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www.ildialogo.org «Le ragazze di Benin City»,di PAOLO NASO

Il caso di Castel Volturno
«Le ragazze di Benin City»

di PAOLO NASO

ENTRANDO la domenica mattina in una delle deci­ne di chiese evangeliche di Castel Volturno (Ce), non è difficile riconoscerle: lo sguardo stanco e perso nel vuoto, qualcuna piange, altre pregano con particolare fer­vore. Sono le «ragazze di Be-nin City», come le ha definite una di loro, Isoke Aikpitanyi, che in un libro autobiografi­co ha raccontato la «tratta delle nuove schiave dalla Ni­geria ai marciapiedi d’Italia» (Melampo ed. 2007).
Le ragazze vanno in chiesa – scrive perché «è l’unico svago nella brutta vita che fanno» e la cosa risulta a colpo d’oc­chio: alla domenica mattina, lungo la via Domiziana che at­traversa Castel Volturno, si ve­dono centinaia di persone che con il vestito della festa e la Bibbia in mano si avviano ver­so una chiesa evangelica, qua­si sempre pentecostale anche se del tutto indipendente da qualsiasi rete locale o na -zionale. La chiesa coincide con il pastore che l’ha fondata e, in un contesto povero e de­privato come quello della via Domiziana, sono in molti a cercare un conforto spirituale e una casa della fede in cui pregare, cantare e condivide­re le proprie emozioni. Le ra­gazze vittime di tratta, insom­ma, in chiesa ci vanno e la chiesa le accoglie.
Il problema è che in chiesa ci vanno anche le loro ma-man, donne più anziane che spesso hanno subito le stesse violenze e vissuto le stesse sof­ferenze che ora contribuisco­no a infliggere alle loro giova­ni «sorelle». È una catena di sopraffazione ma anche di complicità, di paura ma anche di mutua rassicurazione. Una catena ambigua che la chiesa nelle quale maman e «ragaz­ze» si incontrano ogni dome­nica non riesce a spezzare.
I pastori sono tutti maschi, anche se è facile incontrare donne molto preparate e rico­nosciute nella leadership co­munitaria. Sul tema delle ra­gazze che si prostituiscono tutti dicono la stessa cosa e cioè che la chiesa non chiude loro la porta in faccia e anzi deve aiutarle a iniziare una nuova vita. Nelle loro predi­che spendono parole di fuoco contro lo spaccio e la prostitu­zione ma «duri nella denuncia del peccato, i pastori sono as­sai più indulgenti nei confron­ti dei peccatori che poi fre­quentano il culto e spesso con le loro offerte contribuiscono generosamente alla vita della comunità»: lo spiega Donato Di Sanzo, un giovane ricerca­tore del Master in «Religioni e mediazione culturale promos­so dall’Università La Sapienza di Roma», che da mesi frequenta Castel Volturno per costruire una mappa della presenza evangelica nell’area.
«Se volessi potrei tirare via dalla strada decine di ragazze in un giorno solo – mi confer­ma uno dei pastori della zo­na, uno dei più autorevoli e riconosciuti –. Ma il giorno dopo, come mangiano?»
Impotenza? Alibi? Compli­cità con le maman, come ha scritto qualcuno calcolando la consistenza delle «decime» che giungono nella casse del­le chiese? Qualcuno scrive ad­dirittura di un ruolo attivo delle chiese nell’organizza­zione materiale della tratta: non ci sono prove né tanto meno sentenze o inchieste della magistratura che diano consistenza a questa ipotesi eppure, nel nome di un me­diocre giornalismo alla ricer­ca di un’altra Gomorra, qual­cuno ha scritto di «chiese del­la camorra» e di una «mafia-frica» che le lambisce e talvol­ta le attraversa.
Lasciando da parte queste interpretazioni tanto estreme quanto poco documentate sulla realtà delle chiese di Ca­stel Volturno, resta un grave problema pastorale e sociale: le comunità cristiane potreb­bero essere un pre zioso termi­nale per l’azione contro lo tratta e, più in generale, per l’integra zione degli immigrati.
Potrebbero, ma non accade almeno per due ragioni: la pri­ma è che l’assoluta maggio­ranza delle chiese africane mantiene una caratteristica «etnica» che rende difficile il rapporto tanto con le istitu­zioni locali che con la società civile e le chiese italiane – an­che quelle «sorelle» – di Castel Volturno. La seconda è che ogni serio percorso di integra­zione ha bisogno di un qua­dro istituzionale che lo pro­muova: servono leggi, fondi, progetti, «volontà politica» co­me si dice nel gergo degli am­ministratori locali. E a Castel Volturno (ma non solo) non c’è niente di tutto questo.
L’incontro promosso il 2 ot­tobre dall’Unione cristiana evangelica battista e dalla Fe­derazione delle chiese pente­costali e realizzato con la colla­borazione del programma «Es­sere chiesa insieme» della Fe­derazione delle chiese evange­liche in Italia proprio nel cen­tro domiziano, ha indicato una strada possibile: per la pri­ma volta chiese di diversa de­nominazione, lingua, cultura tradizionale, etnia si sono in­contrate per una giornata di testimonianza comune sul te­ma dei diritti e dell’integrazio­ne. È stato un primo passo. L’impegno comune per cerca­re un futuro meno triste e mi­serevole per le «ragazze di Benin City» potrebbe essere l’ini­zio di un vero e proprio cam­mino insieme.

Il presente articolo è tratto da Riforma - SETTIMANALE DELLE CHIESE EVANGELICHE BATTISTE, METODISTE, VALDESI Anno 146 - numero 38 - 8 ottobre 2010. Ringraziamo la redazione di Riforma (per contatti: www.riforma.it) per averci messo a disposizione questo testo



Venerdě 15 Ottobre,2010 Ore: 14:43
 
 
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