da clausole e condizioni finanziarie molto rigorose. In esso viene coinvolta tutta la comunità familiare o sociale a cui appartengono gli sposi. Di conseguenza l’adulterio nell’Islam non è soltanto la rottura di un impegno di fedeltà tra due persone, ma è una grave violazione nei confronti di tutta la società islamica, perché con questa trasgressione viene messa in crisi la struttura portante della società stessa, fortemente familistica. Da qui il diritto di comminare pene per l’adulterio (compresa la lapidazione) come per qualunque reato che minaccia la sicurezza della società. Paradossalmente, da tale diversa concezione del matrimonio, scaturisce anche una diversa valutazione del divorzio che, mentre nel cristianesimo viene visto criticamente o non viene nemmeno riconosciuto -per esempio dalla chiesa cattolica- per l’Islam, trattandosi dell’annullamento di un contratto giuridico, può essere risolto più facilmente, ma deve essere risarcito con adeguate pene pecuniarie, stabilite in sede giudiziaria.
Per quanto riguarda la convivenza fuori dal matrimonio, tutte le confessioni religiose la stigmatizzano negativamente, ma l’Islam ne appare il più feroce oppositore in quanto vieta anche ogni forma di manifestazione esterna dei sentimenti amorosi tra non sposati, come una minaccia all’istituzione del matrimonio. Sulla convivenza omosessuale poi si registrano posizioni molto differenziate sia tra le religioni sia all’interno di ciascuna di esse. Nell’ebraismo e nel cristianesimo sono presenti due orientamenti che si rifanno a due diverse interpretazioni dei testi biblici. Alcuni cristiani e gli ebrei più liberali si rifanno a Genesi 1,18: «Non è bene che l’uomo sia solo». Parole che indicherebbero il disegno di Dio di togliere l’uomo dalla solitudine, favorendo una relazione comunque sia, purché fondata sull’amore, duraturo, fedele e completo. Per contro le correnti più conservatrici si rifanno a Genesi 5, 1: «maschio e femmina Dio li creò, a sua somiglianza li creò…» e sostengono che la coppia eterosessuale è l’unica valida per esprimere la volontà di Dio sulla coppia umana entro la quale esercitare l’attività sessuale secondo i suoi disegni..
L’Islam poi su questo punto è categorico: non ammette al suo interno tentativi o correnti per il riconoscimento religioso o giuridico del legame omosessuale, anche se duraturo, unico e fedele, perché il comandamento di Dio è la procreazione, finalizzata allo sviluppo di una società musulmana più giusta .
Questi pochi flash certamente non esauriscono l’ampiezza dei temi accennati, ma possono costituire uno stimolo per noi cattolici italiani, a uscire dal nostro orticello e allargare lo sguardo su altre realtà diverse dalla nostra ma oramai fisicamente presenti anche tra noi. Questo ci aiuterà a scoprire punti di contatto tra la nostra Chiesa e le altre e a lasciarci interrogare dalle differenze superando reticenze e pudori atavici.
 
UNA SURA ANCHE PER LE FORMICHE
Enrica Brunetti
Spesso la narrativa, la letteratura, ci permettono di conoscere situazioni e realtà in maniera più diretta e coinvolgente di quanto non avvenga con saggi e analisi argomentative. Così avviene, per esempio, con la lettura del romanzo La casa della moschea di Kader Abdolah (Iperborea 2008, pp. 470, 18,50 €). La prima stranezza è trovare un autore di sapore esotico nel catalogo di un editore nato nel 1987 per far conoscere in Italia opere di produzione nord europea. A quest’area appartiene, infatti, il testo, perché scritto in nederlandese da uno scrittore apprezzato e premiato proprio in quell’ambito letterario. Ma i contenuti conducono altrove, nell’Iran che è insieme la mitica Persia dell’arte e della fiaba e la terra del radicalismo islamico khomeinista, avverso all’occidente sintetizzato dall’America targata USA.
