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www.ildialogo.org Condanna di Sakineh, chiediamo che venga applicata la moratoria,

Una posizione islamica sulla pena di morte
Condanna di Sakineh, chiediamo che venga applicata la moratoria

Dal sito di www.islam-online.it


Noi non sappiamo se Sakineh sia colpevole o meno ma siamo certi che l’imperfezione assoluta dei sistemi giudiziari, di tutti i sistemi giudiziari, è tale da rendere improponibile l’applicazione di una pena irreversibile come quella capitale.

Per questa ragione e per le altre che potrete leggere nell’appello, lanciato da Tariq Ramadan nel marzo del 2005 (e da noi prontamente sottoscritto) chiediamo che venga sospesa sine die l’esecuzione. In mesto sacro mese di rahma, Allah illumini coloro che hanno il potere in Iran e ci risparmino questo dolore.

Appello internazionale alla moratoria sulle punizioni corporali, la lapidazione e la pena di morte nel mondo musulmano

Periodicamente le società abitate in maggioranza dai musulmani e i musulmani del mondo si trovano di fronte alla questione dell’applicazione delle pene del codice penale islamico. Sia che ci si riferisca al concetto di “shari’a” o, più limitatamente, a quello di “hudûd, i termini del dibattito sono attualmente informati da un problema centrale nella discussione tra gli ulamâ’ e/o tra i musulmani: cosa significa essere fedeli al messaggio dell’islam in quest’epoca? Oltre a quello che viene richiesto nella vita privata, cosa si chiede ad una società che si definisse “islamica”?

Sappiamo che nel mondo islamico ci sono diverse correnti di pensiero e che i disaccordi, sono molti, profondi e reiterati. Alcuni, una minoranza, esigono l’applicazione immediata, letterale, degli hudûd poiché, a loro avviso tale applicazione è preliminarmente indispensabile per far sì che una “società a maggioranza musulmana” possa essere considerata veramente “islamica”. Altri, a partire dal fatto oggettivo che gli hudûd sono effettivamente nei testi di riferimento (il Corano e la Sunna), ritengono tuttavia che l’applicazione degli hudûd sia condizionata dallo stato della società che dovrebbe essere giusta e per alcuni “ideale” e, pertanto, le priorità siano la promozione della giustizia sociale e la lotta contro la povertà e l’analfabetismo. Altri ancora, anche questi minoritari, ritengono del tutto caduchi i testi relativi agli hudûd e che tali riferimenti non debbano più essere tali nelle società musulmane di oggi.

Cosa dice la maggioranza degli ulamâ’

Tutti gli ulamâ’ (sapienti) del mondo musulmano di ieri e di oggi, e di ogni corrente di pensiero, riconoscono l’esistenza dei testi dottrinali che parlano di punizioni corporali (Corano e Sunna), della lapidazione delle donne e degli uomini adulteri (Sunna), della pena capitale (Corano eSunna). Si tratta di un contenuto oggettivo dei testi che gli ulamâ’ non hanno mai messo in discussione.

Le divergenze tra gli ulamâ’ e tra le diverse correnti di pensiero (letteralista, riformista, razionalista, ecc.) riguardano soprattutto l’interpretazione di alcuni testi e /o le condizioni dell’applicazione delle pene previste dal codice penale islamico (natura dell’infrazione commessa, testimonianze, contesto sociale e politico, ecc.) o, infine, più ampiamente e più fondamentalmente al loro grado di adeguatezza al tempo che viviamo.

La maggioranza degli ulamâ’, in tutta la storia e fino ai nostri giorni, è convinta che queste pene siano sì islamiche, ma che le “condizioni richieste” per la loro applicazione sìano praticamente impossibili a realizzarsi ( soprattutto per quel che riguarda la lapidazione) : sono pertanto “quasi mai applicabili”. Gli hudud avrebbero soprattutto un carattere “deterrente” il cui obiettivo sarebbe quello di consolidare, nel cuore del credente, la gravità delle azioni sanzionabili con questi castighi.

