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ISSN 2420-997X

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«Ecco cosa dovrete fare: dirvi reciprocamente la verità» (Zc 8,16)


Milano, 24 maggio 2010 - Maria Ausiliatrice - Anno XVIII - n. 352


Notam
«Ecco cosa dovrete fare: dirvi reciprocamente la verità» (Zaccaria 8,16)
 
 
 
Milano, 24 maggio 2010 - Maria Ausiliatrice - Anno XVIII - n. 352
 
TRENTA RIGHE DI ATTUALITÀ
Sandro Fazi
Stiamo attraversando eventi che si ripercuoteranno per lungo tempo a venire avanti a noi: il mondo non sarà più come prima, lo sconvolgimento del nostro sistema coinvolge molti ambiti del nostro vivere.  
Nella chiesa. Anche Hans Küng, il grande teologo, severo critico della Chiesa e del papa, in un’intervista recente a Repubblica, ha detto di sentirsi solidale con il papa in questo momento di grande sofferenza della chiesa. Il papa si sta muovendo con coraggio, determinazione, trasparenza: parole sconosciute alla pratica vaticana fino a oggi. La presa di coscienza è nata dal movimento non contenibile della opinione pubblica, ma i tentativi iniziali di minimizzare, ancora nascondere, temporeggiare, mistificare si sono presto dissolti. Il peso della situazione, per chi ritenga di avere sulle proprie spalle la responsabilità del sistema, è enorme. La chiesa soffre e mi sembra il momento di dire che siamo solidali con lei. Non sono un papista e non è questa la chiesa che vorrei, ma è la mia chiesa, dove sono maturato spiritualmente. In questo momento le sono vicino; le critiche riprenderanno dopo, tenendo presente che le difficoltà riguardano l’involucro non la sostanza (Martini). Detto questo, mi disturba la vista di quelle manifestazioni da stadio di masse acclamanti di cattolici doc. Forse è difficile per un capo non farsi distrarre.
Disastro ambientale nel Golfo del Messico: ne parleremo ancora per molto tempo. Per fortuna le notizie sulla efficacia degli ultimi provvedimenti sono incoraggianti. Il progetto era ambizioso e affascinante; si appoggiava su una tecnica che aveva sempre ottenuto encomiabili risultati; gli avvenimenti si sono incaricati di dimostrare che in questo caso si era osato troppo, date le enormi difficoltà dell’impresa, e possiamo dire con leggerezza. Comunque si può dire che se l’industria aerospaziale americana avesse proceduto con realizzazioni altrettanto affrettate, non sarebbe mai arrivata agli obiettivi che ha raggiunto. Forse se fosse stato adottato un approccio più scientifico, i risultati sarebbero stati diversi. L’approvazione alla installazione era stata data dalla cricca di quel Bush che ben conosciamo. Comunque le perforazioni continueranno: gli Sati Uniti non sanno ridurre il consumo di idrocarburi in tempi brevi e il pianeta starà a guardare.
Crisi finanziaria ed economica. Il sistema Italia per il momento ha retto: chapeau! L’Italia è ancora inclusa di fatto nel gruppo dei pigs, ma apparentemente con più rispetto. Non credevamo vero quanto i ridicoli personaggi che ci governano sono andati dicendo da fin troppo tempo. Comunque la notizia più significativa è che dal 2011 i bilanci nazionali dovrebbero avere un esame europeo prima di quello dei parlamenti nazionali. Una perdita di autonomia che potrebbe essere l’inizio di una effettiva governance europea, un evento che non può non trovarci favorevoli. Le crisi possono essere anche utili. Purtroppo però il peggio forse deve ancora venire: difficoltà sociali ed economiche, già pesanti, aumenteranno presto. Speriamo di non perdere quel poco di solidarietà che ancora abbiamo.
in questo numero                              
D. Ghezzi E ADESSO CHE COSA PUÒ FARE LA CHIESA uU. Basso PER UNA RESISTENZA SERENA E COSTRUTTIVA u L. Novati CAMILLO DE PIAZ, LA PAROLA E IL SILENZIO u APPELLO PER IL 2 GIUGNO uP. Colombo 8XMILLE, UN PRIVILEGIO u cose di chiese e di religioni G. Chiaffarino VIVAILCONCILIO: UNA SORPRESA u film insieme E. Brunetti HEIMAT  u riuniti nel suo nome f.c. GLI ATTI DEGLI APOSTOLI - Paolo e le donne u segni di speranza s.f. SE MI AMATE, OSSERVATE I MIEI COMANDAMENTI u schede per leggere m.c. u la cartella dei pretesti
E ADESSO CHE COSA PUÒ FARE LA CHIESA
Dante Ghezzi
Ringraziamo Dante Ghezzi per questo illuminante contributo sulla delicato problema della pedofilia nella chiesa e sui possibili atteggiamenti da assumere. Della lettera di Benedetto XVI alla chiesa irlandese ha   scritto anche Giorgio Chiaffarino in Notam 350.
I fatti che vengono emergendo da più parti, riguardanti episodi innumerevoli di pedofilia dei sacerdoti sui minori loro affidati sono molto gravi. Le risposte degli uomini di chiesa preposti a incarichi delicati e che potevano essere freno, riprensione, correzione, denuncia sono state mille volte inadatte e colpevoli. Eppure si trattava di bambini e ragazzi violati, abusati, diciamo pure uccisi nell’anima. L’omis-sione e la minimizzazione dei superiori non è stata meno grave degli abusi e ha favorito il consolidarsi del fenomeno abusivo e delle conseguenti vittimizzazioni, nella consapevolezza delle persone offese che il loro dolore non veniva raccolto neppure da chi avrebbe potuto correggere e riparare.
Ha vinto l’orrenda regola del limitare e sedare lo scandalo che l’istituzione chiesa avrebbe dovuto sopportare in caso di rivelazione degli abusi; mettendo da parte le istanze della verità, della carità e della giustizia proclamata dal vangelo.
La scelta degli anni passati di sottrarre alla giustizia della società civile e di avocare alla chiesa e ai suoi ministri la trattazione dei casi di pedofilia rivelati si è dimostrata, qualora fosse bene intenzionata, un totale fallimento: tutto si è affossato, è rimasto come prima, si è anzi incrementato visto che le rivelazioni non hanno sortito effetti; è continuata la prassi insensata a colpevole di trasferire gli abusanti in altri luoghi, con l’effetto di fare loro trovare altre vittime.
Che cosa ha fatto cioè la chiesa? Invece di difendere i deboli e gli offesi con l’eser-cizio dell’accoglienza e del conforto; invece di assumersi le responsabilità di gesti orrendi ha fatto calcoli, gestito tornaconti, tacitato, insabbiato se non coperto e incrementato la violenza. I superiori hanno girato la testa dall’altra parte e hanno proseguito di fatto indifferenti alle vittime, come il levita e il sacerdote della parabola.
È necessario capire. Che cosa la chiesa, maestra di vita come si definisce, non ha saputo cogliere, comprendere? Che l’abuso sessuale e la violenza segreta sono attacchi devastanti alla persona prima di connotarsi come azioni immorali o proibite, sono omicidi dello spirito, della speranza, del sentirsi degni di futuro; sono umiliazioni che fanno diventare le vittime odiose e spregevoli a sé; sono compromissioni del crescere armonico e anche sofferente premessa a vite stentate, spaventate, insostenibili; sono cioè azioni di distruzione e devastazione della persona. E, aggravante terribile, l’abuso è stato perpetrato da persone degne di confidenza a cui le vittime si consegnavano, nella fiducia delle famiglie. Inoltre l’abuso è stato agito con l’imposizione del segreto o con la violenza minacciante o con il diabolico imbroglio di fare credere alla vittima che gli atti abusivi erano un segno della volontà divina. Gli uomini della chiesa non hanno capito le persone, il loro valore violato e schiacciato. Ecco che cosa è successo. 
Chi sono i colpevoli? Colpevoli è la parola giusta. Prima sono tutti quelli che hanno abusato, che portano quindi una responsabilità personale; poi coloro che, dalla periferia all’estremo vertice della chiesa, hanno poi taciuto o minimizzato o trattenuto o scusato o omesso o coperto o mascherato o mentito. Attraverso di loro, che sono la chiesa istituzionale, la giustizia e la carità sono state sconfitte con le vittime. 
E adesso gli uomini di chiesa hanno veramente capito o reagiscono a ciò che ormai non è più arrestabile?
Ed ecco la domanda che è stata posta, la domanda da cui partire: che cosa può fare la chiesa adesso? Credo, per prima cosa, dire la verità, ammettere; questo è l’inizio del ristabilimento della giustizia. Evitando di dire che la pressione è troppa, le accuse alla chiesa eccessive.
Poi chiedere scusa, perdono dal profondo, per l’offesa dei perpetratori; per tradimento dei vescovi e dei superiori consumato con il loro pavido silenzio.
Quindi riparare, garantendo il risarcimento; ma partendo prima dall’imbarazzato e doveroso e umile ascolto delle vittime, finora troppo spesso ricacciate, loro, gli agnelli offesi e perduti, nella loro disperazione e nella loro solitudine proprio da chi era pastore preposto all’accoglienza.
E poi punire, finalmente, senza indugi e tentennamenti chi ha così gravemente tradito il comando evangelico sui fanciulli, nella chiesa e nella società civile.
E allora, da subito, ora e per sempre, scostarsi da ogni abuso denunciando alla legge ciò che, offendendo la persona, è reato; perché nessuno può essere giudicato e poi assolto per vie brevi e riservate. La verità va gridata sui tetti. Sì. Sì. Il resto è menzogna.
E ancora chiedersi insistentemente e a fondo, senza riserve mentali e comode evasioni, perché mai tutto ciò possa essere accaduto e pensare con umiltà a un rinnovato e profondamente diverso futuro.
 