La storia si snoda per circa quarant’anni, dagli anni ’60 fin quasi ai giorni nostri, punteggiata da eventi storici, come lo sbarco dell’uomo sulla luna nel 1969 o la fuga dello scià e la presa di potere di Khomeini nel 1979, e ha un forte contenuto autobiografico, reso evidente solo verso la fine con la lettera indirizzata al protagonista da Shabal, alter ego dell’autore, una lettera dal francobollo variopinto con un mazzo di tulipani rossi:
Mio caro, stimato Aga Jan, vi scrivo da un paese dove mai avrei immaginato di trovarmi (…) Mio carissimo zio, (…) scrivo in un’altra lingua adesso, e non so se devo essere contento o scusarmi con voi. Ma le cose sono andate così, non ho avuto il potere di farle andare diversamente. Ed è stata la mia salvezza: è stato l’unico modo per dare voce al vostro dolore e al dolore della nostra terra.
Kader Abdolah è, in realtà, lo pseudonimo di Hossein Sadjadib Gaemmaghami Farahani, nato nel 1954 ad Arak nel nord est dell’Iran, esule dal 1985 in Turchia e poi dal 1988, con il patrocinio dell’ONU, rifugiato in Olanda, «precipitato da una cultura in cui tutto succedeva dietro i veli e le tende e in cui tutto era proibito, in una società in cui tutto era permesso».
Lo pseudonimo è il modo scelto per rendere omaggio a due compagni di lotta giustiziati dal regime di Khomeini, che all’autore ha assassinato anche un fratello, violentato e imprigionato le sorelle. Altri tratti biografici sono disseminati nei luoghi e nelle vite dei personaggi: dalla famiglia profondamente legata ai valori e alle tradizioni religiose, all’influenza dello zio; dagli studi di fisica presso l’università di Teheran alla militanza in un movimento studentesco di rivolta clandestina prima contro lo scià e poi contro il regime degli ayatollah; insieme i profumi, le suggestioni di una terra incantata, le aridità del deserto e i rigori delle montagne ai confini del paesaggio. Un miracolo espressivo reso possibile da un intenso studio della lingua straniera e della sua letteratura, diciassette ore al giorno, perfezionato nella frequenza all’università di Utrecht: «Scrivo con i piedi in Olanda e la testa nella mia terra. La fuga non è altro che il ritorno al luogo da cui sei fuggito».
Attraverso la nuova lingua, il mondo lontano prende forma, diviene a poco a poco familiare, nei luoghi, nelle atmosfere, nei personaggi ai quali ti affezioni e con i quali entri in empatia, tanto da trepidare delle loro stesse trepidazioni.
La narrazione comincia come una fiaba: «C’era una volta una casa, una casa antica che si chiamava “la casa della moschea”» e racconta le vicende di chi vi abita, della famiglia che da secoli ne custodisce le chiavi. L’atmosfera è senza tempo, le immagini si susseguono spesso con la leggerezza della poesia, ricche di intensi profumi esotici. Tutto gira attorno al corano e ai precetti religiosi islamici; il corano, ampiamente citato, è tessuto nella narrazione come filo di saggezza spesso criptica, non conoscibile, ma capace di dare risposta a qualunque situazione della vita -perfino un’inarrestabile invasione di formiche viene fermata leggendo una sura del sacro libro-. È visione del mondo che accetta ogni evento, anche il più terribile, come portatore di un senso, leggibile solo a posteriori e di fronte al quale non resta che rassegnarsi pur senza sfuggire al destino di dovere, comunque, combattere la propria battaglia.
I tempi stanno mutando e avvengono i fatti che devono accadere: «Era cambiato tutto così in fretta che a volte la città ti sembrava irriconoscibile».