Leggendo le opere degli ulamâ’,  ascoltando le loro conferenze e i loro sermoni, viaggiando nel mondo islamico o stando vicini alle comunità musulmane d’Occidente si ascolterà inevitabilmente e invariabilmente questa formula da parte delle autorità religiose: “… quasi mai applicabile”. Essa permette alla maggioranza degli ulamâ’, e dei musulmani di sottrarsi al nocciolo della questione senza dare l’impressione di non essere fedele alle fonti dottrinali islamiche. Un altro atteggiamento, quello di evitare la questione e/o tacere.

Cosa avviene sul campo

Ci sarebbe piaciuto che questa formula “quasi mai” fosse assunta come una garanzia per proteggere le donne e gli uomini da azioni repressive e ingiuste; ci saremmo augurati che le condizioni richieste fossero intese come un invito a promuovere l’eguaglianza di fronte alla legge e la giustizia tra gli esseri umani da parte dei legislatori che si riferiscono all’islam. Ebbene, non è affatto così.

Di fatto, dietro un discorso islamico che minimizza i fatti e smussa gli spigoli, all’ombra di quel “quasi mai”, donne e uomini sono puniti, picchiati, lapidati e giustiziati in nome dell’applicazione degli hudûd  mentre la coscienza dei musulmani del mondo non si turba più di tanto. Si fa finta di non saperlo, come se si trattasse di tradimenti minimi all’insegnamento islamico.

Ebbene, al colmo dell’ingiustizia, queste pene vengono applicate solo alle donne e ai poveri, doppiamente vittime, e mai ai ricchi, ai governanti e agli oppressori. D’altronde, centinaia di prigionieri non hanno alcun diritto ad una difesa degna di questo nome: sentenze di morte sono decise ed eseguite nei confronti di donne, uomini e addirittura di minorenni ( oppositori politici, trafficanti, delinquenti ecc.) senza che gli imputati abbiano avuto il minimo contatto con un avvocato.

Dopo aver accettato l’evanescenza nella nostra relazione con le fonti dottrinali, ci arrendiamo di fronte al tradimento del messaggio di giustizia dell’Islam.

La comunità internazionale ha, dal canto suo, una grave responsabilità in merito all’atteggiamento sulla questione degli hudûd  nel mondo musulmano. La sua denuncia è selettiva e agisce in base al calcolo e alla protezione di interessi geostrategici ed economici: un paese povero, africano o asiatico che cerchi di applicare gli hudûd  o la sharî’a dovrà, come si è visto recentemente, far fronte a campagne internazionali di mobilitazione.

Non è la stessa cosa per i paesi ricchi, le petromonarchie, che sono considerati “alleati”, che si denunciano timidamente o non si denunciano affatto, malgrado un’applicazione costante e nota di queste pene nei confronti dei segmenti più poveri e più deboli delle loro società. L’intensità della denuncia è inversamente proporzionale agli interessi in gioco. Un’ingiustizia in più.

L’inclinazione dei popoli, il timore degli ulamâ’

A chi viaggia nel mondo islamico e vive almeno un po’ vicino ai musulmani, s’impone un dato di fatto: la gente manifesta ovunque un attaccamento all’islam e ai suoi insegnamenti. Questa realtà, di per sé interessante e che ogni musulmano percepisce positivamente, può rivelarsi inquietante, e del tutto pericolosa quando la natura di questo attaccamento è del tutto passionale, senza sufficiente conoscenza e comprensione dei testi, con poca o nessuna distanza critica rispetto alle diverse interpretazioni dei sapienti, alla necessaria contestualizzazione, alla specificità delle condizioni richieste, cioè in definitiva alla protezione dei diritti degli individui e alla promozione della giustizia.