PER UNA RESISTENZA SERENA E COSTRUTTIVA
Ugo Basso
Concludevo su Notam 349 alcune considerazioni sulle elezioni amministrative e regionali di fine marzo con un invito, a me in primo luogo, a vivere questo incubo civile e politico, di cui non sappiamo prevedere la durata e l’entità dei danni, in una resistenza serena e costruttiva. La serenità è essenziale per una vita professionale e familiare appagante di cui abbiamo bisogno anche per essere cittadini attivi, critici e partecipi: frustrazione e paura inducono solo alla chiusura, all’amarezza, all’ag-gressività. Ciascuno deve trovare in sé le risorse per non farsi troppo danneggiare dalle circostanze esterne. Dico che occorre essere capaci di godere delle cose belle di ogni giorno, anche se il contesto è greve, anche se si perde, anche se la fine del tunnel è lontana.
Sorridiamo alle vignette e alle battute e diamo qualche sfogo alla nostra indignazione, ma la situazione del paese davvero crea turbamento anche nello spirito individuale di chi non si considera estraneo al suo tempo. Quando parlo di serenità comunque necessaria non intendo naturalmente dire indifferenza: proprio al contrario, credo che componenti importanti della serenità siano consapevolezza e buona coscienza. Consapevolezza di quanto accade e buona coscienza di non esserci chiamati fuori.
Individuo tre grandi piste per vivere in modo costruttivo questo tempo, anche per chi non intende esprimersi in una militanza partitica. La prima è la vigilanza nei confronti dell’esistente da non sentire come fatale. L’opinione pubblica è costruita soprattutto dall’abitudine, dal dare per scontato anche quello che non ci piace perché ormai, che ci vuoi fare, è così. Per fare qualche macro esempio, dico che chi vince le elezioni può fare quello che vuole, la costituzione è un residuato storico, che il fascismo non è un problema, che la scuola sia privata di risorse e offra una preparazione debole, che le ferrovie non funzionano. Anche se non siamo in grado di offrire soluzioni alternative, convinciamo noi stessi e, se possiamo, chi ci sta vicino che non è vero che non può essere diversamente. E cerchiamo di stabilire relazioni con chi ancora è capace di spirito critico, di indignazione e di speranza.
La seconda pista è quella dell’informazione: fatti consapevoli che l’informazione di massa -quasi totalmente quella televisiva e largamente quella cartacea, compresi i quotidiani a distribuzione gratuita- è finalizzata alla manipolazione del consenso al potere, anche con vistosi silenzi e clamorose bugie oppure a distrarre dai problemi veicolando l’interesse alle celebrazioni, purtroppo anche religiose, alla cronaca e allo sport, è necessario accedere sistematicamente ad altre fonti. Naturalmente sempre con senso critico: non è sufficiente che una fonte non sia fra quelle accennate per accreditarla come credibile, ma non possiamo considerarci informati se non attingiamo ad altre fonti: siano stampa alternativa e specialistica, siano comunicazioni per internet, siano convegni. Solo così potremo radicare le nostre convinzioni, e magari anche passarle a qualcuno e costruire una resistenza non solo ideologica e dunque più fragile: siamo, per esempio, in grado di dire quanto costerà il federalismo fiscale a chi gioverà e a chi farà danno?
La terza pista è la progettualità, la più impegnativa, quella forse meno alla portata di tutti. Naturalmente non dico che ciascuno debba elaborare progetti politici e amministrativi: tuttavia dobbiamo farci consapevoli che per costruire un’alternat-iva, sia di impostazione politica generale, sia nei singoli settori, occorrono progetti da costruire o da sostenere con motivazioni e convinzione, anche qui attraverso l’informazione, lo studio, la messa in discussione. Naturalmente l’obiettivo sarà sempre quello dell’utile comune, non del vantaggio personale.
E a quest’ultima nota morale -senza impegno morale sono convinto che non si procede- faccio seguire due parole vecchissime: partecipazione e rifiuto dei vantaggi che possono venire a me da un sistema che ritengo sbagliato: che so? L’evasione fiscale, l’ottenimento di un posto senza merito, assunzioni irregolari di dipendenti...

