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Notam

26 aprile 2010 - S. Marcellino - Anno XVIII - n. 350


Notam

«Ecco cosa dovrete fare: dirvi reciprocamente la verità» (Zaccaria 8,16)
 
 
Milano, 26 aprile 2010 - S. Marcellino - Anno XVIII - n. 350
 
TRENTA RIGHE DI ATTUALITÀ
Enrica Brunetti
La natura di cui ci si occupa è solitamente perdente. Perdente per l’insignificanza degli stanziamenti messi in campo a favore, perdente perché c’è sempre un’acqua o una discarica dove infognare le schifezze umane, perdente perché periodicamente illusi di avere conquistato sorti separate. Poi, chissà come, le catastrofi. E un qualsiasi vulcano Eyjafjallajokull (=Il ghiaccio dei monti sulle isole), sperso sulla carta geografica di una saga nordica, fa collassare il sistema dei trasporti insieme a quello delle sicurezze. Del resto, gli umani hanno avuto modo di verificare la propria incapacità di controllo, non solo in balia di una imprevedibile natura matrigna, ma anche nella gestione dei loro mercati finanziari, mentre la fragilità del sistema può essere esemplificata con facilità dallo sciopero ventilato -ma poi rientrato all’ultimo minuto- dei circa 30 mila doormen, factotum portieri dei palazzi di New York: clima da sciagura imminente, sindaco, Michael Bloomberg, in fibrillazione, allerta della polizia, vandali in riarmo, inquilini organizzati in ronde, blocco delle consegne a domicilio e dei traslochi, allarme spazzatura… Certo è difficile prevedere gli eventi naturali e quelli di una società evoluta e globalizzata, ma, per non finire estinti come i dinosauri, occorrerà dare qualità alle risposte del day after.
Dirottando lo sguardo sulle contrade di casa, ci si potrebbe ritrovare depressi con aspirazione a eremi senza stampa, computer e tv. La nube vulcanica giunge improvvida sulle perdite di Alitalia che rischia, in tempi fatti più grami, di tornare da Air France con il cappello in mano, non sapendo quanto possa reggere «la compagine azionaria dei capitani coraggiosi che hanno salvaguardato l’italianità dell’azienda». Improvvidi cadono i veleni su Emergency, vicenda a lieto fine -tutti liberi e tutti scagionati- segno, come sottolinea il pur critico Furio Colombo, che la strategia è stata buona, le mosse giuste e l’impe-gno fermo. Ma i contorni sono irreparabilmente corrosi: l’ospedale di Lashkar è chiuso, i feriti, boh, s’arrangeranno, delle battaglie è meglio non sapere, i buoni e i cattivi sono definiti a priori e i testimoni sono scomodi, degli operatori umanitari conta il colore politico più dell’impegno sul campo. Buoni noi che ce li riportiamo a casa quantunque dell’opposizione.
Improvvido esterna MrB che giudica lesiva dell’immagine italiana la denuncia di mafia più della mafia stessa. Colpevole, allora, Saviano che raccoglie i fatti e li tesse in narrazione, che crede nel potere della parola, quella che denuncia e quella che discredita; Saviano che risponde: «In un paese dove il diritto non conta, dove lo si può ottenere attraverso le conoscenze, favori, equilibri, un politico come Berlusconi riempie tutti i vuoti, Dove chi scrive di mafia la promuove, la giustifica e danneggia la propria terra. Ebbene non ci si può stupire se molti italiani la pensano come lui». Righe esaurite e ingorgo in coda: svolta cattolica della Lega e manovre vaticane per non perdere di vista cucina e lenticchie; periferiche concessioni alla Lega e allentamento dei legami europei; traslazione di San Pio e esposizione della Sindone, che Dio perdoni; discriminazioni in cronaca tra vittime nostrane/vittime straniere e scandalo per una bimba sepolta more islamico; il cielo protegga Fini ché se si aspetta il Pd…  Intanto il 25 aprile ricade sugli italiani, ma è difficile capire se abbia la forza di unirli o radicalizzi le separazioni.
in questo numero                             
G. Chiaffarino PER L’IRLANDA E PER L’ITALIA u parole 2010 F. Mandelli DISGUSTO u S. Fazi RIGASSIFICATORI SICURI PER UNA MIGLIORE QUALITÀ DI VITA u F. Mandelli UNA FESTA PER CARMEN MIRIKO SHAKIRA E LE ALTRE uU. Basso CHI HA ORECCHIE INTENDA! ufilm in giro M. Poggiato - La prima cosa bella u u.b. Il GALLO DA LEGGERE u sottovento g.c. IL DIAVOLO AL CORRIERE - UN SEGNALE DI DEGRADO u segni di speranza s.f. AMATEVI GLI UNI GLI ALTRI COME IO HO AMATO VOI u schede per leggere m.c. u la cartella dei pretesti