Sulla questione degli hudûd, assistiamo talvolta a delle infatuazioni popolari speranzose o esigenti la loro puntuale e immediata applicazione in quanto essa garantirebbe il carattere definitivamente “islamico” della società. Infatti, non è infrequente sentire musulmani e musulmane (più o meno istruiti, e più spesso poveri) chiedere un’applicazione formalista e rigorosa del codice penale (nel loro modo di sentire, la sharî’a) del quale sarebbero le prime vittime. Quando si studia questo fenomeno, si capisce che, generalmente, due diversi ragionamenti motivano tali rivendicazioni:

L’applicazione letterale e immediata degli hudûd, rende legalmente e socialmente visibile il riferimento all’islam. La legislazione, con la sua severità, dà il senso di una fedeltà all’ordine coranico che pretende il rispetto rigoroso del testo. Negli ambienti popolari dei paesi africani, asiatici e persino occidentali, si è potuto constatare che è la fermezza e l’intransigenza nell’applicazione che le assegna una dimensione islamica nella psiche popolare.

Paradossalmente, le critiche e le condanne da parte dell’Occidente alimentano il sentimento popolare di fedeltà all’insegnamento islamico in base ad un ragionamento antitetico, semplice e semplicista: la feroce opposizione dell’Occidente è prova sufficiente del carattere autenticamente islamico dell’applicazione letterale degli hudûd. Alcuni se ne persuaderanno affermando che l’Occidente ha perduto da tempo i suoi referimenti morali diventando talmente permissivo che il rigore del codice penale islamico, che sanziona i comportamenti ritenuti immorali, è per antitesi, la sola vera alternativa “alla decadenza occidentale”.

Questi ragionamenti formalisti e binari sono sostanzialmente pericolosi poiché rivendicano e concedono caratteristica islamica ad una legislazione non per ciò che della giustizia promuove, protegge e applica, ma perché sanziona duramente, e visibilmente,     alcuni comportamenti in contrasto e in opposizione con le leggi occidentali vissute come moralmente permissive e prive di riferimento religioso[3].

Oggi ci troviamo di fronte delle comunità o dei popoli musulmani che talvolta s’accontentano di questa legittimazione per sostenere un governo o un partito che richiama all’applicazione della sharî’a intesa come applicazione letterale e immediata delle punizioni corporali, della lapidazione e della pena di morte.

Possiamo osservare una specie di inclinazione popolare la cui prima caratteristica è di rispondere alle diverse frustrazioni e umiliazioni con un’affermazione identitaria che si percepisce come islamica (e anti-occidentale) ma che non è fondata sulla comprensione degli obiettivi dell’insegnamento islamico (al maqasid) né su quella delle diverse interpretazioni e condizioni relative all’applicazione degli hudûd.

In presenza di questa tendenza, molti ulamâ’ rimangono prudenti per paura di perdere credibilità presso le masse. Si può notare infatti una particolare pressione psicologica sull’elaborazione giuridica degli  ulamâ’ che dovrebbero essere indipendenti al fine di educare i popoli e proporre delle alternative. E’ invece il fenomeno inverso che ricorre oggi: la maggioranza degli ulamâ’ teme di confutare le rivendicazioni popolari talvolta sempliciste, incolte, istintive e binarie per paura di perdere la loro propria posizione ed essere considerati troppo compromessi, non abbastanza rigorosi, troppo occidentalizzati, non abbastanza islamici.

Gli ulamâ’, che dovrebbero essere i garanti della lettura approfondita dei testi, della fedeltà agli obiettivi di giustizia e di eguaglianza e di un’analisi critica delle condizioni e dei contesti sociali, si vedono trascinati, da un’infautazione popolare poco cosciente e perfino cieca, ad accettare sia il formalismo (applicazione immediata non contestualizzata), che il ragionamento binario (meno Occidente è maggior islam), nascondendosi infine dietro formule che li proteggono senza arrecare soluzioni alle ingiustizie quotidiane che subiscono le donne e i poveri .