Ringraziamo sin d'ora gli amici che ci segnaleranno l'indirizzo di persone che potrebbero essere interessate a questa pubblicazione e anche quelli che la inoltrano attraverso la propria mailing list.

CAMILLO DE PIAZ, LA PAROLA E IL SILENZIO
Laura Novati
Il tema dell’importanza di vivere sulla frontiera in quanto momento di superamento, di confronto, di costante attraversamento, domina la vita e la mente di padre Camillo, è dato congenito, è misura di comportamento. Il frate servita «dritto e silenzioso», come l’ebbe a definire Mario Soldati, fu da questo punto di vista estremamente coerente e deciso; per amore della sua terra, anzitutto, in cui tornò, «esiliato in patria», dopo la cacciata dal convento di Milano imposta dal sant’Uffizio:
«La Valtellina, dolce e vetusta, dove tornai nel 1957, non era quella di oggi, deturpata e sconciata, un po’ come tutte le montagne e le coste italiane, dal cemento. C’era più povertà, certo, ma era vissuta in purezza, non in disordine. L’ambiente, nel suo insieme, non era ancora degradato e, soprattutto, mi apparteneva e io appartenevo ad esso».
Intanto i rapporti con Milano continuano, con la Libreria, con la Corsia, tre giorni alla settimana, per anni, anche dopo che la Corsia nel 1974 è stata costretta a spostarsi in via Tadino.
C’è sempre in valle, dunque, e c’è sempre anche a Milano, ai funerali di Giuseppe Pinelli o sul sagrato del Duomo quando predica, nel gennaio del 1973, contro la guerra in Vietnam, ma soprattutto «contro le guerre di domani»; sono parole che lasciano il segno, dopo trent’anni e più non hanno perso la loro lucida forza quando leggiamo:
Dov’è – lo diciamo in questa piazza, davanti a questa cattedrale – dov’è il nuovo Sant’Ambrogio che, non contento di esprimere la propria amarezza, si faccia avanti per sbarrare l’entrata del tempio, l’entrata della comunione religiosa, dell’alibi religioso, al massacratore cristiano?
La Chiesa che lui ama, cui resta fedele nonostante tutto per tutta la sua vita, anche se il Concilio rimane la stagione più amata, quella della libertà e della speranza, è una Chiesa «leggera» diceva, capace di andare per il mondo priva di troppi impacci; era la Chiesa che accoglieva la comunione dei santi che per lui erano, vivi o morti, i tanti amici e compagni di strada che aveva incontrato, con cui aveva stretto fili mai destinati a spezzarsi; erano registi come Gillo Pontecorvo, economisti come Siro Lombardini, sociologi di più giovani leve come Aldo Bonomi, urbanisti come Antonio Cederna, scrittori come Wolfgang Hildesheimer o Lillo Cantucci, era il ricordo costante di Eugenio Curiel, di Felice Balbo, di Elio Vittorini, erano i tanti uomini e donne della confraternita degli amici di Camillo, sempre pronto ad accoglierli, ad ascoltarli.
Uomo di silenzio come di parola, ci consegna una serietà, una moralità di fondo nel vivere l’esistenza che è la sua vera, grande eredità:
«Andare in tutto il mondo, predicare il Vangelo a tutti. Come se fosse una cosa da nulla, come se questa fosse la consegna più naturale, tanto dimessi e naturali sono le parole e il tono con cui viene pronunciata. (…) Gesù dice le parole più importanti con lo stesso tono con cui direbbe: buona sera o, arrivederci, amici miei».
 