La cronaca prende, allora, il sopravvento e la vita della casa è stravolta dalle vicende dell’Iran. Irrompe la storia: prima il regime dello scia, con la sua polizia e la modernizzazione forzata che non fa crescere il paese da dentro, il legame con l’America, sentita sempre come corpo estraneo di corruzione (qui affondano le radici di un odio tuttora esistente); poi, con ritmo più serrato, seguono la caduta dello Scià, l’arrivo a Parigi di Khomeini, la guerra tra Iran e Iraq. È un tempo di distruzione, il tempo della ferocia di un regime che annienta con l’alibi della religione. È il tempo della delazione che trasforma anche persone della casa in crudeli strumenti della sharia. La rivoluzione porta a galla il peggio di ognuno, delazioni e processi devastano le famiglie. Al figlio di Aga Jan, giustiziato senza processo, è negato anche l’onore della sepoltura in quelle che sono tra le pagine più intense del romanzo. La casa della moschea è inghiottita dalla violenza della Storia: «il dolore avvolge la casa come un chador nero».
Eppure gli anni trascorrono, il peggio è vendicato, il dolore si placa e la riconciliazione può compiersi, tanto che Aga Jan, nel villaggio di origine della famiglia, dove la gente, che da sempre tessevacon grande rispetto i tappeti per lui, una notte gli aveva negato la sepoltura per il figlio assassinato dalla rivoluzionecommenta: «Hanno riparato al loro errore. Sono gente di esperienza, questi paesani. Sono saggi e la loro saggezza è frutto delle ricche tradizioni di questa terra».
L’Iran degli ayatollah si ritrasforma nella mitica Persia, terra di poesia arte e bellezza, di miti e di affabulazione; il racconto torna a un ritmo più disteso e, tra i dirupi vigilati dalle aquile, può di nuovo sconfinare nella fiaba e illuminare di speranza al futuro.
L’autore, in un’intervista, ci tiene a ricordare che si sente persiano, non iraniano! Aga Jan, il capo della casa e del bazar, così capace di amare e di donare, è espressione del mondo della tradizione che è andato perduto e che lo scrittore vorrebbe comunicare all’occidente, aprendo la porta della narrazione come si aprirebbe una porta di casa per accogliere degli ospiti invitati a conoscere e sentire ciò che è sconosciuto perché ignoto o semplicemente stravolto da una sbagliata informazione. Kader dice: «Scrivo i miei libri non solo per me, ma per voi. Per portarvi dietro le tendine e mostrarvi la nostra vita».
Scostando questi veli, si può scoprire il sentire della condivisa condizione umana, gaudium et spes luctus et angor, perchéugualisono le ansie per il mutare della quotidianità, simili gli abissi di devastazione portati dagli eccessi della politica o della religione. Diversi restano i percorsi della storia e della cultura, su questi si può riflettere per diventare capaci di imparare, anche dagli errori. Ma gli umani, più facilmente, ignorano e dimenticano.
 sottovento                                                             g.c.  
C’era una volta la politica estera – Il Grande comunicatore, a suo dire il migliore presidente da 150 anni a questa parte, insiste nel sostenere di aver straordinariamente rivalutato l’immagine internazionale dell’Italia. Questo sarebbe il felice risultato della sua politica delle pacche sulle spalle… L'ha confermato anche Tony Blair chiarendo che nelle riunioni internazionali «Ci teneva allegri tutti».
Ora, una autorevole rivista Usa –Foreign Policy– pubblica un intervento sul nostro paese e lo titola: «The bordello State». Che tristezza! Cosa dice in proposito il nostro ministro degli esteri? Secondo una nota tecnica parla d'altro e dice di non avere parole adatte per commentare la politica estera del suo predecessore D’Alema (?!?).
Peccato: era (quasi) meglio quando era peggio. Intanto che fine ha fatto l'inchiesta a proposito della motovedetta (ex italiana) della marina libica che, alla presenza di sei finanzieri italiani, ha sparato in acque internazionali su un nostro peschereccio? Il ministro dell’interno li scusa: «Probabilmente pensavano che trasportassero emigranti» (sui quali evidentemente secondo lui è lecito sparare!). Sorprende la sorpresa di tanta stampa italiana. Ci ha fatto riflettere Emma Bonino: «Che cosa vi aspettavate da Gheddafi?».