PER L’IRLANDA E PER L’ITALIA
Giorgio Chiaffarino
La chiesa cattolica è stata investita da una tempesta di proporzioni inimmaginabili e che non ripercorreremo qui visto il parlare che se ne è fatto, più o meno a proposito, in genere, nei media in tutto il mondo. Qualche nota a margine appare però inevitabile perché ai cattolici vien da riflettere sulle possibili cause che l'hanno determinata e in particolare sui cambiamenti che sarebbero necessari per rispondere ai segni dei tempi. La chiesa, popolo di Dio secondo il Concilio, deve poterne liberamente parlare perché questa bufera coinvolge tutti e tutti ci riguarda.
Il cardinale Ersilio Tonini ha fatto una considerazione che appare condivisibile. Ha detto: «Questo è un momento straordinario nella storia della chiesa». Straordinario certamente sì, a patto che sia, e non solo nei paesi interessati, ma veramente in tutta la chiesa, l'occasione per una riflessione profonda sulle distorsioni che, stratificandosi, hanno prodotto quella che si è rivelata come una profonda deviazione dallo spirito del Vangelo. La conseguente necessaria conversione e, se smettiamo di aver paura delle parole, anche una riforma strutturale dell'attuale sistema chiesa, appaiono fasi non ulteriormente rinviabili pena la irrilevanza del messaggio che lei deve proporre agli uomini e alle donne del nostro tempo.
Lo Spirito soffia certamente nella chiesa e il problema è ascoltarlo ed essere conseguenti senza idolatrare l'istituzione perché è ancora la Scrittura che ci dice che «il sabato è per l'uomo e non l'uomo per il sabato» (Mc 2,27).
Il cattolico comune chiede alla sua chiesa la verità come ce la chiede la Scrittura: «Si, se è si, no, se è no» (Mt 5,37) perché il resto non è da Dio, ma dal diavolo. E poi la fine del silenzio, del segreto e di una omertà che nascerebbe con la buona intenzione di difendere la chiesa e invece la distrugge. Un antico principio, veramente da riabilitare, ci ricorda che quello che riguarda tutti da tutti dovrebbe/deve essere discusso. È l'annoso problema della opinione pubblica nella chiesa e della sua circolazione che raccoglie ben scarsi consensi in confronto con il consenso acritico così ben considerato e accolto in tutte le sedi.
Una penosa impressione, nel drammatico momento che è sotto gli occhi, l'hanno fatta i tentativi di difesa, negando o sottovalutando i fatti, relativizzando le responsabilità, compitando una contabilità che sarebbe ridicola se non fosse drammatica, e questo anche da parte di autorità, spesso molto vicine al papa, che dovrebbero sostenerlo nelle dure iniziative che ha assunto e invece ne mettono in evidenza l'isolamento. A questo proposito viene alla mente Gv 21,18, perché una sua attualizzazione appare molto pertinente: «In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi».
La gravità del momento ha indotto il papa a scrivere una lettera che è indirizzata ai cattolici d'Irlanda, ma che riguarda anche tutti noi. Qualche spunto, semplicemente a titolo indicativo: «La risposta inadeguata da parte delle autorità ecclesiastiche» vale sì per quel paese, ma a ben vedere anche per il nostro. «Un cammino di guarigione, di rinnovamento» sarebbe ben necessario anche qui come «…l'insufficiente riferimento al Vangelo» che troppo sovente è sotto i nostri occhi.
Tra le cause che il papa indica ci sono: «procedure inadeguate per determinare l’idoneità dei candidati al sacerdozio e alla vita religiosa; insufficiente formazione umana, morale, intellettuale e spirituale nei seminari e nei noviziati; una tendenza nella società a favorire il clero e altre figure in autorità e una preoccupazione fuori luogo per il buon nome della Chiesa e per evitare gli scandali…». Valutazioni certo valide per l'Irlanda ma che non sembrano estranee anche all'Italia, soprattutto nel caso di candidati che provengono dai movimenti e che, prima della grande chiesa cattolica di tutti, hanno ben in mente la loro piccola privata conventicola.
Il papa, a nome della chiesa, esprime «apertamente vergogna e rimorso», ma chiede «di non perdere la speranza».
Al di là delle polemiche, in un momento come questo qualsiasi spunto è utilizzabile: si deve riconoscere che si tratta di una bella lettera, anche coraggiosa. Se una osservazione è consentita, più che per quello che c'è, fa riflettere quello che, a giudizio di molti, nella lettera manca. Chissà se l'occasione non possa essere colta, magari in altro successivo momento. Sono molti i problemi che covano sotto traccia nella chiesa e che nell'occasione sono stati richiamati. La complessità che emerge supera largamente le possibilità di una breve nota e merita sicuramente necessarie ulteriori riflessioni.
Dei tanti ne ricorderei unicamente due.
Il presbiterato. È manifesto che il numero di preti è largamente inadeguato alle esigenze spirituali e organizzative delle attuali strutture ecclesiastiche: vista l'esperienza di tutte le altre chiese cristiane, ora più che mai è venuto il momento anche nella cattolica di ragionare sull'ordinazione di uomini (domani anche donne!) sposati. Non è vero che non ce ne siano di disponibili a spendere la loro vita per il Signore e il suo Vangelo. Chi si occupa di ecumenismo ne ha la prova quotidianamente sotto gli occhi. Non c'è nessuna relazione con i problemi del momento, ma certo con l'impegno di Cristo:«Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo a ogni creatura» (Mc 16,15). Non significa negare il valore del celibato che avrà sempre i suoi spazi, ma invece sopperire all'isolamento e superare quella sorta di "casta sacerdotale" che si è venuta creando e che anzi da qualche parte si vorrebbe addirittura fosse rafforzata come antidoto alla documentata penuria.
La sinodalità. I problemi della chiesa oggi sono, in parte almeno, determinati dalla mancata ricezione del Concilio e dal blocco dello sviluppo delle sue proposte. Non certo troppo Concilio, ma tentativi, spesso riusciti, di allontanamento dal suo spirito e di ritorno al passato. È sempre più manifestamente in crisi la struttura piramidale della chiesa e il centralismo romano che ne è una conseguenza. Il Concilio ha fortemente rilanciato la sinodalità dei vescovi, ma è proprio questo modo -faticoso e però garantista- che meriterebbe una valorizzazione anche ad altri livelli di chiesa, invece di essere messo sostanzialmente nel dimenticatoio o utilizzato unicamente per coagulare solo i consensi. È abbastanza ragionevole immaginare che molte piste sbagliate, che devono essere poi rettificate davanti alle reazioni del popolo di Dio, potrebbero essere corrette in anticipo in un confronto a più voci. Con una gestione più sinodale, la chiesa eviterebbe quella definizione antipatica, ma forse azzeccata, di chiesa del no che dice almeno come oggi viene prevalentemente percepita dall'opinione pubblica, lei che invece dovrebbe essere la portatrice agli uomini della buona notizia di salvezza e di speranza di un Dio misericordioso,vicino agli uomini, specialmente quelli più in difficoltà.
 