Riportiamo la parte più significativa di questo appello per il 2 giugno, omettendo il lunghissimo elenco delle organizzazioni promotrici a cui aggiungiamo la nostra ideale adesione.
La Repubblica e la Costituzione italiana sono legate in un rapporto indissolubile. Hanno radici comuni nella nostra storia e in particolare nella Resistenza, che, come ha ricordato il Presidente Giorgio Napolitano, non ha soltanto liberato il Paese dall'occupazione tedesca e dalla dittatura fascista, ma ha riunificato l'Italia.
Il 2 giugno è la Festa della nascita della Repubblica e della Carta Costituzionale. La Costituzione ha consacrato sentimenti, speranze, valori profondamente radicati, in cui si riconoscono tutti gli italiani. [...] La Costituzione è la base della nostra libertà. In essa sono scolpiti i pilastri della nostra democrazia: i diritti umani e la partecipazione della cittadinanza alla vita sociale e politica; la passione egualitaria, cioè la passione verso i diritti di cittadinanza, egualmente riconosciuti a tutti. A partire dal diritto al lavoro e alla formazione, eliminando gli impedimenti e gli ostacoli e creando le condizioni al suo esercizio effettivo; l'autonomia e la separazione dei poteri, compreso quello dell'infor-mazione; e la loro indipendenza, la loro laicità e l'equilibrio tra di essi.
Oggi questi pilastri e questi principi sono a rischio. E dunque la stessa democrazia può entrare in crisi e correre rischi di svuotamento e di involuzione. [...]
Facciamo del 2 giugno la ricorrenza civile e popolare per imparare, ridestare e tenere svegli i valori fondanti della Repubblica e della Costituzione.

8XMILLE,UN PRIVILEGIO
Piero Colombo
Torna d’attualità la questione 8xmille, cioè la scelta che il contribuente può indicare nella denuncia dei redditi per assegnare tale somma alle varie istituzioni religiose o allo Stato, per le spese di culto, per il mantenimento del personale addetto, per opere sociali e manutenzione degli edifici o altre finalità previste dalla legge istitutiva del 1989 (Concordato Craxi-Casaroli del 1984).  
Ciò avviene in tante nazioni, ma con modalità differenti. La particolarità tutta italiana sta nell’applicazione, talvolta bizzarra, dei vari dispositivi della legge.
Anzitutto, beneficiano del contributo solo le istituzioni religiose che hanno firmato un accordo con le Stato (ora sono sette + lo Stato stesso). In secondo luogo, la quota attribuita a ogni istituzione corrisponde alla percentuale delle scelte effettuate dai contribuenti, ma la quota che non è stata attribuita a nessuna delle otto entità (nel 2009 i contribuenti che non hanno effettuato alcuna scelta sono stati il 56,5%), viene ulteriormente suddivisa in proporzione alle percentuali di preferenze espresse, anziché rimanere a disposizione dello Stato. Quindi chi non esprime una scelta rafforza ugualmente la quota dei vari percettori. Questa redistribuzione riguarda anche le comunità ebraiche, i Luterani, gli Avventisti del VII giorno e lo Stato, mentre i Valdesi e l’Assemblea di Dio in Italia non hanno accettato tale quota (che è stata poi attribuita allo Stato) ritenendola ingiusta. Con questo conteggio la Chiesa cattolica, nel 2009, ha ricevuto €. 967.000.000 pur avendo avuto solo il 39% di preferenze espresse.
Il Ministero dovrebbe eseguire i conteggi entro tre anni, in realtà le somme vengono elargite con notevole ritardo, rendendo molto difficoltosa la programmazione delle attività. Ma per la Chiesa cattolica si è avuto un occhio di riguardo anche in questo: ogni anno, alla scadenza dell’esercizio finanziario, le viene erogata una somma corrispondente all’ultima versata, salvo conguaglio dopo il conteggio ufficiale. Ma c’è di più: nel settembre 2009, dopo l’incidente diplomatico Berlusconi-Bertone del 26.8, parte dei fondi destinati allo Stato per la difesa dei Beni Culturali sono stati assegnati immediatamente a favore di 26 immobili ecclesiastici (suscitando qualche protesta perfino nel centrodestra!).
Poiché ogni modifica agli accordi previsti dal Concordato deve essere ratificata dal Parlamento è facile prevedere che, con l’attuale assetto politico, difficilmente potranno pensare di ottenere un finanziamento gli Islamici, i Testimoni di Geova o i Buddisti: si diminuirebbe il budget per gli attuali fruitori!
Per l’anno 2008 la CEI ha ottenuto (v. il sito 8xmille su Vikipedia) circa un miliardo di euro che è stato così distribuito: 373 ml per il sostentamento del clero, 424 ml per esigenze di culto e per l’edilizia, 205 ml per interventi caritativi in Italia e all’estero. I Valdesi invece destinano tutti i fondi per scopi sociali e umanitari, mentre le spese per il personale o per la manutenzione edilizia sono autofinanziate. Lo Stato ha provveduto, oltre alla ristrutturazione dei 26 immobili ecclesiastici, anche a interventi umanitari, all’assistenza ai rifugiati e alle calamità naturali (v. Abruzzo e altre evenienze).
La mia percezione, di contribuente e di credente, è di un certo disagio per il meccanismo di applicazione di una legge pur giustificata, ma che favorisce in modo esagerato la Chiesa cattolica a scapito di altre. Sono convinto che il cittadino debba farsi carico delle esigenze del culto e debba assicurare condizioni di vita adeguate al personale addetto, ma non si possano ignorare le necessità di altri soggetti religiosi: in altre parole, ognuno dovrebbe ricevere la quota destinatagli dal suo sostenitore, mentre l’uso sguaiato di spot pubblicitari mi sembra che squalifichi un gesto che dovrebbe essere di alta responsabilità e sensibilità religiosa portandolo a livello di prodotto commerciale.
 