Uno statu quo impossibile: la nostra responsabilità

Il mondo islamico attraversa una profonda crisi le cui cause e aspetti sono vari e a volte contradditori. I sistemi politici del mondo arabo sono nella maggior parte dei casi cristallizzati, il riferimento all’islam è quasi sempre strumentalizzato e le opinioni pubbliche sono imbavagliate o ciecamente fanatizzate (al punto di aderire, o addirittura rivendicare l’applicazione più repressiva possibile e meno giusta della “ sharî’a islamica” e degli hudûd.

Nel campo più ristretto della questione religiosa, notiamo una crisi d’autorità che s’accompagna ad un’ assenza di dibattito interno tra gli ulamâ’ delle diverse scuole giuridiche (e di pensiero) e nel seno delle società e delle comunità musulmane. Il risultato è una divergenza d’opinioni che, pur accettata nell’islam, si volge in generale disordine facendo coesistere i pareri giuridici islamici più lontani e più contradditori ognuno dei quali rivendica la sua “natura islamica” ad esclusione degli altri. In presenza di questo caos giuridico, i popoli e i musulmani individualmente, finiscono per essere spinti più da “impressioni di fedeltà” che da opinioni fondate sul sapere e sulla comprensione dei principi e delle regole islamiche (ahkâm).

Bisogna guardare la realtà in faccia. La molteplice crisi dei sistemi politici chiusi e repressivi, dell’autorità religiosa disgregata e dalle contradditorie esigenze e dei popoli poco istruiti e travolti da una fedeltà agli insegnamenti più passionale che ragionata, non può legittimare il nostro silenzio imbarazzato, complice e colpevole quando delle donne e degli uomini sono puniti, lapidati o giustiziati in nome di un’applicazione formalista e strumentalizzata delle fonti dottrinali dell’islam.

Tutto ciò interroga la responsabilità di ogni musulmano del mondo. Spetta a loro raccogliere la sfida della fedeltà al messaggio dell’islam nell’epoca attuale; tocca a loro denunciare le mancanze e i tradimenti ovunque si consumino e da chiunque perpetrati, individuo o autorità. Una tradizione profetica recita: “Aiuta tuo fratello sia che sia ingiusto o sia vittima di un’ingiustizia”, uno dei Compagni chiese: “Inviato di Dio, capisco di dover aiutare chi sia vittima di un’ingiustizia, ma come potrei mai aiutare un ingiusto?” Il Profeta (pbsl) rispose: “Impediscigli di essere ingiusto, è così che lo aiuterai”. [4]

Questa è la responsabilità che ogni âlim (sapiente), di ogni coscienza, di ogni donna e ogni uomo, ovunque si trovi. I musulmani d’occidente talvolta si nascondono dietro l’argomento che l’applicazione della sharî’a o degli hudûd non li riguarda poiché non vi sono obbligati “in condizione di minoranza”[5].

Mantengono quindi a quel proposito un silenzio imbarazzato e pesante. Oppure esprimono una condanna a distanza senza cercare di far evolvere le cose e le mentalità. Ebbene, queste musulmane e questi musulmani, che vivono in spazi di libertà politica, che hanno la possibilità di accedere all’istruzione e al sapere, hanno – in nome stesso degli insegnamenti islamici- una responsabilità ancor più grande riguardo al tentativo di riformare la situazione, aprire un dibattito di fondo, condannare e far cessare le ingiustizie perpetrate in loro nome.

Un appello, degli interrogativi

Tenendo conto di tutte queste considerazioni, oggi lanciamo un appello internazionale ad una moratoria immediata delle punizioni corporali, la lapidazione e la pena di morte in tutti i paesi a maggioranza musulmana.