parole 2010
DISGUSTO
Fioretta Mandelli
Nella letteratura dell’antica India si dice che c’è un solo sentimento veramente incompatibile con l’amore: il disgusto. Mi spiace, ma è questa la parola che oggi mi sento di dedicare a questo 2010.
Disgusto non tanto per la disonestà imperante, quanto per lo stile volgare e per la gestione stupida con cui viene condotta. Disgusto per la totale violazione di qualsiasi rispetto o almeno considerazione dell’intimità delle persone, fisica e psicologica, che attraverso la TV entra nelle case, nelle teste di tutti, e coinvolge persino i bambini: anche fuori dall’intrattenimento, show o, peggio, reality show.
Disgusto per la quasi totale diffusa incapacità di riconoscere i propri torti da parte di tutti, e specialmente di chi abbia una qualsiasi rilevanza pubblica, disgusto verso l’in-capacità di rinunziare a minimizzare e discutere violazioni dell’innocenza su cui si dovrebbe avere la capacità di limitarsi a piangere.
E disgusto anche per il livello di ricerca di consumismo e di bisogni fasulli che convive con disperati bisogni veri, li ignora e li schiaccia.
Disgusto per chi ogni giorno, magari con piccole azioni inconsulte, interessate o malvagie costruisce per gli altri e per sé prospettive di guerra.
Una brutta parola per un anno difficile. Per ora al disgusto si oppone solo la pazienza. Speriamo che resista anche qualche altro sentimento più compatibile con l’amore.
 
RIGASSIFICATORI SICURI PER UNA MIGLIORE QUALITÀ DI VITA
Sandro Fazi
Tra scambi di idee ed esperienze, diamo spazio per capire argomenti, forse estranei all’in-teresse dei più, che possono però essere determinanti per l’ambiente e, quindi, per le condizioni della nostra quotidianità.
La Saipem, società del gruppo ENI che opera nel settore della ricerca ed estrazione dei prodotti petroliferi, si è guadagnata una certa attenzione internazionale per aver progettato e realizzato un impianto di rigassificazione del gas metano di nuovo tipo. La soluzione ha degli aspetti innovativi importanti e segna un livello avanzato di questo tipo di impianti. Considerato che non sono frequentissime notizie di impianti tecnici innovativi di matrice italiana, forse può valere la pena anche per noi di spendere due parole su questo caso.
Cominciamo a chiarire perché i rigassificatori ci possono riguardare da vicino.
L’Italia è un paese forte consumatore, per le sue centrali termoelettriche, di gas metano che importa da Russia, Libia, Algeria, Olanda, tramite gasdotti. Per diversificare le fonti di approvvigionamento deve riceverlo anche via mare mediante navi apposite. Quando il trasporto avviene via mare, il gas naturale subisce nel porto di partenza un processo di liquefazione per ridurne il volume e permettere il trasporto in condizioni di sicurezza (non essendo il metano infiammabile allo stato liquido): il passaggio di stato si ottiene abbassando la temperatura a circa –163°C e già questo dato dice che parliamo di impianti di notevole complessità. Il gas liquefatto viene quindi imbarcato su navi metaniere dotate di cisterne attrezzate per mantenere la temperatura fino a destinazione, dove il gas liquido viene riportato allo stato naturale aeriforme e immesso quindi nelle condotte della rete di distribuzione. I rigassificatori sono quindi elementi necessari per il processo di approvvigionamento di metano, da fonti lontane, non collegabili con gasdotti. Il Governo italiano si è impegnato nel 2006 alla realizzazione di almeno quattro rigassificatori che coprano il fabbisogno italiano in modo da ottenere una certa indipendenza energetica particolarmente dall’Algeria e dalla Russia, che attualmente possono imporre a noi prezzi molto alti.
I rigassificatori trattano gas altamente infiammabili in determinate condizioni e destano quindi molte preoccupazioni nelle comunità locali che li dovrebbero ospitare; sono quindi regolati dalla stessa legge che governa le raffinerie di petrolio. Le tecnologie oggi impiegate consentono una certa tranquillità sulla affidabilità dei terminali di rigassificazione e in effetti non si è verificato nessun importante incidente in questi impianti. Va comunque tenuto presente che in caso di combustione del metano liquido contenuto in una metaniera o in un rigassificatore l’energia sarebbe dell’ordine di grandezza di una bomba atomica e i fronti di fiamma potrebbero estendersi per chilometri. 
La soluzione ideata da Saipem ha alcuni elementi innovativi perché è finora quella che elimina nel modo più radicale i principali problemi di impatto ambientale e di sicurezza. Il sistema (denominato FRSU) sarà il primo rigassificatore galleggiante destinato a operare offshore in mare aperto. Il sistema prevede un impianto di stoccaggio e di rigassificazione installato su di una nave permanentemente ormeggiata in mare aperto. La nave è collegata mediante gasdotto alla rete di distribuzione del gas a terra.
La dislocazione dell’impianto ora in via di completamento (entrerà in servizio entro il 2010) è a Livorno a 12 miglia dalla costa su un fondale di 120 metri. Il sistema ha dovuto ovviamente risolvere numerosi problemi che impianti terrestri, o sistemati in porto, non hanno. Solo per menzionarne alcuni ricordiamo: il sistema di ormeggio su alti fondali adeguato per il libero orientamento della nave in base agli agenti esterni; il sistema di ormeggio delle metaniere che portano il prodotto da trattare per affiancamento alla nave madre; bracci di carico per connettere due unità mobili soggette a movimenti indipendenti di beccheggio e rollio. La sfida del progetto è di garantire il funzionamento dell’impianto in condizioni di massima sicurezza anche in presenza di condizioni ambientali estreme e non comuni.
Una impresa industriale quindi molto impegnativa che qualifica la società che la ha concepita e realizzata, ma che è forse anche il frutto di una crescente sensibilità dell’opinione pubblica verso problemi di affidabilità e sicurezza, cioè verso criteri di un migliore vivere civile.