cose di chiese e di religioni
VIVAILCONCILIO: UNA SORPRESA
Giorgio Chiaffarino
Devo ammettere tutta la sorpresa, ma anche una improvvisa interessata attesa, nel vedere, il gennaio scorso su Avvenire, una grande striscia verde che annunciava, non a caso per il successivo 25 gennaio, un nuovo sito: www.vivailconcilio.it. Molto opportunamente si autodefiniva «una avventura». Avevamo celebrato i cinquant'anni di quel 25 gennaio 1959 quando a sorpresa Papa Giovanni a una dozzina di cardinali increduli ne aveva dato notizia in San Paolo fuori le Mura. Il Concilio, tra luci, ombre, inevitabili compromessi, è stato una grande benedizione per la chiesa e ora, cinquant'anni, dopo se ne avvertono le grandi aperture, ma anche tutti i tentativi di diminuirne il valore, come se lo Spirito allora si fosse preso una vacanza. Il dibattito sulla sua interpretazione, sul valore delle parole - rottura, continuità, aggiornamento, riforma (no, certo!) … - spesso non è riuscito a nascondere la paura della novità, che invece dovrebbe essere una costante per il cristiano, e il desiderio di un ritorno all'antico, a un passato che non vuole passare.
A voler fare una graduatoria delle tante ricchezze che il Concilio ha reso disponibili indicherei, prima in assoluto, l'aver messo nelle mani del cattolico la Scrittura e nella lingua da lui parlata. È stata una vera rivoluzione che ha cambiato il destino di tanti di noi. Il mondo era cambiato e continua a cambiare. Anche la chiesa doveva e deve cambiare perché non è del mondo, ma è nel mondo e a questo deve rivolgersi come le ha chiesto il suo Signore. «Non è il Vangelo che cambia, ma siamo noi che lo capiamo meglio», ha detto papa Giovanni, e dobbiamo fare le necessarie attualizzazioni: «i cieli e la terra passeranno ma le mie parole non passeranno», lo leggiamo nei sinottici.
A parte i continui tentativi - anche ad alti livelli - di addebitargli le più diverse responsabilità, è vero che in questi anni la cosiddetta ricezione del Concilio, dei suoi documenti, non ha avuto tutta l'attenzione che sarebbe obbligatoria. Noi stessi talvolta ce lo siamo rimproverato: per tutti ricordo a questo proposito la nostra cara Giulia Vaggi. E ora lo strumento che oggi è nelle nostre mani costituisce un vero aiuto e una preziosa miniera che non solo mette molto facilmente a disposizione tutti i testi che i Concilio ha prodotto, ma anche tanti altri strumenti, interventi, analisi e studi che rendono un utile servizio agli interessati, anche a chi magari proprio specialista non è. È stato subito un successo e lo testimonia bene il contatore che segna il numero di frequentatori.
Grande riconoscenza allora la dobbiamo davvero ai promotori e, particolarmente, a chi quotidianamente si occupa di tenerlo aggiornato. A questi, sommessamente per una certa incorreggibile ignoranza, ci permetteremo di fare una richiesta: forse si potrebbe avere, anche per i testi conciliari, un motore di ricerca come quelli che già esistono - ce ne sono diversi - per la Scrittura? Se le difficoltà non saranno insormontabili, sarebbe questa la naturale evoluzione della straordinaria «avventura».
film insieme
HEIMAT
Enrica Brunetti
Coraggioso e affascinante monumento narrativo, documento storico del Novecento germanico e sterminata saga familiare, Heimat è l’impegno di una vita del regista tedesco Edgar Reitz, classe 1932, esponente della scuola del cosiddetto Nuovo cinema tedesco comeWim Wenders, Rainer Werner Fassbinder e Werner Herzog.
Una trilogia dalle dimensioni gigantesche: 11 episodi la prima parte (Una cronaca tedesca, 1984), 13 film la seconda (Cronaca di una giovinezza, 1992) e 6 la terza (Cronaca di una svolta epocale, 2004). Oltre 55 ore complessive di proiezione a cui si possono aggiungere i 114 minuti del documentario-prolologo, Storie dai villaggi dell’Hunsrück, del 1981. Un progetto, forse unico nella storia del cinema, avviato nel 1979 e concluso nel 2006 con la presentazione alla Mostra del cinema di Venezia dell’ultimo capitolo, Heimat-Frammenti: le donne.
Heimat è un vocabolo tedesco che non ha un corrispettivo nella lingua italiana. Viene spesso tradotto con Casa, Piccola patria, o Luogo natio. Indica il territorio in cui ci sente a casa propria perché vi si è nati, vi si è trascorsa l'infanzia, o vi si parla la lingua degli affetti. Un luogo dell’anima, oltre che fisico, in cui, prima o poi, si torna sempre.
La storia, che si sviluppa dalla fine della Grande Guerra (1919) fino ai giorni nostri, è radicata nell’Hunsrück, regione sul Reno a sud ovest della Germania, patria di Reitz, nel villaggio immaginario, ma realistico, di Schabbach. Storia in minuscolo di una comunità rurale, storie di famiglie e di personaggi stratificati in differenti classi sociali, che si succedono e partecipano alla tessitura della storia maiuscola con la quotidianità di vite qualsiasi, attraverso le quali, però, il regista trasferisce nel privato l’epicità tedesca, alitando su ciascuno la consapevolezza che ogni momento sia nello stesso tempo insignificante e importantissimo.