Considerando che i pareri dei sapienti non sono né espliciti né unanimi (senza neppure una maggioranza evidente) relativamente alla comprensione dei testi e all’applicazione degli hudûd e che inoltre i sistemi politici e le condizioni delle società a maggioranza musulmana non garantiscono un trattamento giusto ed egualitario degli individui davanti alla legge, è nostra responsabilità morale e religiosa che si metta immediatamente fine all’applicazione degli hudûd  che sono falsamente assimilati alla “sharî’a islamica”.

Questo appello è rafforzato da una serie di domande fondamentali rivolte all’insieme delle autorità religiose islamiche del mondo, qualunque sia la loro tradizione (sunnita o sciita), la loro scuola giuridica ((hanâfî, mâlikî, ja’farî, etc.) o la loro corrente di pensiero (letteralista, salafî`, riformista, etc.) :

Quali sono i testi (e quali sono i loro rispettivi gradi di autenticità riconosciuta), che costituiscono riferimenti per le punizioni corporali, la lapidazione e la pena di morte nel corpus delle fonti dottrinali islamiche limitatamente a quel che gli specialisti chiamano hudûd ? Quali sono i margini d’interpretazione possibili e in merito a cosa c’è stata divergenza (al-ikhtilâf)  nella storia del diritto islamico e fino ad oggi?

Quali sono le condizioni (shurût) stabilite per ognuna delle pene dalle stesse fonti, dal consenso dei sapienti (al-ijmâ’ ) o da singoli sapienti nel corso della storia del diritto e della giurisprudenza islamica (fiqh)? Quali sono state le divergenze in merito al consolidamento delle condizioni e quale tipo di “circostanze attenuanti” sono state considerate da una qualche autorità religiosa nel corso della storia o nella specificità delle diverse scuole di diritto?

Il contesto socio-politico (al-wâqi’) è sempre stato considerato dagli ulamâ’ una delle condizioni per l’applicazione degli hudûd ma la sua importanza è tale che questo aspetto esige una particolare attenzione ( e la partecipazione degli intellettuali al dibattito, in particolare quelli che si sono specializzati nelle scienze umane). In che contesto è oggi possibile pensare di applicare gli hudûd ? Quali dovrebbero essere le condizioni richieste in merito al sistema politico e al rispetto della legislazione generale: libertà d’espressione, eguaglianza di fronte alla legge, istruzione diffusa, livello di povertà e di esclusione sociale, ecc.? Quali sono in quest’ambito i punti di divergenza tra le scuole giuridiche e gli ulamâ’  e su cosa si basano tali disaccordi?

Lo studio di questi interrogativi deve essere in grado di esplicitare i termini del dibattito per quel che riguarda l’ampiezza interpretativa offerta dai testi e, al contempo una piena assunzione dello stato delle società contemporanee e della loro evoluzione. Questa riflessione intracomunitaria esige una doppia intelligenza dei testi e dei contesti con la preoccupazione di fedeltà agli obiettivi del messaggio dell’islam: in definitiva, ci deve permettere di dare una risposta in merito a quello che è applicabile (e con quali modalità) e ciò che non lo è più (tenendo conto dell’impossibilità di riunire le condizioni richieste e dell’evoluzione delle società che s’allontanano irrimediabilmente dall’ideale previsto).

Questo approccio dall’interno, esige rigore, tempo e la costituzione di spazi di dialogo e di dibattito nazionali e internazionali tra gli ulamâ’, gli intellettuali musulmani e all’interno delle comunità islamiche poiché non si tratta solo di rapportarsi ai testi ma anche ai contesti. In questo lasso di tempo non può essere possibile applicare delle pene che non farebbero che reiterare approssimazioni legali e ingiustizie come già avviene oggi.[6]

S’impone quindi una  moratoria per permettere un dibattito dalle fondamenta, che si sviluppi nella serenità e senza mai offrire pretesti alla strumentalizzazione dell’islam.

Bisogna che tutte le ingiustizie legalizzate fatte in nome dell’Islam cessino immediatamente.