UNA FESTA
PER CARMEN MARIKO SHAKIRA E LE ALTRE
Fioretta Mandelli
Da sei anni lavoro come volontaria per insegnare l’italiano nell’ambito del progetto «Mamme a scuola», di cui ho più volte anche scritto su Notam.
Con questo sesto anno, siamo arrivate a quello che mi pare un traguardo: un gruppo di allieve ha affrontato l’esame di lingua italiana CILS di grado B2: si tratta di un esame organizzato in tutta l’Unione Europea su contenuti equivalenti nelle varie lingue, che in Italia è gestito all’Università di Siena per Stranieri, e che ha una sede d’esame anche a Milano.
In quasi tutti i paesi europei questo diploma, secondo vari livelli, è richiesto per legge a chiunque voglia trovare un lavoro. Il livello B2 è considerato il più alto, al di sotto dei livelli C1 e C2 riservati a chi vuole accedere a compiti anche di insegnamento della lingua seconda.
Nel 2009 mi sono state affidate le nostre allieve che sembravano arrivate all’altezza di misurarsi con questa prova, abbastanza difficile e impegnativa. Per me è stata una esperienza molto coinvolgente, non sempre facile, ma anche gratificante. Non c’è spazio per raccontare come meriterebbe questa esperienza. Mi piace perciò cercare di darvene una idea cominciando dalla fine.
Un giorno, alla fine di marzo, sette mamme immigrate festeggiano a casa mia, con me e con la mia collega -che coordina tutto il progetto, oltre che insegnare-, i risultati dell’esame.
L’esame è composto di cinque sezioni: scrittura, grammatica, lettura, parlato e ascolto; quattro allieve sono state promosse in tutto. Le altre tre dovranno rifare a giugno la prova di ascolto (la più difficile). Sanno però di essere in grado di superarla senz’altro con un aiuto da parte nostra per la preparazione. Il più è davvero fatto.
Si festeggia con un pranzo a mezzogiorno di un giorno feriale: bambini a scuola, mariti al lavoro. Questa è proprio una cosa tra donne. Cinque nazionalità straniere sono rappresentate: Marocco, Egitto, Giappone, Perù, Ecuador. Queste donne hanno fatto con noi una strada durata sei anni. Erano arrivate da noi cercando un modo per uscire da un isolamento non solo linguistico.
Ne presento velocemente tre, perché sarebbe troppo lungo raccontare di ognuna.
Ecco Carmen: un marito italiano (a cui però non importa che lei impari l’italiano), tre bambini, un lavoro pesante e saltuario, un carattere vivace, aperto, generoso, un po’ confusionario, anche aggressivo, una educazione scolastica alle spalle assolutamente inconsistente, come è quasi sempre per chi viene dall’America latina.
Dal Giappone viene Mariko, che ha raggiunto qui il marito che per lavoro è costretto a fare la spola tra Milano e Tokio. Si è trovata a Milano con i bambini piccoli, sola per lunghi periodi, mentre anche il lavoro del marito è in crisi. Con Mariko ho scoperto che cosa deliziosa sia insegnare a una giapponese: punto di partenza una auto svalutazione quasi totale, unita a una desiderio disperato di trovare qualcuno che insegni a uscirne. Una capacità di imparare tutto, purché si sappia farle fare un piccolo passo per volta. Quello che viene imparato non è mai dimenticato, viene fatto proprio, è fonte di crescente sicurezza e di gioiosa capacità di aprirsi, inimmaginabile all’inizio.
Da un altro mondo linguistico e culturale viene Shakira. È arrivata in Italia dal Marocco alla ricerca della sopravvivenza economica, carica di bambini, insieme a un marito per cui si è resa conto qui, a poco a poco, di contare non molto di più di un necessario pezzo della casa. In Marocco aveva studiato, ma niente che le potesse servire qui in Italia. Come tante donne arabe e musulmane ha scoperto solo con l’esperienza della scuola, faticosamente, di essere capace di avere sentimenti suoi e di esserne consapevole, e di poterli esprimere. Shakira l’ultimo giorno di scuola prima dell’esame mi ha detto: «Io qui con voi ho capito che la mia vita non è finita (ha 32 anni ), che posso fare un lavoro che mi piaccia e che sia utile, che non è solo la felicità dei miei bambini che conta».
Solo in italiano ha trovato le parole per pensare e per dire queste cose.
Ho parlato di loro tre, anche perché rappresentano mondi lontani tra loro che abbiamo aiutato a incontrarsi, e soprattutto che abbiamo incontrato. Cinque anni fa, tra l’egiziana e la marocchina, pur parlando tutte e due arabo, c’erano solo tangibile diffidenza e silenzio, che ora ricordano molto bene, e ne parlano quasi con stupore. Carmen, la prima esuberante rappresentante della America Latina arrivata nella scuola, era guardata dalle musulmane come una donna poco per bene, da tenere a distanza. Con una giapponese poi sembrava impossibile per le altre capirsi o comunicare, era una aliena.
Ora, intorno alla tavola di casa mia, queste donne e noi due insegnanti, in italiano, ci scambiamo allegre osservazioni, ma anche ci facciamo confidenze vere e serie sulle nostre difficoltà, condividiamo davvero il nostro mondo di donne, che supera le barriere dei paesi, delle culture e delle età diverse. Abbiamo imparato a stare bene insieme e ad aiutarci. Nessuna si sente più sola. Mentre gusto il sushi preparato in casa sua da Mariko, davvero squisito, provo un momento di vera felicità: non tanto per averle aiutate a integrarsi alla cultura e alla vita italiana, quanto perché anch’io, insieme a loro, sono in qualche modo cresciuta, e mi sono davvero meglio integrata nel mondo.
Ma questo traguardo vale perché è un punto di arrivo ancora piccolo, ma inserito e collegato con un progetto che sta andando avanti, che si amplia, si evolve, che conferma alcune caratteristiche che vuole assolutamente preservare, un progetto che è anche obbligato -specie in momenti come questi- a sapersi difendere; che andando avanti scopre sempre più punti di forza da sviluppare e problemi aperti su cui riflettere, e anche errori da evitare. Ne riparleremo.
 