Colore e bianco e nero si alternano in tutta la trilogia. Prima una dominanza di b/n in cui irrompe il colore di alcune scene; poi sprazzi cromatici come interpunzione  tra episodi o per semplice gusto estetico; infine il colore è sempre più presente per lasciare in b/n il ricordo o l’interpretazione di particolari situazioni. Per Reitz «questo svolge una funzione di collegamento con la storia in generale e con la storia del cinema in particolare, ed ha a che fare con il ricordo, con il modo che abbiamo di riportare alla memoria il nostro passato».
Considerata la consistenza dei 18 DVD in cui si è riversata l’epopea di Reitz per una degustazione più casalinga, ho proposto agli amici un assaggio, scegliendo episodi immersi in eventi estraibili dalla condivisa memoria più recente.
Heimat 3 – Parte I. Il popolo più felice della terra (1989)
Germania 2004, uscita 4 marzo 2005, colore e b/n, 102 min. circa
Il primo film di Heimat3, che racconta dell'ultimo decennio del ventesimo secolo, comincia dal 9 novembre 1989. La sera in cui la caduta del muro inaugura una nuova epoca della storia europea, due musicisti, il direttore Hermann Simon e la cantante Clarissa Lichtblau, ex amanti provenienti dai capitoli precedenti della saga, si incontrano casualmente in un albergo di Berlino Ovest, riscoprono una intensa reciproca attrazione e, nell’euforia collettiva, partono per l’Hunsrück. Attratti da una romantica, ma fatiscente, casa graticciata che dà sulla valle del Reno, decidono di farne il centro delle loro vite inquiete. Dice Reitz:
Si tratta di temi elementari, come costruire una casa, trovare un luogo dove vivere. Persone come Hermann e Clarissa hanno passato tanto tempo a muoversi da un posto all'altro, a non avere un posto di riferimento fisso, una patria, e ora si trovano con questo bisogno di un luogo dove tornare, dove ci si trovi e dove gli altri abbiano la possibilità di trovarti.
Intorno a loro vecchi e nuovi personaggi che diventano dei nostri in poche battute. La famiglia di Hermann, giovani operai dell’ex Germania dell’Est ingaggiati per il restauro, le loro famiglie, gli amici e gli abitanti di Schabbach. Tutti, nei mesi successivi alla caduta del comunismo, scoprono un mondo di nuove opportunità e cercano di realizzare i loro piani.Clarissa canta in macchina l'inno della DDR e i due tedeschi orientali che sono con lei intonano di rimando l'inno della Germania Ovest, che ora è anche la loro Germania. Tedeschi dell'est e dell'ovest si riconoscono come se fossero sempre stati insieme e proiettano nel particolare quel ricongiungimento epocale rinviato da immagini storiche in b/n. Anche il paesaggio partecipa e dà forza di oggettività alla narrazione: quello ricorrente del Reno che continua a scorrere oltre la casa del ritorno e quello ampio, dall’alto delle Alpi Bavaresi, verso la fine, sguardo di sintesi sulla Germania riunificata e sulle sue speranze.
I personaggi ci sembrano interessanti e costruttivi, la vita normale scorre senza forzature incrociando efficacemente micro e macrostoria. Significative ci sembrano le sovrapposizioni delle fasi di ricostruzione della casa e dei concerti di Hermann e Clarissa, come  rappresentazione della distanza fisica e, nello stesso tempo, della prossimità spirituale. Grande peso è dato alla musica, qui come del resto, rileviamo, nella cultura tedesca. Certo non da noi.
Heimat 3 – Parte II. Campioni del mondo (1990)
Germania 2004, uscita 18 marzo 2005, colore e b/n, 102 min. circa
Ritroviamo, con il piacere riservato alle vecchie conoscenze, i personaggi e le vicende lasciate in sospeso nel film precedente. La casa di Hermann e Clarissa è stata ristrutturata in soli sette mesi e l’evento è festeggiato alla grande, mentre la televisione trasmette da Roma la finale Argentina-Germania dei mondiali di calcio 1990. Il trionfo tedesco aggiunge festa alla festa e acquista valore di simbolo, di celebrazione per la rinascita di una nazione finalmente riunificata. I manovali dell'Est ricevono la loro gratifica, lasciano l'Hunsrück e Reitz, confinando Hermann e Clarissa in alcune scene di contorno, ne segue il cammino, come se i campioni fossero proprio loro, quelli dell' Est, quelli che nel 90 si ritrovano nella nuova nazione tedesca. Tobi, quasi hippie, che Ernst, fratello di Hermann, cerca di convincere invano ad accompagnarlo nella disgregata Unione Sovietica per cercare opere d’arte in svendita, a Lipsia ha un personale e spassosissimo incubo con la statua di Lenin, mentre si assiste al sistematico smontaggio della vecchia DDR. Gunnar, il carpentiere, lasciato dalla moglie per il segretario di Hermann, tenta di rifarsi una vita e, trafficando con Hollywood pezzi del Muro di Berlino, specula sul sogno comunista crollato.
I temi e i personaggi accompagnati nelle nuove quotidianità con il linguaggio a cui Reitz ci ha abituati, con la consueta alternanza di b/n e colore, motivano lo spettatore a proseguire la visione e a cogliere la trasformazione di un mondo cui toccheranno sfide ancora non prevedibili, ma questa seconda parte sembra a tutti noi meno riuscita, meno ricca e meno coesa.
 