Tra la lettera e gli obbiettivi : la fedeltà

Alcuni intendono e intenderanno questo appello come un invito a non rispettare le fonti dottrinali dell’islam. Secondo costoro chiedere un moratoria sarebbe andare contro i testi espliciti del Corano e della Sunna. Si tratta invece esattamente del contrario: tutti i testi che si riferiscono al diritto devono essere letti in funzione delle finalità che li informano (al-maqâsid). Infatti, tra le finalità essenziali e più importanti, si trova la protezione dell’integrità della persona (an-nafs) e la promozione della giustizia (al-‘adl). Ebbene, l’ applicazione letterale degli hudûd, senza contestualizzazione e senza il rispetto delle rigorose e molteplici  condizioni richieste, anche se apparisse formalmente fedele agli insegnamenti dell’islam, potrebbe essere, in realtà, un tradimento e produrre, intalune circostanze, una specifica ingiustizia.

Il califfo ‘Umar ibn al-Khattab non decretò forse una moratoria quando, in un periodo di carestia, decise di sospendere l’applicazione della pena prevista per i ladri?

Il testo coranico è certamente esplicito a riguardo, ma le condizioni della società avrebbero reso ingiusta la sua applicazione letterale: si sarebbero puniti i poveri il cui furto avrebbe avuto il solo obiettivo di tentare di sopravvivere in una situazione di povertà assoluta.

In nome della finalità di giustizia del messaggio globale dell’islam Umar ibn al-Khattab decise di sospendere l’applicazione di un testo: la fedeltà alla lettera avrebbe significato l’infedeltà e il tradimento di quel valore supremo dell’islam che è la giustizia. E’ in nome dell’islam e con la migliore intelligenza dei testi che sospese l’applicazione di uno di questi testi. La moratoria trova in quest’episodio un precedente storico di primaria importanza.

La riflessione e le necessarie riforme nelle società in maggioranza musulmana non potranno che venire dall’interno. Compete alle musulmane e ai musulmani assumersi le loro responsabilità e dare impulso ad un movimento che apra un dibattito e un dialogo intracomunitario rifiutando al contempo che delle ingiustizie continuino ad essere legalizzate e applicate in nome dell’islam, cioè in loro nome.

Una dinamica endogena è imperativa.

Questo non significa che le questioni poste dagli intellettuali o da persone non musulmane debbano essere sottovalutate, al contrario. Tutte le parti devono imparare a decentrarsi e a mettersi all’ascolto dell’altro, dei suoi riferimenti, della sua logica, delle sue speranze. Per i musulmani tutte le domande sono benvenute, sia da parte dei loro correligionari sia dalle donne e dagli uomini che non condividono le loro convinzioni: sta poi a loro farne il fermento e il dinamismo del loro pensiero che, dall’interno, avrà la capacità di esprimere quanto di meglio in merito alla fedeltà e all’esigenza di giustizia dell’islam nel quadro delle esigenze proprie all’epoca attuale.

In conclusione

Questo appello alla moratoria immediata delle punizioni corporali, della lapidazione e della pena di morte è per molte ragioni dovuto. Ci appelliamo alla presa di coscienza di ognuno affinché ci si senta coinvolti dalla strumentalizzazione che viene fatta dell’islam e dal trattamento degradante al quale sono sottoposti donne e uomini in alcune società a maggioranza musulmana, e in un silenzio complice e un generale disordine riguardo ai pareri giuridici su questa materia. Questa presa di coscienza implica:

Una mobilitazione dei musulmani nel mondo che chieda ai governi di decretare una moratoria immediata sull’applicazione degli hudûd e l’avvio di un vasto dibattito intracomunitario (critico, ragionevole e argomentato) tra gli ulamâ’, gli intellettuali, i leaders e le popolazioni.