Felix culpa - C'è voluta una insopportabile bestemmia, detta sì in privato, ma addirittura per suscitare una risata, a convincere le nostre istituzioni cattoliche che, forse, il nostro presidente non è quel difensore della fede cattolica e della morale che fino a ieri hanno creduto che fosse. Una «deplorevole offesa ai credenti e alla Shoa», scrive l'Osservatore Romano, e sì perché, per soprammercato, si è trattato anche degli ebrei. Risibili le difese: certo che gli ebrei per primi scherzano su loro stessi, ma lo sterminio di milioni di persone è altra cosa, intoccabile. Forti prese di posizione anche di Avvenire e -ma questo non sorprende- di Famiglia Cristiana.
Da cattolico trovo che c'è di peggio: l'illustre mons. Fisichella -neo presidente del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione (sic!)- trova che «Bisogna sempre in questi momenti saper contestualizzare le cose… in Italia dobbiamo essere capaci di non creare delle burrasche ogni giorno per strumentalizzare situazioni politiche che hanno già un loro valore piuttosto delicato». Allora è tutto chiaro: secondo il nostro, Berlusconi -pluri sposato e pluri divorziato- era autorizzato a fare la comunione e ora, contestualizzando, gli sarebbe anche consentita la bestemmia, ma da non strumentalizzare. Anche il super cattolico Formigoni attenua, teme non la bestemmia, ma la strumentalizzazione: «Si tratta di battute rubate sulle quali neppure Berlusconi si riconosce (e Formigoni lo sa! ndr.), l'inconveniente c'è stato ma non va strumentalizzato». Il problema al solito non è il fare ma il dire in giro…
Qualche riflessione ex post. Questo atteggiamento complessivo del mondo cattolico ufficiale è transitorio e, passata la burrasca, tutto tornerà come prima oppure sarà l'inizio di una presa di coscienza (comunque tardiva, ma meglio tardi…)? Che dire delle altrettanto gravi bestemmie di ieri -e di oggi- contro gli stranieri, gli immigrati i richiedenti asilo, sostanzialmente i piccoli e i poveri che sono i primi nel cuore di Dio? E ancora, non sarà invece che l'istituzione -vista la emersa disponibilità del Presidente a recuperare il consenso della chiesa- coglierà l'occasione per chiedere al governo ancora di più e di tutto, e al diavolo i principi e i valori?
Qui Napoli -Dire del traffico e della confusione di questa grande città è in fondo quasi una banalità. Idem dicasi per la spazzatura diffusa, i miracoli -come si sa- non sono oggetti di uso comune. Bella forza pretendere che il Cavaliere ne faccia ancora uno (al mese?). Girare a piedi o con i mezzi pubblici è un buon modo per respirare la città e anche per avere riconfermata la bella disponibilità e la cortesia dei suoi abitanti, specie con i forestieri.
Un caso strano. Siamo in una strada del centro, molto trafficata. La corsia preferenziale esiste ma è intasata da… chiunque. Siamo a un incrocio e mi attira una curiosa procedura: ci sono due persone, un uomo e una donna in borghese, ma dotati di un gilè giallo rifrangente, con la scritta agente del traffico, o qualcosa di simile, e con una paletta in mano. Autoveicoli che sembrano avanzare in tutte le direzioni. Aspettiamo, finalmente è il verde, ma l'incaricato perentoriamente ci blocca. Pazienza, perderemo un turno. Niente affatto: appena il semaforo diventa rosso, altrettanto perentoriamente la paletta ci indica che dobbiamo affrettarci, circolare, e così facciamo. E così seguiteranno. Un chiaro caso di incompatibilità di carattere tra il semaforo e gli addetti alla fluidificazione manuale del traffico.
 nel deserto                                               
LA NOSTRA LETTURA DEL LIBRO DEI NUMERI - 1. PREMESSA
Mariella Canaletti e Enrica Brunetti
Affrontare la lettura del libro dei Numeri non è impresa semplice e forse non è casuale la scarsità di studi sull’argomento in ambito cristiano, cattolico o riformato che sia.
