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www.ildialogo.org Riflessioni sulla pena di morte,di Cludio Giusti

Riflessioni sulla pena di morte

di Cludio Giusti

Uno strano frutto, un amaro raccolto.

Redatto il 10.10.10 da Alessia Bruni, Cristiana Bruni, Claudia Caroli e Claudio Giusti. Rivisto in occasione dell’anniversario della seconda abolizione della pena di morte nel Granducato di Toscana, il 30 Aprile 1859.

La pena capitale è come la schiavitù: nessuno ha il diritto d’imporla.


La pena di morte è una violazione dei diritti all’eguaglianza, alla vita e alla libertà dalla tortura. Un territorio dai confini vaghi e incerti che cambiano nel tempo e nello spazio, dove arbitrio e capriccio la fanno da padroni. Privilegio dei poveri è una punizione irreversibile che uccide pazzi e innocenti. Non è deterrente né legittima difesa, non è di conforto alle vittime e brutalizzando la società ne accresce la violenza. La pena di morte è un assassinio rituale, una parodia di giustizia, null’altro che l’imposizione di dolore e sofferenza.

Una immorale, indecente, crudele, razzista e classista violazione dei diritti umani.

1

La pena capitale è una violazione dei principi di uguaglianza e libertà sanciti dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Viola il diritto alla vita e l’immunità dalla tortura e da ogni altra punizione crudele, inumana o degradante. Il rispetto di questi diritti è un chiaro obbligo per tutti i paesi del mondo e non v’è situazione in cui possano essere ignorati. Codesti diritti non dipendono dalla bontà d’animo dei governanti o dai capricci di una maggioranza: sono diritti di cui tutti devono godere in ogni momento e in qualsiasi luogo: qualcosa che appartiene a ciascun essere umano semplicemente perché egli è tale.

2

Nessuno può essere privato del diritto ad avere diritti. La pena di morte, come la schiavitù e la segregazione razziale, viola il diritto all’uguaglianza perché crea un’artificiale categoria di persone cui questo diritto è negato ancor prima di quello alla vita.

Una violazione dei diritti umani non può essere amministrata equamente e la pena di morte si accanisce sui deboli e gli indifesi, uccide gli innocenti, i poveri, i pazzi e gli appartenenti alle minoranze. La sua attesa è una tortura che può durare decenni.

Non esistono pene sostitutive a quella capitale, come non ve ne sono per la tortura, perché le violazioni dei diritti umani non hanno alternative che non siano la loro scomparsa.

3

Lo stato non gode del potere di vita e di morte e la pena di morte è una sua guerra contro l’individuo: un sacrificio umano, un omicidio rituale perpetrato in nome di tutti per rassicurare le paure di alcuni e rafforzare il potere di pochi. Solo gli individui possono, singolarmente o collettivamente, utilizzare la violenza in caso di estrema necessità per rispondere, in modo proporzionato, a una minaccia concreta e attuale ed esclusivamente per salvare vite.
Il sistema giudiziario non si trova mai in questa situazione.

4

Che sia il prodotto della giustizia del re o del democratico linciaggio, il patibolo non permette esitazioni. Il suo rifiuto non si può limitare a un’accorta selezione dei casi e non consente la scappatoia del bene comune. Al suo cospetto non possiamo restare neutrali.

5

L’imposizione della pena capitale è arbitraria come il lancio di una moneta e risente dei pregiudizi della società che la applica, delle necessità del potere, dello status sociale della vittima e dell’assassino, arrivando all’assurdo della differente applicazione da un aula giudiziaria all’altra. Non esiste legame coerente fra il delitto commesso e la pena che si va a scontare. Per delitti simili alcuni sono uccisi mentre altri se la cavano con poco o nulla. Più che amore verso la vittima si mostra un odio molto selettivo nei confronti dell’assassino.
Forse Abele è sempre Abele, ma certamente Caino non è sempre Caino

6

Due secoli di abolizionismo hanno dimostrato che la pena di morte è priva di qualsiasi utilità e giustificazione. Non è un deterrente e brutalizza la società nel suo insieme. Non è di sollievo alle vittime e produce altro dolore. La storia mostra come non sia possibile tracciare quella sottile linea che divida i delitti passibili di pena di morte da quelli che non lo sono e il concetto di chi “merita di morire” cambia nel tempo e nello spazio. La libera espressione del pensiero, anche religioso, è stata ed è attività estremamente pericolosa.

7

L’incarcerazione dell’innocente è un dramma comune a ogni sistema giudiziario, ma il solo sospetto di averlo ucciso è ragione più che sufficiente per giustificare l’abolizionismo. La moratoria delle esecuzioni è un palliativo: significa consegnare i condannati a una schiavitù, in cui la vita non è più un diritto ma una concessione del potere. Le condizioni del braccio della morte sono sovente letali e l’ergastolo, se non illuminato da una speranza di libertà, diventa una ghigliottina secca.

8

Non v’è dubbio che la pena capitale abbia antiche radici, ma il fatto che sia stata, come la schiavitù, a lungo accettata e giustificata non vuol dire che lo si debba fare anche oggi. La sua abolizione è l’ammissione dell’umana fragilità e fallibilità, ma da sola non significa necessariamente rispettare completamente i diritti umani. L’abolizione è il riconoscimento della dignità inerente ad ogni essere umano, dei sui diritti eguali e inalienabili e l’applicazione della giustizia nel suo significato più alto.

La scomparsa della pena capitale è garanzia di libertà, uguaglianza e umanità per tutti.

Claudio Giusti giusticlaudio@alice.it 340/4872522




Lunedì 29 Aprile,2013 Ore: 21:02
 
 
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