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www.ildialogo.org Una legislatura si chiude fra malinconia e paura,di Augusta De Piero

Una legislatura si chiude fra malinconia e paura

di Augusta De Piero

La cultura del razzismo, abilmente inserito alla base delle nostre certezze e delle nostre paure con un lavorio che dura ormai da anni, dopo essere stata il solido conforto per il mantenimento della norma che dal 2009 nega il certificato di nascita ai figli dei sans papier, si va estendendo.
Ritengo che la continuità di quella norma possa essere considerata la cartina al tornasole di un degrado implacabile e strisciante. Nata durante il quarto governo Berlusconi, transitata indenne attraverso i governi Monti, Letta e Renzi è ora pronta ad essere traghettata dal governo Gentiloni alla XVIII legislatura dove continuerà e farà i suoi passi avanti, invasivi quanto un cancro  in un corpo che si crede sano.
Se i figli dei sans papier sono proprio figli degli altri, e perciò rigettati come corpi estranei, i figli adottivi che ora vengono colpiti lo sono un po’ meno ma ormai è noto che è possibile danneggiarli senza averne un riscontro negativi.
Molto dipenderà dal conforto elettorale che sarà assicurato ai gruppi razzisti e dal mantenimento della tolleranza della chiesa cattolica che, anche nel Sinodo sulla famiglia del 2015, è riuscita a ignorare questi piccoli la cui difesa non darebbe luogo a un consenso sociale emotivo o ragionevole che sia.
Sostenerne il diritto ad esistere sarebbe uno spreco di energie.
Ho riportato alcuni articoli di cui in fondo alla piccola raccolta ci sono i link per raggiungere l’originale e qualche riferimento a miei precedenti interventi (limitatamente al 2018) pubblicati nel mio blog.
Probabilmente l’utilità di tutto questo è l’averlo detto a me stessa.
Non ammetto mi sia sottratto il senso della mia dignità, almeno questo
Cosa vuol dire essere una mamma adottiva in un paese razzista
A sua figlia Luna, bimba kenyota di sei anni, hanno detto: «Non ti bacio, altrimenti divento marrone come te». Sua madre ci parla del clima di paura: «Sono preoccupata per quello che dovrà affrontare».
• di GIACOMO IACOMINO
L’hanno trovata in mezzo a una piantagione di caffè. Luna, il nome è di fantasia, aveva circa otto mesi, la mamma l’aveva abbandonata lì, nella speranza che qualcuno potesse prendersi cura di lei. Un coltivatore del luogo, o forse un pastore, l’ha vista, presa in braccio e portata nell’orfanotrofio più vicino. Qui Luna è rimasta circa un anno e mezzo. Poi, è stata adottata. Oggi ha sei anni e vive in provincia di Varese, con Chiara e Bruno e frequenta la prima elementare.«Perché sono nata in Kenya», risponde ai bambini che le chiedono il motivo per cui ha la pelle nera. I genitori adottivi le hanno insegnato cosa è meglio rispondere a domande di questo tipo aiutandola a esercitarsi per tutta l’estate. Luna è bellissima. Allegra. Molto alta per la sua età. Ha due occhi grandi e trasmette dolcezza in ogni suo gesto. «Ma tutto questo non durerà», dice sua madre che guarda in faccia alla realtà, e aggiunge: «Come mamma sono ben cosciente che arriverà presto il momento in cui verrà meno il cosiddetto white privilege, e quando sarà sola io mi domando: cosa succederà?».
IL WHITE PRIVILEGE
È un’espressione anglosassone, abbastanza intuibile anche solo con una traduzione letterale. Finché accanto a un bambino di colore ci sono persone con la pelle bianca, nessuno si permette mai di dirgli, o fargli, niente. Poi però il bambino cresce, a 14 anni inizia a uscire da solo e anche con una certa frequenza ed è a quel punto che occorre chiedersi: come verrà accolto dalla società? Si tratta di un tema diventato più che mai d’attualità dopo la lettera pubblicata su Facebook il 27 febbraio (e subito diventata virale con oltre 30 mila condivisioni) scritta da una mamma che ha adottato due bambini africani rivolgendosi a Matteo Salvini, leader e candidato premier per la Lega Nord: «Caro Salvini, volevo dirle che sta regalando ai miei figli momenti di terrore davvero fuori dal comune»: questo è l’incipit della lettera. Che prosegue così: «La più piccola ha sette anni, e prima di andare a dormire mi chiede sempre: ma se vince quello che parla male di noi mi rimandano in Africa? E piange, disperata». Poi conclude: «Mio figlio invece di anni ne ha 12. Quando prende il pullman per andare a giocare a calcio gliene dicono di ogni, tra cui: sporco negro, tornatene a casa tua invece di venire qui a rubare e uccidere le nostre donne».