La scelta da parte nostra ha ragioni diverse. Innanzitutto la consuetudine a una sostanziale alternanza negli anni fra letture del primo e del nuovo Testamento. Poi, il desiderio di rendere più organica la conoscenza della prima parte della Bibbia, dove avevamo finora accostato libri più narrativi o sapienziali e tralasciato i più ostici e lontani testi a prevalenza normativa. Questo nonostante qualcuno sostenesse l’opportunità di scegliere comunque libri più coinvolgenti e traducibili nella sensibilità e negli interrogativi dei nostri giorni. Infine è prevalsa la volontà di capire in che modo un testo così lontano possa far parte dello stesso canone biblico cui appartengono le passioni, la poesia, le narrazioni e gli insegnamenti che accompagnano la storia della salvezza.
Ci attende, quindi, un percorso arduo, un deserto, appunto, da attraversare fino alla terra promessa dei significati, perché, come dice Jean Louis Ska, uno dei maggiori studiosi di Pentateuco:
Il lettore di oggi, credente e non credente, non può più ignorare i problemi che pone la lettura di un testo composto più di venti secoli or sono. Significherebbe rinnegare il senso della storia e il senso dell'«incarnazione della parola». Significherebbe passare accanto alla profondità della Scrittura che ci parla soprattutto perché ha una ricca storia.
Per cominciare uno sguardo al Pentateuco.In partenza, sfruttando letture, frequentazioni e competenze interne al gruppo, abbiamo tentato di inquadrare il libro scelto nel suo contesto. Le note che seguono intendono sintetizzare il discorso fra noi, facendo emergere glielementi essenziali, funzionali ai nostri interessi e al nostro percorso. Gli argomenti, qui solo accennati, possono essere facilmente approfonditi in specifiche bibliografie altrove rintracciabili. 
Numeri è il quarto libro di quello che nella tradizione cristiana è chiamato Pentateuco: la parola deriva dal greco e si riferisce ai cinque astucci nei quali i rotoli venivano custoditi. La tradizione ebraica usa, invece, per questi libri che si concludono con la morte di Mosè, il termine Torà che significa insegnamento, direzione, ma che, per il contenuto normativo, è reso con «legge» e, più specificamente, con «la legge di Mosè».
Alla fine del Deuteronomio, quinto e ultimo libro della Torà, si legge:
Non è più sorto in Israele un profeta come Mosè, che il Signore conosceva faccia a faccia, per tutti i segni e i prodigi che il Signore lo aveva mandato a compiere in terra di Egitto ...” (34, 10-11)
Parole da cui si evince che la rivelazione di Mosè -la Torà intesa come «legge di Mosè»- è insuperabile e rimarrà sempre valida; che la superiorità di Mosè è dovuta alla qualità del suo rapporto con Dio e che l’Esodo è l’evento fondatore della storia di Israele. Il Pentateuco acquista, quindi, un’autorità dipendente dall'autorità superiore di Mosè.
Mosè, inoltre, nella tradizione sia ebraica sia cristiana, è stato considerato autore dei primi cinque libri della bibbia. Solo in tempi più recenti le scienze bibliche hanno posto la «questione del Pentateuco», hanno indagato sulla sua formazione -documenti e tradizioni- e sulla sua redazione definitiva. Nel tempo, dall’osservazione di varianti, ripetizioni, stili eterogenei, differenze di teologie e generi letterari, si è andata formulando la cosiddetta ipotesi documentaria, secondo cui il Pentateuco nascerebbe dalla combinazione di quattro documenti, o tradizioni orali pre-letterarie risalenti a epoche diverse: Jahvista (J),perché qui Dio è nominato con le lettere del tetragramma, X secolo; Elohista (E), perché qui Dio è chiamato invece Elohim, VIII secolo; Deuteronomista (D),dove prevale il tema dell’alleanza con Mosé, VII-VI secolo; Sacerdotale (P, dal tedesco priester=sacerdote), VI-V secolo.
