Roma (NEV), 7 luglio 2010 - "Le vite a rischio di 245 eritrei detenuti in condizioni disumane in un centro nel mezzo del deserto del Sahara nel sud della Libia sono un grido e un appello alle nostre coscienze anestetizzate”. Franca Di Lecce, direttore del Servizio rifugiati e migranti della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI), ha commentato così la drammatica situazione degli eritrei da giorni rinchiusi dalle autorità libiche nel Centro di detenzione di Braq vicino Sebah, da dove rischiano il rimpatrio, e quindi torture, maltrattamenti e forse la morte. Alcuni di loro poche settimane fa, furono intercettati in acque internazionali, a 20 miglia da Lampedusa, e scortati in Libia da una nave militare libica.

“Come chiese evangeliche continueremo a chiedere trasparenza sugli accordi intercorsi tra il nostro Governo e la Libia e sulle conseguenze che hanno sulle vite di chi, nonostante divieti, respingimenti, torture, continuerà a partire per sfuggire alla miseria e alla guerra”, ha affermato Di Lecce, aggiungendo: “Il 'successo storico' per aver posto fine agli sbarchi di cui si vanta il Governo italiano, che continua a definire quell'accordo una svolta strategica per gli equilibri di tutta l'aerea mediterranea, è invece il successo della cultura della morte e della guerra. Noi vogliamo ascoltare quel grido, perché quel grido ci appartiene: ogni vita umana a rischio, umiliata e maltrattata, parla di noi, della nostra disumanità, della nostra indifferenza. E continueremo a chiedere alle istituzioni italiane ed europee di farsi carico delle responsabilità di ogni paese democratico che ha il dovere costituzionale di accogliere dignitosamente le persone che fuggono in cerca di protezione”.