LA STORIA DI LUNA
Dopo aver letto questa storia, ci siamo messi in contatto con un’altra donna che ha deciso di adottare un bambino africano. Per chiederle se questo clima di «paura» esiste per davvero, se viene percepito universalmente da tutti i genitori che hanno figli con la pelle di un colore diverso. Chiara, la mamma di Luna, ha 46 anni ed è sposata con Bruno, 49. Lo ammettono entrambi: fino a ora non si sono mai imbattuti in episodi di razzismo rivolti alla piccola. White privilege, si diceva. Finché sei un bimbo e sei accompagnato da genitori bianchi, perlomeno in questa società, non c’è niente che ti possa succedere. O quasi.
DOMANDA Chiara, davvero non è mai capitato a lei e sua figlia un episodio, se non di razzismo, quanto meno spiacevole?
RISPOSTA: In verità sì. Una volta un bambino le ha detto: «Io non ti bacio, altrimenti divento marrone come te, e non voglio». Era una situazione di gioco tra bambini, apparentemente tranquilla. Ma in quel momento mia figlia si è bloccata, ha smesso di ridere e di parlare. Poi siamo tornati a casa, e ha pianto per un’ora.
D: Trattandosi di bambini, forse però in questo caso si è trattato solo di un piccolo incidente.
R: Probabilmente è così. Sono anch’io convinta che non ci fosse alcuna impronta razzista nella frase pronunciata da quel bambino. Ma io e mio marito siamo costretti a convivere con la paura che questi episodi possano ripetersi sempre più frequentemente, man mano che nostra figlia crescerà. Non ci preoccupa più di tanto «l’adesso», quanto l’inizio dell’adolescenza, quando avrà 13 anni. Quanto ci metteranno le persone a scambiarla anche solo per un’immigrata, quando la incontreranno per strada?
La nostra è una società razzista. L’idea di crescere mia figlia in questo Paese mi spaventa.
D: Il che, se ci fosse un substrato sociale di un certo tipo, non dovrebbe essere un problema. Immigrati, italiani, stranieri, cinesi, ebrei, neri… Siamo tutti uguali.
R: E invece tutto questo non c’è. La nostra, e non mi vergogno di dire quello che sto per dire, è una società razzista. L’idea di crescere mia figlia in questo Paese mi spaventa. Non sono una persona ansiosa né eccessivamente protettiva. Ma so bene cosa l’aspetta e cosa c’è in serbo per lei che proviene da un mondo totalmente diverso.
D: Come va gestita questa situazione, in famiglia e fuori di casa?
R: Cerco di studiare e trovare gli strumenti giusti per facilitare il suo inserimento. Ovviamente non è ancora pronta per parlare del suo abbandono dal punto di vista emotivo. Ma se dei bambini dovessero iniziare a prenderla in giro a causa del colore della sua pelle, io credo che debba imparare il prima possibile a rispondere nel modo adeguato.
D: Come, per esempio?
R: C’è voluto tempo, un’intera estate, l’ultima, per insegnare a Luna le risposte più adeguate da dare ai suoi compagni di classe riguardo la sua diversità. In pratica simulavamo dei discorsi insieme e mentre lo dico mi sembra paradossale. Per cui a domande del tipo: «Perché hai la pelle nera?». Lei oggi risponde: «Perché ho più melanina» oppure, più semplicemente: »Perché sono nata in Kenya». Peraltro ha risposto così, di recente, a un altro bambino, che ha subito detto: «Wow, che bello!». Lei era felicissima. Aggiungo che siamo stati fortunati perché Luna è in una classe dove c’è anche un bambino giapponese, un altro Nord africano e persino un neozelandese, quasi ho pianto, quando me l’hanno detto. A scuola non ci sono problemi ma lo ripeto, siamo stati molto, molto fortunati. Penso ad esempio a cosa ha dovuto vivere una mia amica che vive a Padova.
D: Cosa le è successo?
R: Anche lei ha adottato un bambino di colore. Ed è stata costretta a fargli cambiare scuola, perché i compagni lo prendevano in giro. Cose del tipo: «Tu sei marrone, tu sei come la cacca, tu puzzi». E io francamente, con tutta la buona volontà, non posso certo dire a mia figlia di sei anni cosa rispondere se qualcuno le si rivolge in questo modo.
D: La scelta della scuola è un importantissimo punto di partenza per tutti. Per una famiglia come la vostra, lo è ancora di più.