Questa ipotesi, però, non è parsa esaustiva ed è stata integrata da ulteriori criteri come, per esempio, lo studio delle forme letterarie, mentre, d’altro canto, si è messa in crisi anche la stessa esegesi storico-critica. Insomma un discorso complesso e non concluso, con qualche punto fermo e molti interrogativi tuttora aperti, che sfugge a una sintesi definitiva e tiene aperta la ricerca. Come scriveva sull’argomento Robert Langlamet della scuola biblica di Gerusalemme: «Sulle piste del deserto si può sognare la terra promessa che però, dopo un secolo di ricerche, non è ancora all’orizzonte». E questo è il bello della bibbia!
Comunque, in attesa di ulteriori sintesi, l’ipotesi documentaria, integrata da altri criteri di ricerca, è ritenuta la più valida così che il Pentateuco va letto come storia della salvezza, creduta e testimoniata da Israele nella sua storia millenaria. I documenti di cui si è detto (J, E, D, P) sono poi da ritenersi testimonianze storiche differenti della fede di Israele che esprimono diverse teologie individuabili dal loro studio letterario.
In particolare al documento sacerdotale (P), alla sua tradizione, si fanno risalire sia Levitico che Numeri. Questa tradizione nasce nell’esilio, dopo la distruzione di Gerusalemme del 586 da parte di Nabucodonosor, quando il popolo deportato a Babilonia comincia a chiedersi se il Dio Murdok dei vincitori non sia più forte di quello di Israele. Si forma a opera dei sacerdoti (vedi Ezechiele), perché, nella drammaticità della situazione, occorreva ravvivare la speranza in un Dio sempre presente e fedele in ogni tempo che avrebbe richiamato il suo popolo dall’esilio.
Tutto il documento esprime una solida mentalità teologica e vuole tracciare un quadro completo della storia della salvezza, incentrandosi su due temi fondamentali: la tenda santa e la terra. L’epoca del deserto diventa paradigma per gli israeliti in esilio, perché a Babilonia si sentano ancora popolo di Dio, benché lontani dalla patria e dal tempio, senza re e senza stato.
I testi hanno forme schematiche di narrazione, con genealogie e simboli numerici, il loro stile è alquanto rigido, ma non banale; particolare è l’interesse per le istituzioni cultuali di cui il sabato costituisce l’emblema; i racconti del cammino nel deserto dopo il Sinai e la legislazione riguardante il culto esprimono un vivo senso del peccato e vogliono forse stigmatizzare in questo senso la sfiducia degli esuli di Babilonia nell’a-dempimento della promessa da parte di Dio. Forte è il desiderio della riconciliazione con Lui, mentre il culto non deve essere visto come ritualità formalistica, ma come elaborata teologia.
Gli appunti qui riportati intendono, allora, sottolineare l’importanza dei criteri di lettura, necessari per poter decodificare e avviare la comprensione di testi scritti tanto tempo fa, in modi e culture lontani. Poi si potrà pensare alla connessione con la tradizione cristiana, perché c’è unità fra il primo e il nuovo Testamento: non va dimenticato che Gesù era ebreo! Infine si potrà tentare una attualizzazione, affinché quella parola antica possa risuonare anche per noi.
 segni di speranza                                                                     s.f.  
AMATE I VOSTRI NEMICI
Luca 6,27-38
Ritroviamo qui molte delle raccomandazioni più operative consegnate da Gesù di Nazareth ai suoi seguaci: «amate i vostri nemici; benedite coloro che vi maledicono; pregate per coloro che vi fanno del male»; e ancora: «porgigli anche l’altra guancia; lasciati prendere anche la tunica; date a chiunque chiede; a chi ti ruba non chiedere indietro». Mi sembra che, come nel discorso della Montagna, venga presentato così l’identikit del cristiano, o, quanto meno, i connotati che tutti si aspettano di ritrovare in chi si professa tale. Raccomandazioni che ricordiamo bene e che continuano a provocarci. Forse, valutando la distanza dal nostro quotidiano e per prevenire scoraggiamenti, le abbiamo catalogate come massimalismi, da interpretare con realismo. Probabilmente identificano invece solo quelli che vivono già negli schemi del Regno che, nelle nostre attese, verrà.