 
CHI HA ORECCHIE INTENDA!
Ugo Basso
Mi capita spesso, leggendo il giornale «con la matita in mano», secondo un modo di dire caro all’amico Giorgio Chiaffarino, di essere preso dal desiderio di parlarne con gli amici e credo varrebbe introdurne l’uso abituale sul nostro foglietto: comunque questa volta non posso farne a meno.
Mi riferisco allo scambio, pubblicato dal Corriere dello scorso 16 aprile, fra il vescovo Rino Fisichella e il professor Claudio Magris che aveva espresso il proprio scandalo per l’affermazione dello stesso Fisichella circa «la piena condivisione con il pensiero della Chiesa» delle posizioni leghiste sui problemi etici, affermazione apparsa incredibile anche a molti di noi e di cui avevo già scritto sull’ultimo numero di Notam.  
Aggiungo alla garbata risposta di Magris qualche mia parola per osservare come da un vescovo mi aspetterei altro che la dichiarazione di condivisione con la dottrina etica di un movimento pagano e razzista. Naturalmente non voglio semplificare: la Lega non è solo quella delle ampolle di acqua del dio Po, dei matrimoni celtici e delle operazioni «bianco Natale»; è oggi un partito articolato, contraddittorio, molto capace di adeguarsi alle diverse situazioni con il quale quindi potrebbe essere possibile anche qualche convergenza, ma certo non è additabile al voto dei cattolici.
Nelle parole di sua Eccellenza, al di là delle singole valutazioni, mi scandalizza in primo luogo ignorare, fingere di ignorare, che nella chiesa non esiste un «nostro» pensiero né unanime -neppure fra i vescovi-, né deducibile dalla scrittura o dalla tradizione su singoli specifici argomenti come l’uso della RU 486 o il testamento biologico; in secondo luogo il non guardare la realtà negli stili di comportamento degli uomini della Lega che permettono più di un sospetto che il sostegno alle posizioni di cui si diceva fosse un espediente elettorale; in terzo luogo come un’indi-cazione di voto -tale intendeva essere l’affermazione di Fisichella-, ammesso che sia lecita, non consideri l’impostazione complessiva del pensiero e dell’azione politica della forza a cui si indirizza il consenso.
Sua Eccellenza sostiene con solennità il suo obbligo di vescovo «di agire affinché, almeno tra i cattolici, i principi non negoziabili non siano sovvertiti da alchimie di partito»: da povero cristiano di tutti i giorni, continuo a pensare che principi non negoziabili -riprendo questa espressione che ha sapore di presunzione e di rifiuto di dialogo- per il cristiano siano la fede nel Signore e l’amore per il prossimo. Punto. Da un vescovo mi piacerebbe sentire come vivere nel quotidiano questi alti insegnamenti e come discernere i falsi profeti. 
Chiudo con parole del professor Magris che declina l’invito del vescovo a «evitare citazioni bibliche nelle polemiche giornalistiche»: «Lei mi invita a non citare passi biblici, che evidentemente La mettono a disagio, ma credo proprio che non potrò farlo, perché le Scritture, e specialmente il Nuovo Testamento, sono la chiave che più mi permette di capire la vita». 
 