riuniti nel suo nome                                              f.c.   
GLI ATTI DEGLI APOSTOLI
 capitoli 15, 36 - 19, 20 u Paolo e le donne
Non sono poche le donne che Paolo incontra nel suo secondo viaggio.
A Filippi c’è «un gruppo di donne già radunate in preghiera». A Tessalonica «molte donne dell’alta società» si uniscono a Paolo e Sila. A Berea «parecchie nobildonne» diventano credenti. A Corinto incontra Priscilla, moglie di un imprenditore, che lo segue anche nei suoi viaggi. Ad Atene converte Damaris, una donna che fa parte del Consiglio dell’Areopago.
Sembra che Paolo frequenti donne mediamente acculturate, al contrario di Gesù che si intratteneva con prostitute, adultere, malmaritate come la Samaritana, o straniere come la cananea. L’unica donna di condizione inferiore che Paolo incontra è una schiava che lo infastidisce a tal punto che «non poteva più sopportarla». E qui affiora la personalità spigolosa e intollerante di Paolo. In una situazione analoga, Gesù, con la cananea che lo importunava e che gli apostoli suggerivano di liquidare con male parole, trattiene la sua ira, avvia un dialogo con lei e si lascia convincere dalle sue osservazioni. La donna ha ragione: «anche i cagnolini hanno diritto alle briciole», anche i pagani hanno diritto alla salvezza.
Questo marca la differenza tra Gesù e Paolo nell’approccio con il mondo femminile: Gesù ha fiducia nelle donne, le ascolta e affida loro compiti di evangelizzazione pari agli uomini. Egli riconosce alle donne ruoli di iniziativa e di stimolo: a Cana accoglie il suggerimento della madre di rivelare la sua identità e al Pozzo di Sicham affida alla samaritana un messaggio teologico rivoluzionario a proposito del tempio. Alla prostituta che frequenta la casa di Simone anticipa la sua fine vicina e l’annuncio della sua resurrezione lo affida alle due Marie.
Paolo, invece, non sembra fidarsi molto delle donne. Esse lo seguono, gli mettono a disposizione la casa, lo accudiscono e gli curano le ferite inflittegli dagli uomini, ma non svolgono compiti di fiducia. Quando Lidia, che è una commerciante intraprendente, insiste per invitarlo a casa sua, Paolo si mostra contrariato, «si sente costretto» ad accettare, come se gli fosse difficile seguire l’iniziativa di una donna. Tuttavia, se pensiamo alla posizione che aveva la donna nella cultura giudaica, che non le riconosceva nemmeno il diritto di accostarsi ai testi sacri, possiamo capire la difficoltà dell’ebreo Paolo a sottrarsi alla tradizione, anche se in un altro momento dichiara che «non c’è più né giudeo né greco, né uomo né donna». Utilizza invece la loro ospitalità nelle case. Luca registra numerose frequentazioni delle case dei fedeli, come luoghi di preghiera e di predicazione. È questo un importante segnale di innovazione rispetto alla tradizione rabbinica che considerava la sinagoga il luogo di elezione per il culto e la lettura dei testi sacri.
Ricordiamo però con nostalgia i numerosi episodi di convivialità vissuti da Gesù nelle case. In particolare quella cena, l’ultima, che Gesù ha volutamente scelto di celebrare in una casa, quasi che solo il contesto domestico e la tavola apparecchiata potessero favorire quella confidenza e quella intimità che gli hanno permesso calde espressioni di amicizia e di amore, che sono poi rimaste come il suo testamento. «Figliolini miei… amatevi gli uni gli altri».
Forse è arrivato il momento anche per noi di riscoprire il particolare valore dellachiesa-domestica, già raccomandata dal concilio Vaticano II. Forse è arrivato il momento anche per la chiesa istituzionale di abbandonare gli altari barocchi e sedersi attorno alle tavole apparecchiate nelle case per stabilire, alla pari e non in posizione di superiorità, rapporti di amicizia autentica con gli uomini e le donne delle nostre famiglie. E forse è arrivato il tempo di utilizzare le case come luoghi formativi anche per i seminaristi. Perché non pensare anche per loro, come fanno molti studenti della loro età, degli stages presso famiglie, anche in paesi diversi, per fare un tirocinio di umanità? Tutto questo potrebbe facilitare quel processo di formazione e selezione del clero di cui si parla tanto in questi giorni.
segni di speranza                                                                     s.f.  
SE MI AMATE, OSSERVATE I MIEI COMANDAMENTI
Giovanni 14, 15-20
L’immagine di tante fiammelle disposte sopra gli apostoli per indicare la distribuzione dello Spirito Santo. (At 2,1-4), che ricordiamo da sempre, appare molto bella, oltre che efficace. Siamo a uno dei passaggi più alti della liturgia del periodo di Pasqua: tutti furono riempiti di Spirito Santo. Una grande energia invade tutti i presenti, non un fluido etereo e immateriale, ma una energia vigorosa ed efficace. Interpretando, potremmo dire: tutti capirono quello che gli apostoli dicevano, anche se questi parlavano nella loro lingua, diversa da quella degli ascoltatori. Forse, in sintesi: avete ricevuto il mio messaggio; ora è il momento di assimilarlo e viverlo concretamente («osservate i miei comandamenti»). Poi, se dimostrerete di amarmi, pregherò il Padre e Lui vi darà uno Spirito di verità, che vi aiuterà a comprendere. Di questo in realtà abbiamo proprio un grande bisogno: un aiuto per comprendere e avere parole, pensieri, preghiere vere, di cui essere interamente consapevoli, non ripetute per abitudine o obbedienza. La Verità è forse il valore di cui abbiamo più necessità e questo ora ci viene promesso. 
Il dono ha una condizione: dimostrare di amare chi ce lo porge obbedendo ai suoi comandamenti. Ma secondo i racconti evangelici obbedire ai Suoi comandamenti (cioè amare gli altri come lui ha amato) equivale a fare anche il nostro bene: fare il nostro bene è la condizione perchè noi si possa avere tutto l’aiuto che il Padre è disposto a darci.