Le raccomandazioni continuano, più in profondità: «siate misericordiosi, perdonate, non giudicate»; comportamenti che il mondo si aspetterebbe (o pretenderebbe) di trovare sempre in un cristiano. Dice infatti Lutero (Paolo Ricca: Come in cielo cosi in terra, Claudiana), forse parafrasando il testo che abbiamo davanti: «Regno di Dio significa essere pii, onesti, puri, miti, mansueti, benigni, ripieni di ogni virtù e di ogni grazia». Parole che vanno spogliate, credo, della loro accezione moralistica: forse non ci vogliono invitare a essere buoni, quanto indicare che la carità appartiene alla realtà del-l’uomo e della sua umanità.
Comunque il Regno è un mistero, nel senso, spiega ancora il pastore Ricca, che non può essere mostrato, né tanto meno dimostrato, non può essere identificato con nessuna realtà terrena, religiosa, o laica; è una presenza segreta; non possiamo costruirlo noi, lo possiamo solo invocare da Dio. È frutto di una Sua decisione che sollecitiamo con la preghiera. Questa è la nostra responsabilità. E non sembri troppo modesta, a noi uomini del fare, perché non sappiamo cosa accadrebbe se nessuno lo invocasse. Questa osservazione ci suona familiare perché ricorda considerazioni che ci siamo scambiati tra noi in altre occasioni, nel definire i contorni della nostra responsabilità.
Ma quante parole! Che senso di incapacità e di impotenza! E, per fortuna, non siamo mai soli.
Quinta domenica ambrosiana dopo il martirio di S. Giovanni il Precursore
 schede per leggere                                            m.c.   
Si parla oggi molto di Acciaio (Rizzoli 2010, pp. 357,18,00 €), e della sua autrice, la bella e procace Silvia Avallone. Non mi sembra un testo meritevole di nota: nonostante i premi e le lodi, lo ritengo un prodotto artefatto, di una giovane che sa dare ritmo al racconto, ma scrive male, disattenta ai particolari; i personaggi sono tutti al limite, improbabili, e la fabbrica, che dovrebbe essere al centro, lontana e ininfluente.
Come lettura amena, ricordo due libri di Claudio Paglieri: si tratta del genere «inchieste del commissario X» che, a differenza di altri molto più conosciuti e pubblicizzati, ha qualche pregio di realismo e non banalità. Domenica Nera e Il vicolo delle cause perse sono i titoli, editi dalla Piemme nella collana bestseller, al costo ragionevole di 10,50 €.
Ambientati a Genova e nella Liguria, terra natale dell’autore a cui si sente profondamente legato, il primo si svolge nel mondo del calcio, e ne sviscera, attraverso la morte dell’arbitro Ferretti, tutta l’ambiguità e la corruzione; il secondo, sempre partendo dall’omicidio di una giovane impiegata di uno studio legale, toglie molte illusioni sulle raccolte di fondi di beneficenza, e sulle persone benpensanti che tendono a coprire interessi e squallidi traffici che le accompagnano. Protagonista è sempre un commissario, che ha scelto, per una dolorosa vicenda personale, la strada dell’assoluto rigore e di una onestà cristallina. Ma tutto non è così semplice! E proprio l’ambiguità delle situazioni e dei personaggi, che nascono dalla realtà dell’Italia di oggi, mi sembra il pregio di questi testi, che si leggono d’un fiato. 
 Il Gallo da leggere                                                   u.b.  