 
film in giro
La prima cosa bella
di Paolo Virzì, Italia 2009, uscita 15 gennaio 2010, commedia, colore, 116 min.
NON SO SE VIRZÌ HA PENSATO A QUESTE COSE
Manuela Poggiato
Raccontare la trama del film è semplice. Bruno - trentenne infelice, incerto, mutacico, solitario, occasionale frequentatore di giardinetti in cui si spacciano canne, insegnante di italiano in un istituto alberghiero di Milano dove si cucinano gelatine venute di merda - viene finalmente raggiunto dalla sorella Valeria che lo cerca da tempo per comunicargli che la madre, Anna, malata terminale, è peggiorata e per questo si trova in hospice. L’atteggiamento di Bruno è, al solito, il rifiuto, la fuga: a Livorno, che ha lasciato di corsa anni prima e di cui non gli piace nulla, non vuole affatto tornare, neppure per la madre, che non vede da anni, che  -dice- ha rovinato la vita a lui e a sua sorella. Invece ci torna a Livorno, raggiunge l’hospice e poi… ricorda il suo passato attraverso foto, incontri più o meno casuali, giri in motorino per le vie della sua città natale, ritrova l’enorme affetto della madre per lui e per la sorella e quello di lui per entrambe, si prende cura della madre, la segue, decide -lui che non decide mai nulla perché volta le spalle a tutto- di portarla a casa e di rivivere con lei e gli altri della famiglia, gli anni passati -belli, brutti non importa- durante gli ultimi giorni della sua vita.
A me, che faccio il medico, che mi occupo da tempo -e in questo periodo di più- di questi argomenti, il film ha dato molte emozioni perché parla di cose, secondo me, molto importanti per dare senso alla nostra vita: palliazione, modi di morire, assistenza ai malati terminali, umanizzazione della medicina. 
Gli amici con cui sto cenando stasera …hanno un’idea sbagliata delle cure palliative. Le vedono come un tentativo -felpato, morbido- di mascherare l’aspetto penoso e sordido della morte… E c’è chi prende a pretesto l’etimologia del termine “palliare” (pallium in latino significa manto) per sostenere la sua tesi. No, non mettiamo un coperchio sulla sofferenza altrui, non rifiutiamo di vederla, di sentirla, e se la vestiamo, lo facciamo con un manto di calore e di tenerezza affinché sia un po’ più leggera da portare. Cito una sura del Corano: «Che la tenerezza ti ricopra, tu, l’altro, con un manto». Circondare le spalle di chi soffre con un manto, vuol dire forse negare la sofferenza? [1]
Bruno, Valeria, gli altri improbabili membri della famiglia, ma proprio per questo persone vere, palliano la madre, la coprono con il morbido panno del loro affetto, della loro presenza attiva, nella casa dell’infanzia, fra oggetti, foto, eventi che spesso neppure ricordavano come propri.
E il tempo dedicato alla palliazione richiama subito il secondo aspetto che ha reso per me molto coinvolgente il film di Virzì: il modo di morire. Quando si chiede, si sente chiedere a qualcuno come vorrebbe morire, la risposta è spesso: di colpo, per non soffrire, per non provare né provocare dolore a sé e agli altri. Ma: «la caratteristica principale della nostra esistenza è la suspence. Nessuno -assolutamente nessuno- può sapere come andrà a finire»[2].
La morte ci dà la possibilità di dare compiutezza alla vita. Una morte improvvisa è stranamente incompiuta e forse è questo senso di incompletezza ad aumentare l’angoscia di chi resta… Morire fa parte della vita e della sua storia. È l’ultima occasione che abbiamo di trovare un senso in quanto è successo fino ad allora e di darne una spiegazione coerente… Potrebbe darci la possibilità di passare in rassegna la nostra vita rievocandola con il pensiero; di lenire i cattivi ricordi e di dare voce al rimorso e al perdono. La liquidazione sbrigativa, la cancellazione di ogni senso della vita nella sua integrità è diventata endemica e tanto la vita quanto la morte ne risultano impoverite[3].
Bruno e Valeria, palliando la madre, ne recuperano la storia, ne rivedono gli affetti e gli eventi, comprendendoli, mentre prima, da adolescenti, non erano in grado di farlo né volevano. «Per la persona morente, il cerchio del passato contiene la storia di una vita, ma anche le storie di tante altre vite collegate a essa; e il cerchio del futuro va oltre la vita individuale, includendo la vita di chi rimane»[4].
In questo contesto si inserisce il discorso tanto importante, molto sentito dai malati, ma anche da medici e infermieri, dell’assistenza al malato terminale e della necessità di umanizzare la medicina in un’epoca dominata dalla tecnologia.
Quando è possibile, i pazienti dovrebbero morire a casa o in un altro luogo amato e famigliare. Non bisognerebbe morire da soli e l’assistenza dovrebbe essere prestata da persone che i morenti conoscono e a cui, preferibilmente, sono legati da rapporti di affetto. E’ essenziale che tra medico e morente ci sia un rapporto e un dialogo ininterrotti. La comunicazione è mediata dalle parole e dal contatto fisico… Rivivere e condividere di nuovo i ricordi consente di arrivare a una storia di vita coerente… la profondità del tempo è più importante della sua durata[5].
I medici e gli infermieri pensano spesso che questi «come strumenti di cura paiono esigui e allo stesso tempo enormi, ma se vi prestiamo attenzione, diventa più facile non ritirarsi e in tal modo essere e rimanere presenti per il paziente che tutti noi un giorno saremo». I sanitari che curano «dovrebbero vedere la malattia in sé come una cosa che li riguarda. Dovrebbero, ogni volta che pronunciano la parola paziente, sostituirla nel proprio cuore con Io»[6] .Dovrebbero, cioè, opporre alla negazione della malattia e della morte (non è niente… andrà tutto bene… guarirà…) una presenza attiva e la condivisione della propria storia personale passata e presente.
Non so se Virzì ha pensato a queste cose scrivendo e dirigendo il suo film che certa critica vuole sia partito da spunti autobiografici. Io mi ci sono ritrovata a lungo, ho sorriso, anche riso, mi sono commossa… pensando ai miei pazienti, ai loro nomi, ai loro visi, alle storie di tutti i giorni.
 