R: Ci abbiamo messo sette mesi prima di trovare quella giusta. Qui Luna già conosce la metà dei suoi compagni perché li frequenta dall’asilo. Ma per intenderci: noi viviamo vicino Varese, dove gli impulsi leghisti non mancano. Poi è ovvio che è la scuola stessa a dover cambiare. Ritengo che sin dall’asilo si debba iniziare ad affrontare il tema della diversità, e lasciare che i bambini parlino di questa cosa liberamente.
D: Quand’è che Luna si è accorta del colore della pelle diverso da quello della sua mamma?
R: A tre anni. Le stavo preparando una fetta di pane con il burro. Lei mi ha detto: «Mamma, il tuo colore è uguale al burro, ma io ce l’ho come il cioccolato». Ovvio che lei non può attribuire alcun valore a questa cosa. A meno che qualcuno non glielo faccia notare in modo violento, come è accaduto con il bambino che non voleva baciarla o com’è successo alla figlia della mia amica padovana. Ecco perché sono preoccupata per il suo futuro.
D: Il clima di cui parla la mamma che ha scritto la lettera a Matteo Salvini esiste, dunque.
R: Certo, come ho detto: non è un timore. Ho la certezza che prima o poi succederà qualcosa. L’infanzia di Luna non è nient’altro che una bolla. Quando finirà temo ci vorrà poco tempo prima che le arrivino i primi ‘commenti’ e in qualità di genitori c’è la paura di non averla preparata abbastanza bene. Non devi farle il lavaggio del cervello, ma è indispensabile darle un vissuto importante a livello emotivo affinché riesca a tutelarsi da sola.
D: In che rapporti è con altre mamme che hanno adottato bambini africani o di colore?
R: Frequentiamo incontri, convegni in cui ci sono testimonianze di chi ha già vissuto potenziali episodi di razzismo, sono momenti utili in cui confrontarsi.
D: Qualche esempio?
R: Sono stata di recente alla conferenza della presentazione di un libro scritto da una ragazza nera, figlia di immigrati di seconda generazione, che vive a Bergamo. Ha raccontato di quando torna a casa la sera e c’è sempre un gruppo di persone, giovani e meno giovani, che le chiedono ‘quanto vuole’. Può immaginare che per me che sono madre di una figlia di sei anni kenyana, anche solo pensare a una cosa del genere mi mette un’ansia pazzesca.
D: Per una mamma di una bimba keniana di sei anni, pensare a una cosa del genere per la figlia non deve essere facile.
R: Ma ve ne racconta un’altra. Ho conosciuto una donna che ha adottato una bambina indiana. Un giorno la porta con sé in ufficio, dove non tutti erano al corrente dell’adozione. E così alcuni suoi colleghi vedono la piccola mentre gioca con la sua borsa. «Guarda che c’è una straniera che sta frugando tra le tue cose», le hanno detto.
Non siamo in Svizzera o in Inghilterra dove un direttore di banca con la pelle nera è qualcosa di assolutamente normale.
D: Suo marito è preoccupato quanto lei?
R: Più di lui lo è mia madre, quindi la nonna, che ha 80 anni. Teme che Luna possa essere trattata male, in ogni momento. D’altra parte dove viviamo noi non ci sono uomini e donne di colore che lavorano come dirigenti di qualche azienda o di qualche ufficio. Non siamo in Svizzera o in Inghilterra dove un direttore di banca con la pelle nera è qualcosa di assolutamente normale. Ecco perché farò in modo che Luna impari l’inglese il prima possibile. Per lei sogno un futuro all’estero. a Londra magari.
D: Dice che tra 20 anni l’Italia non sarà ancora pronta?
R: Non credo, ma ci spero tanto.
Il presente non ci faccia dimenticare la storia
1 marzo 2018 – Zeev Sternhell: “Israele, fascismo in crescita e razzismo come nazismo degli esordi”
La denuncia lo storico israeliano Zeev Sternhell: “Israele vuole privare i palestinesi dei diritti umani fondamentali. La sinistra non è più in grado di sconfiggere l’ultranazionalismo tossico che si è sviluppato qui, la cui versione europea ha praticamente sterminato la maggioranza del popolo ebraico”.
di Zeev Sternhell, da Haaretz *
Spesso mi chiedo come, tra 50 o 100 anni, uno storico interpreterà la nostra epoca. Quand’è – si chiederà – che la popolazione in Israele ha iniziato a realizzare che lo Stato, nato dalla guerra d’indipendenza, sulle rovine dell’ebraismo europeo, e pagato col sangue dei combattenti, alcuni dei quali erano sopravvissuti all’Olocausto, si è trasformato in una tale mostruosità per i suoi abitanti non ebrei? Quand’è che alcuni israeliani hanno capito che la loro crudeltà e la capacità di prevaricazione sugli altri, palestinesi o africani, ha iniziato a erodere la legittimità morale della loro esistenza come entità sovrana?