Il quaderno di ottobre del Gallo offre un’ampia analisi di Bruno Segre del dibattito americano sul centro di cultura islamico da costruire sul terreno di Ground Zero: elaborazione della tragedia per un futuro di convivenze o arrogante proclamazione di vittoria? E il tema ritorna nell’utopistico progetto di Silviano Fiorato per una costruzione simbolica sacra a tutte le religioni. Carlo Carozzo propone una articolata riflessione sul concetto di santità e di comunione dei santi, coloro che già in vita si sentono abitati dalla gioia di vivere. Dario Beruto torna sull’inquinamento riconoscendo come tutti siamo untori, responsabili della diffusione del danno con il comportamento quotidiano e Maria Rosa Zerega illustra alcuni eventi genovesi che introducono problemi da ripensare: l’Europa, i diritti civili, il reddito di cittadinanza. Al centro la presentazione di un poema postmoderno di Guido Zavanone, originale commistione di classico e contemporaneo, addirittura con riferimenti danteschi.
la cartella dei pretesti 
Vivere la responsabilità significa essere consapevoli dell’essenziale storicità dell’esi-stenza umana (la memoria è una delle sorgenti della creatività e della spiritualità di cui il nostro spirito ha bisogno). Intendere la fedeltà come immobilismo rivolto al passato significa tradire la logica stessa dell’Alleanza.
LILIA SEBASTIANI, Responsabilità, Rocca 15 aprile 2010.
Dio mi sta bene, e anche la patria e la famiglia; ma il trilogismo Dio-Patria-Famiglia non mi sta più bene. Dico no a quel dio usato come cemento nazionale, a quella patria spesso usata per distruggere altre patrie, a quella famiglia chiusa nel proprio egoismo di sangue. Non mi riconosco tra quei cittadini ligi e osservanti che vanno in chiesa senza fede, che esaltano la famiglia senza amore, che osannano alla patria senza senso civico.
ADRIANA ZARRI, Una trilogia inopportuna, Mosaico di pace, 7 luglio 2010.
Allora, è proprio vero che il clima sta cambiando?Io credo di sì, ma di per sé il gran caldo così come i grandi freddi non costituiscono prova sufficiente di niente. Anche se una frequenza crescente di oscillazioni climatiche estreme rafforza i nostri sospetti. Ma molti governi, Italia in testa, non fanno nulla per creare un'opinione “verde” né per affrontare seriamente il problema del collasso ecologico. La crisi economica è e resta grave, ma il problema della crescente invivibilità del nostro pianeta è molto, molto più grave.
GIOVANNI SARTORI, Il collasso ecologico, Corriere della Sera, 15 agosto 2010.
Ci sono momenti, e la crisi economica è uno di questi, in cui può crearsi un conflitto mortale fra due imperativi democratici che sono l’esigenza del consenso e quella di preservare la propria civiltà. Il leader democratico ansioso di raccogliere immediati consensi vince forse alle urne, ma non salva necessariamente la civiltà. «Non a caso nell’assetto istituzionale della democrazia si distingue fra istituzioni maggioritarie elettive, nelle quali prevalgono le ragioni del consenso, e istituzioni non maggioritarie di garanzia, in primo luogo le corti, nelle quali dovrebbero prevalere le ragioni della civiltà codificate proprio in quei diritti a cui la le maggioranze sono meno sensibili» (Giuliano Amato).
BARBARA SPINELLI, Zingari le radici dell’odio, La stampa, 29 agosto 2010.
Hanno siglato le rubriche: Ugo Basso, Giorgio Chiaffarino, Sandro Fazi, Mariella Canaletti
Notam,lettera agli Amici del Gruppo del Gallo di Milano - www.ildialogo.org/notam
quelli di Notam
Giorgio Chiaffarino, Ugo Basso; Aldo Badini, Enrica Brunetti, Mariella Canaletti, Franca Colombo, Sandro Fazi, Fioretta Mandelli, Chiara Picciotti, Margherita Zanol
Corrispondenza:info@notam.it
Giorgio Chiaffarino, Via Alciati, 11 - 20146 Milano ® Ugo Basso, Via Muratori, 30 - 20135 Milano
Pro manuscripto
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L’invio del prossimo numero 359 è previsto per LUNEDÌ 11 ottobre 2010


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Numero dell'11 ottobre 2010 - S. Firmino - Anno XVIII - n. 359





Marted́ 12 Ottobre,2010 Ore: 15:29
 
 
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NOTAM - Lettera agli amici del gruppo del Gallo di Milano

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