 
Il Gallo da leggere                                                                                                u.b.
Sul quaderno monografico del Gallo di marzo-aprile, Cristiani nel divenire, dedicato all’essere cristiano all’inizio del terzo millennio, Itala Ricaldone presenta quattro personaggi del Novecento -Gandhi, Bonhoeffer, Pannikar, Williams- che, riuscendo anche a cambiare il proprio vissuto quotidiano «hanno dato un contributo importante al dialogo e interpretato in modo realistico la situazione sociale e politica in cui hanno vissuto». Rientrano nelle proposte per incarnare l’impegno civile e religioso nel nostro contesto sociale e culturale che deve trovare una dimensione comunitaria e, per il credente, ecclesiale. La Chiesa è definita da Maria Pia Cavaliere, curatrice del quaderno, «luogo della consapevolezza di una Presenza da accogliere, da cercare, da discernere». Occorre ripensarla per ritrovarla «compagna di strada degli uomini e delle donne del nostro tempo», capace di «grande libertà verso il potere e verso il denaro»; capace di camminare accanto agli uomini per spiegare la parola; «presenza discreta e premurosa, assieme […] una presenza che non crei dipendenze, ma aiuti a crescere come persone, nutrita dalla fiducia nell’altro». E questa Chiesa «sono anch’io».
Corrispondenza: Il Gallo, casella postale 1242 - 16100 GENOVA - Tel. 010.592819
 
sottovento                                                             g.c.  
IL DIAVOLO AL CORRIERE
Dedico queste righe agli amici che seguono quel campione di equilibrismo che è il Corriere della Sera. Lunedì sera 1° marzo, è in pagina un durissimo editoriale di Galli del Loggia per il numero del giorno successivo. Merita la lettura, chi l'avesse perso può rintracciarlo in internet. Qui, per dare il tono di quella musica, basterà citarne il titolo: «Il fantasma di un partito». Tratta delle vicende simil-comiche della maggioranza. Ma in tarda serata il direttore ordina il cambio e il pezzo viene sostituito da un più adeguato «Una promessa da mantenere», un testo di Sergio Rizzo sul disegno di legge anticorruzione presentato dal governo. Senza processare le intenzioni è però sufficientemente ragionevole immaginare che il Galli della Loggia sarebbe andato tranquillamente al cestino se il diavolo non ci avesse messo la coda, nel senso che 17.000 copie con la prima versione erano già state stampate e avviate alle capitali europee e, peggio, erano partite anche le copie per le rassegne stampa e per l'edizione on line. Scoppia una bomba e al comitato di redazione che chiede chiarimenti il direttore si assume tutta la responsabilità del caso: l'articolo incriminato viene pubblicato il giorno dopo con un suo cappello. Così questa volta viene scongiurata l'ipotesi di auto-censura e fugata l'interpretazione malevola, ma intanto il criterio di distribuzione è stato cambiato.
UN SEGNALE DI DEGRADO
Scrivo volentieri di Emergency dopo la liberazione dei suoi tre "rapiti" da non si sa bene chi, sotto gli occhi dei militari inglesi della Nato, questo si sa perché la televisione ce lo ha fatto vedere…
Il nostro ministro degli esteri si lascia scappare: «Speriamo che siano innocenti!», vale a dire, secondo me forse sono terroristi… Nei giorni del fatto incontro un illustre professionista che, evidentemente, si informa a senso unico: «Hai visto, c'erano le armi, sono terroristi, altro che medici…». Chi ha lanciato questa bestialità, dopo, solo dopo, dovrà fare marcia indietro. Magari una mini-rettifica, chissà, forse nella rubrica delle lettere. Non importa, è la prima notizia, comunque, quella che conta e che rimane nella testa della gente, e neanche delle sole fasce marginali.
Questo è un segnale - significativo - del degrado attuale della nostra informazione, priva di verifiche, di controlli, priva dei benedetti condizionali a cui eravamo abituati, ma era tanto, tanto tempo fa e per i giornalisti la scuola era Le Monde
segni di speranza                                                                      s.f.  
AMATEVI GLI UNI GLI ALTRI COME IO HO AMATO VOI
 Giovanni 15, 9-17
«Come il Padre ha amato me, così anche io ho amato voi»; non solo, dunque, «amate gli altri come voi stessi» (Levitico 19,18), ma amatevi come io ho amato voi. La precisazione è nuova nella scrittura (v. Matteo 22,37 e altri). Come ci ha amato Lui? Una risposta frequente è che: «ha dato la vita per noi». Questa risposta sottintende, forse, che il debito per le nostre colpe era cosi grande che solo un sacrificio altrettanto straordinario poteva compensarlo, come il sacrificio crudele e cruento di Gesù figlio di Dio, secondo un piano presumibilmente predisposto da Dio stesso.
Noi, veramente, abbiamo da molto tempo rinunciato ad accettare questa formula: non possiamo neppure pensare a un Dio cosi crudele da volere la crocefissione del proprio figlio per compensare le offese ricevute. Dove è finito quel «padre misericordioso» che ci ha sempre commosso e tranquillizzato. Non è nella compensazione (vendetta) che troviamo il modo in cui Lui ci ha amato.
Lo stile del suo amore lo troviamo piuttosto nell’abbraccio del lebbroso; nel perdono del ladrone crocefisso con lui («oggi sarai con me nella pace», Luca 23,43); nel perdono incondizionato della adultera («neppure io ti condanno, d’ora in poi non peccare più», Giovanni 8,11) nel padre che attende il figlio smarrito (Luca 15,11); e cosi via, in altri episodi o parabole simili. Un amore quindi: senza limiti (di tempo e di spazio); senza una legge rigida che stabilisca fino a qui e basta; senza sanzioni più o meno automatiche; «io dico a voi: amate i vostri nemici, pregate per quelli che vi perseguitano. Perché, se amate quelli che vi amano, quale diritto avete a una ricompensa?…non fanno ciò anche i pagani?». Un amore cosi non è una conquista della disciplina e della volontà, non sembra nemmeno congruente con la nostra natura. È un dono spirituale, disponibile a chiunque lo cerchi: ma bisogna chiederlo.
La legge si è trasformata in un impegno senza limite. Fortunatamente, dopo ogni fallimento, possiamo sempre ricominciare da capo, purché abbiamo fame e sete di giustizia, quella giustizia che è amore per tutti quelli che possiamo raggiungere, vissuto nella nostra vita di tutti i giorni, nel mondo degli uomini. Amare gli altri come noi stessi vuol dire con la stessa forza del nostro istinto di conservazione; un altruismo che dimentica se stesso.
Ma non dimentichiamo che amore è anche la reciproca attrattiva, piena di desiderio, provata dalle creature umane: elemento fondamentale della nostra natura. L’amore predicato dal Cristo non è metafisico, è molto umano, si associa a ogni amore terrestre, lo nobilita, ma non lo sublima; rimane umano, è vita di uomini, di tutti gli uomini.
IV domenica di Pasqua secondo il rito ambrosiano
 