Quindi, abbiamo il riferimento, possiamo disporre della energia per realizzare quanto desideriamo: che cosa ci manca? La determinazione. Lo Spirito Santo non opera automaticamente; tutto dipende dalla nostra disponibilità alla partecipazione. Questa è la nostra responsabilità, verso noi stessi e verso gli altri. La forza creatrice che ci viene offerta, come il racconto della Pentecoste ricorda, rende l’uomo soggetto partecipe della evoluzione dell’Universo; ma la evoluzione dipende anche dal modo in cui ci renderemo disponibili: l’evoluzione potrebbe anche non avvenire o essere ritardata dalla nostra indifferenza (Molari). Dio infatti non opera direttamente, ma fa che le cose si facciano attraverso di noi e ci invita a operare in modo conforme alla sua volontà (Teilhard De Chardin). Il nostro ruolo non è marginale, né facoltativo. La crescita, la maturazione di noi stessi e del mondo dipende anche da noi.
Oggi ci viene ricordato che, potenzialmente, siamo dotati della capacità di percepire, accogliere, realizzare cose più grandi di noi. Forse questo è il processo che ci avvicina all’infinito di Dio.
Pentecoste
schede per leggere                                             m.c.   
Salvatore Niffoi, autore sardo per nascita e per scrittura, ha pubblicato con successo alcuni romanzi, fra cui La leggenda di Redenta Tiria, La vedova scalza, Ritorno a Baraule, narra storie della Barbagia, parte interna dell’isola per lo più sconosciuta al turismo, in una lingua dialettale a volte non di immediata comprensione, ma capace di esprimere con forza la realtà di un mondo aspro e duro come la terra rocciosa che lo circonda. Il suo ultimo libro, dotato di un piccolo glossario, è intitolato Il Bastone dei Miracoli (Adelphi, 2010, pagg. 154, 18 €), il bastone che rappresentava per gli abitanti di Irìchines, il simbolo dell’autorità in cielo e in terra.
Il racconto nasce da una originale invenzione letteraria, gli scritti trovati nelle buste che, in punto di morte, un vecchio anarchico, amante della storia e della letteratura, lascia ai figli come preziosa eredità: letti uno dopo l’altro, fanno la storia di un piccolo comune, dove fra i troppi poveri, di beni e di dignità, dominano i pochissimi che hanno conquistato onore e ricchezza con l’inganno e la prevaricazione. Un luogo di miseria e di violenza, dove il bastone dei miracoli lo ha Paulu Anzones, detto Muscadellu, spietato nella ricerca del denaro e del potere, capace di annientare senza scrupoli ogni ostacolo che trova sul suo cammino.
Si rimane senza fiato davanti alla ferocia e alla paura che dominano questo mondo, che si vorrebbe giudicare primitivo e lontano. Ma poi vien fatto di pensare che, oggi, la sete di dominio, la compravendita degli uomini, l’indifferenza ai mezzi usati per affermarsi, l’annientamento degli avversari, se pur con strumenti di offesa diversi dai coltelli e dalle scuri, non sono davvero fenomeni estranei al nostro ambiente detto civilizzato. Così quel paesino della Barbagia a me è sembrato il luogo emblematico in cui si possono vedere rispecchiati gli aspetti più negativi dell’uomo e della società.
la cartella dei pretesti 
Se la legge sulle intercetta­zioni verrà approvata nel te­sto in discussione al Senato, sarà fatto un passo pericoloso ver­so un mutamento di regime. I regi­mi non cambiano solo quando si è di fronte ad un colpo di Stato o ad una rottura frontale. Mutano pure per effetto di una erosione lenta, che cancella principi fondativi di un sistema. Se quel testo diverrà legge della Repubblica, in un col­po solo verranno pregiudicati la li­bertà di manifestazione del pen­siero, il diritto di sapere dei cittadi­ni, il controllo diffuso sull’eserci­zio dei poteri, le possibilità d’inda­gine della magistratura. Ci stiamo privando di essenziali anticorpi democratici. Se così  sarà, dovremo chiederci se viviamo ancora in uno Stato costituzionale di diritto.
STEFANO RODOTÀ, la Repubblica, 8 maggio 2010.
I musulmani hanno storicamente avuto atteggiamenti differenti verso le altre religioni, specialmente quella ebraica e quella cristiana. L’unitarietà e la diversità dell’u-manità sono temi che coesistono nel Corano e possono essere interpretati a supporto di rivendicazioni tanto inclusi viste, quanto esclusiviste. […] Da musulmana, che ha vissuto gran parte della vita in Occidente, ho imparato che la fede parla alle fede in un processo di apprendimento e accettazione, di interrogazione e apprendimento, di dubbio e umiltà. La cosa più importante è stata il comprendere che parlare di umanità comune richiede una grande generosità nel fronteggiare la differenza pratica.
MONA SIDDIQUI, Il mio islam aperto a ebrei e cristiani, Il sole 24 ore domenica, 18 aprile 2010.
Non è la prova del Parlamento che il premier Silvio Berlusconi teme, è la «prova del bar» che lo preoccupa, il florilegio di commenti dell’uomo della strada davanti a una tazzina di caffè, l’ansia di essere accomunato a quel «teatrino» romano a mezzadria tra malcostume e malaffare, di venire messo al rogo dall’opinione pubblica […] Vuole dare un segnale e trovare un rimedio. Siccome la casa brucia, intende evitare che la sua immagine finisca in fumo, al bar, davanti a una tazzina di caffè.
FRANCESCO VERDERAMI, Malaffare e sondaggi, i timori del premier, Corriere ella sera, 15 maggio 2010.
Hanno siglato le rubriche: Mariella Canaletti, Franca Colombo, Sandro Fazi
Notam,lettera agli Amici del Gruppo del Gallo di Milano - www.ildialogo.org/notam
quelli di Notam
Giorgio Chiaffarino, Ugo Basso; Aldo Badini, Enrica Brunetti, Mariella Canaletti, Franca Colombo, Sandro Fazi, Fioretta Mandelli, Chiara Picciotti, Margherita Zanol
Corrispondenza:info@notam.it
Giorgio Chiaffarino, Via Alciati, 11 - 20146 Milano ® Ugo Basso, Via Muratori, 30 - 20135 Milano
Pro manuscripto
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L’invio del prossimo numero 353 è previsto per LUNEDÌ 7 giugno 2010


E’ disponibile sul sito la lettera del
24 maggio 2010 - Maria Ausiliatrice - Anno XVIII - n. 352


 

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Martedì 25 Maggio,2010 Ore: 22:16
 
 
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NOTAM - Lettera agli amici del gruppo del Gallo di Milano

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