-  L’interpellanza degli ulamâ’ affinché osino infine denunciare le ingiustizie e le strumentalizzazioni dell’islam in merito agli hudûd e che lancino, in nome degli stessi testi dell’islam un appello a una moratoria immediata seguendo l’esempio di ‘Umar ibn al-Khattab.

-  Promuovere l’educazione delle popolazioni musulmane affinché vadano oltre i miraggi del formalismo e delle apparenze. L’applicazione di misure repressive e di castighi non rende una società più fedele agli insegnamenti islamici: è invece la sua capacità di sviluppare la giustizia sociale e la protezione dell’integrità di ogni individuo, donna o uomo, povero o ricco, che determina la sua vera fedeltà. Nell’islam la norma è risiede nei diritti che si promuovono e non nelle pene che s’infliggono (le quali non possono essere che eccezioni fortemente condizionate).

-  Questo movimento di riforma dall’interno, dai musulmani stessi e in nome del messaggio e dei testi di riferimento dell’islam, non dovrebbe mai sottrarsi all’ascolto del mondo circostante e alle domande che l’islam suscita negli spiriti dei non musulmani: non per appiattirsi sulle risposte “dell’altro” o “dell’Occidente”, ma per cercare, in questo specchio, di restare meglio e più costruttivamente fedele a se stesso.

Noi invitiamo tutti coloro che aderiscono ai termini di questo appello ad unirsi a noi e a far sentire la loro voce, affinché cessi immediatamente l’applicazione degli hudûd nel mondo musulmano e che s’instauri un dibattito di fondo sulla questione. E’ in nome dell’islam, dei suoi testi e del suo messaggio di giustizia che non possiamo più accettare che delle donne e degli uomini subiscano punizioni e la morte in un silenzio imbarazzato, complice e in definitiva vile.

E’ urgente che le musulmane e i musulmani del mondo rifiutino le legittimazioni formaliste degli insegnamenti della loro religione e si riconcilino con la profondità di un messaggio che invita alla spiritualità ed esige l’istruzione, la giustizia e il rispetto del pluralismo. Le società non si riformeranno grazie a misure repressive e castighi ma con l’impegno di ognuno a stabilire lo Stato di diritto, la società civile, il rispetto della volontà popolare e una legislazione giusta che garantisca davanti alla legge l’eguaglianza delle donne e degli uomini, dei poveri e dei ricchi.

E’ urgente dare impulso a un movimento di democratizzazione che faccia trasmigrare le popolazioni dall’ossessione di quello che legge sanziona alla rivendicazione di quello che dovrebbe proteggere: la loro coscienza, la loro integrità, la loro libertà e i loro diritti. L’islam ci invita ad essere fedeli nella coscienza, non nella prigione.

(traduzione italiana a cura del collettivo redazionale di www.islam-online.it)

[1] Termine che letteralmente significa « i limiti ». Nel linguaggio specifico dei giuristi musulmani (fuqahâ’), rimanda all’insieme delle pene relative all’applicazione del codice penale islamico.
[2] Tradizioni profetiche : testi che riferiscono quello che il Profeta Muhammad ha detto, fatto o approvato nella sua vita.
[3] Nei paesi musulmani stessi, le leggi che si percepiscono come “copiate dall’Occidente” sono spesso interpretate come strumenti utilizzati dai governi dittatoriali per ingannare e oggettivamente legittimare il loro carattere autocratico e l’occidentalizzazione culturale e morale della società.
[4] Hadîth riferito da al-Bukhârî et Muslim.
[5] L’argomento è debole e pericoloso poiché giustifica implicitamente l’applicazione degli hudûd  nell’attuale contesto delle società “in terra d’islam”.
[6] I nostri dubbi, in ogni circostanza, devono essere a favore dell’accusato in base ad una regola del diritto universale (in base alle fonti dottrinali, costitutiva fin dall’origine, della tradizione giuridica islamica).

 



Luned́ 06 Settembre,2010 Ore: 14:45
 
 
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