schede per leggere                                             m.c.   
Fra i molti gialli oggi in circolazione, meritano di essere ricordati quelli di Robert van Gulik, un olandese esperto di lingue e culture dell’estremo oriente che racconta, in una collana dal titolo I casi del giudice Dee, le avventure di un celebre magistrato realmente vissuto nella Cina del 600 d.C..
Già una ventina di anni fa Garzanti aveva pubblicato alcuni testi di questo autore, rimasto comunque poco conosciuto in Italia; recentemente però la ObarraO edizioni ha curato l’uscita di cinque titoli, che spiccano per interesse e originalità.
Il giudice Dee, giovane intelligente, curioso, aperto, decide di lasciare la capitale dove gli si aprirebbe una facile e prestigiosa carriera, e sceglie di esercitare il proprio ministero nella provincia del grande Impero, dove la realtà è stimolante e offre esperienze avventurose. Così, quando nella sua sede ufficiale, nel corso di un viaggio, in città o luoghi dove è costretto a soggiornare, si scoprono strani avvenimenti che rivelano attività delittuose, il giudice Dee è indotto dalle circostanze a occuparsene: sempre accompagnato da qualche simpatico assistente dall’avventuroso reclutamento, conosce persone e ambienti diversi, interroga, mette insieme dati, deduce, ragiona, scopre i colpevoli; le condanne, infine, visti i tempi e i luoghi, saranno di una durezza per noi impensabile.
I racconti -I delitti dell’oro cinese, Il paravento di lacca, La perla dell’Imperatore, Il monastero stregato, Il padiglione scarlatto-, parlano di vizi e di virtù dell’uomo, alcuni legati inscindibilmente al momento e alla cultura, altri comuni a ogni tempo e luogo, a oriente e a occidente. L’autore comunque riesce a introdurre il lettore in un mondo lontano, spesso ignorato, e sa raccontare quella realtà, profondamente conosciuta, con fantasia e leggerezza. 
la cartella dei pretesti 
Migliorare il processo decisionale politiconon passa attraverso l’elezione diretta del capo dello stato, ma investe l’equilibro da trovare fra le prerogative del governo e la messa a punto di un ruolo del parlamento […] allo scopo di garantire, oltre che la velocità delle decisioni, la loro qualità e la loro capacità di avere con sé le variegate realtà dei nostri paesi. La discussione parlamentare di una legge non è una perdita di tempo, è la fase nella quale i rappresentanti dei diversi orientamenti e dei diversi territori sono partecipi di un’esperienza che comunque li unisce e che li rende tutti corresponsabili del bene comune.
GIULIANO AMATO, Parlamento da non svilire, Il sole 24 ore, 18 aprile 2010.
Giovani e politica: il 66% non ha fiducia.Possiamoassicurare che è uguale per anziani, anzianotti e anzianissimi.
LINA SOTIS, Qui Lina, Corriere della sera, 17 aprile 2010.
Hanno siglato le rubriche: 
Ugo Basso, Giorgio Chiaffarino, Mariella Canaletti, Sandro Fazi
Notam,lettera agli Amici del Gruppo del Gallo di Milano - www.ildialogo.org/notam
quelli di Notam
Ugo Basso, Giorgio Chiaffarino; Aldo Badini, Enrica Brunetti, Mariella Canaletti, Franca Colombo, Sandro Fazi, Fioretta Mandelli, Chiara Picciotti, Margherita Zanol
Corrispondenza:info@notam.it
Giorgio Chiaffarino, Via Alciati, 11 - 20146 Milano ® Ugo Basso, Via Muratori, 30 - 20135 Milano
Pro manuscripto
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L’invio del prossimo numero 351 è previsto per LUNEDÌ 10 MAGGIO 2010


[1] Marie De Hennezel, La morte amica, Rizzoli 1996, pag. 207-208.
[2] Saul Bellow, Cugini, in Quello col piede in bocca e altri racconti, Mondadori 1984, p. 252.
[3] Iona Healt, Modi di morire, Bollati Boringhieri editore 2008, pp. 34, 36, 39.
[4] Iona Healt, Modi di morire, Bollati Boringhieri editore 2008, pagg. 34, 36, 39.
[5] Iona Healt, cit. pag. 57.
[6] Bartoccioni, Bonadonna, Sartori, Dall’altra parte, BUR 2006


Marted́ 27 Aprile,2010 Ore: 15:40
 
 
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NOTAM - Lettera agli amici del gruppo del Gallo di Milano

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