La risposta, potrebbe dire quello storico, è racchiusa nelle azioni di parlamentari come Miki Zohar e Bezalel Smotrich e nelle proposte di legge del ministro della Giustizia Ayelet Shaked. La legge dello Stato-nazione, che sembra formulata dal peggiore degli ultranazionalisti europei, è stata solo l’inizio. Dato che la sinistra non ha protestato contro di essa nelle manifestazioni in Rotchild Boulevard, quella è stata l’inizio della fine della vecchia Israele, la cui dichiarazione di indipendenza rimarrà come pezzo da museo. Un reperto archeologico che insegnerà alla gente ciò che Israele sarebbe potuta diventare, se solo la sua società non fosse stata disintegrata dalla devastazione morale causata dall’occupazione e dall’apartheid nei Territori.
La sinistra non è più in grado di sconfiggere l’ultranazionalismo tossico che si è sviluppato qui, la cui versione europea ha praticamente sterminato la maggioranza del popolo ebraico. Le interviste per Haaretz di Ravit Hech a Smotrich e Zohar (3 dicembre 2016 e 28 ottobre 2017) dovrebbero essere ampiamente diffuse su tutti i media in Israele e nel mondo ebraico. In entrambe, si nota non solo un crescente fascismo israeliano, ma anche un razzismo simile al nazismo degli esordi.
Come ogni ideologia, la teoria nazista della razza si è sviluppata nel corso degli anni. All’inizio, ha solo privato gli ebrei dei loro diritti umani e civili. È possibile che, se non ci fosse stata la Seconda Guerra Mondiale, la “questione ebraica” si sarebbe risolta con la sola espulsione “volontaria” degli ebrei dalle terre del Reich. Dopotutto, molti ebrei austriaci e tedeschi erano riusciti ad andarsene in tempo. È possibile che questo sia il futuro dei palestinesi.
Smotrich e Zohar, infatti, non vogliono nuocere fisicamente ai palestinesi, a patto che questi non si ribellino contro i loro padroni ebrei. Vogliono semplicemente privarli dei diritti umani fondamentali, come l’autogoverno nel loro Stato e la libertà dall’oppressione, o l’uguaglianza di diritti nel caso in cui i territori siano ufficialmente annessi a Israele. Per questi due rappresentanti della maggioranza alla Knesset, i palestinesi sono condannati a restare sotto occupazione per sempre. È probabile che anche il Comitato centrale del Likud la pensi così. Il ragionamento è semplice: gli arabi non sono ebrei, quindi non possono rivendicare la proprietà di alcuna porzione della terra che è stata promessa al popolo ebraico.
Secondo il ragionamento di Smotrich, Zohar e Shaked, un ebreo di Brooklin che non ha mai messo piede in questo Paese è il legittimo proprietario di questa terra, mentre un palestinese, la cui famiglia vive qui da generazioni, è uno straniero che vive qui solo grazie alla benevolenza degli ebrei. “Un palestinese – ha detto Zohar a Hecht – non ha alcun diritto all’autodeterminazione nazionale perché non possiede la terra in questo Paese. Per senso del vivere civile gli riconosco la residenza, dato che è nato qui e vive qui; non gli dirò di andarsene. Ma, mi dispiace dirlo, loro hanno un enorme handicap: non sono nati ebrei”.
Da ciò si può presumere che, anche se si convertissero tutti, si facessero crescere i payot (riccioli laterali) e studiassero la Torah, non servirebbe. Questa è la realtà dei richiedenti asilo sudanesi ed eritrei e dei loro figli, che sono israeliani a tutti gli effetti. Era lo stesso con i nazisti. Poi c’è l’apartheid, che si può applicare in determinate circostanze agli arabi con cittadinanza israeliana. La maggior parte degli israeliani non sembra preoccupata.
* Traduzione di Elena Bellini da Nena News (1 marzo 2018)
NOTA 1: fonti dell’articolo di Giacomo Iacomino
letteradonna.it
ildialogo.org
NOTA 2. Accesso al sito www.ildialogo.org – Osservatorio sul Razzismo e sulle migrazioni
ildialogo.org
NOTA 3: fonte dell’articolo di Zeev Sternhell
temi.repubblica.it
NOTA 4:
24 febbraio – Lettera aperta al presidente Gentiloni  diariealtro.it
8 febbraio – Liliana Segre: c’è una politica che semina odio
………………………………………………………………….diariealtro.it
6 febbraio – Razza o non razza? Un fatto o una parola?  diariealtro.it



Domenica 04 Marzo,2018 Ore: 23:02
 
 
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