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www.ildialogo.org “Non banalizziamo il male”,di Sarah Franzosini

L'opinione
“Non banalizziamo il male”

di Sarah Franzosini

Intervista ad Adel Jabbar, sociologo iracheno e trentino d’adozione, sulle semplificazioni legate al terrorismo e sull’identificazione "a metà" con le vittime dell'Is.


Riprendiamo questa intervista, su segnalazione dell'amico Adel Jabbar, dal sito salto.bz
  18.11.2015
salto.bz: Jabbar, guardando agli attentati di Parigi e alle ultime notizie arrivate da Hannover dove ieri sera è stato evacuato lo stadioper un allarme bomba, sembrerebbe confermarsi la tesi che il terrorismo abbia preso di mira la musica, lo sport, la quotidianità, insomma. La domanda più urgente è: come si reagisce?
Adel Jabbar: È una domanda difficile, ciò che caratterizza oggi la vita di molte popolazioni del mondo è la violenza e le sue conseguenze: il dolore, la paura, l’odio, la morte. Come giustamente affermato da Papa Francesco siamo di fronte a una terza guerra mondiale che è diversa da tutte quelle che si sono susseguite finora. In questo tipo di conflitto non ci sono trincee, non ci sono eserciti o le classiche strategie militari, ma c’è l’intenzione di diffondere questo terrore fra i civili e colpire quindi la loro quotidianità. E a livello mondiale bisognerebbe prendere coscienza di tale evidenza, tenendo conto inoltre che sono morti ortodossi, cristiani, musulmani in seguito agli ultimi atti terroristici nel mondo, da Beirut, alla Turchia, alla Siria. Questo terrorismo non guarda in faccia alcuna religione, confessione, o gruppo linguistico .
Proprio qualche giorno prima dei fatti di Parigi, per l'appunto, l’Is ha colpito Beirut provocando oltre 40 morti e più di 200 feriti, attentato - e non l'unico del resto - oscurato da quelli accaduti nella capitale francese, alcuni morti “pesano” più di altri o forse è più facile identificarsi con un parigino piuttosto che con un libanese che attraversa tuttavia lo stesso dolore?
È in parte comprensibile provare maggiore empatia con quello che accade più vicino a noi, in termini di distanza. Si riconoscono delle similitudini con i modelli di vita e di conseguenza c’è un sentire che si forma dentro uno specifico habitat culturale. 
L’identificazione ma, va da sé, anche la paura, sono direttamente proporzionali alla vicinanza materiale con il luogo in cui si verificano certi eventi, la cellula terroristica scoperta in Alto Adige ne è un esempio con i suoi jihadisti della porta accanto.
Accadono eventi che possono far sentire le persone più vulnerabili ed esposte. Obiettivo del terrorismo è del resto proprio quello di diffondere più panico possibile.
Cosa cambierà per la comunità islamica? 
Le preoccupazioni e l'angoscia abitano oggi nell’animo di ogni persona e per motivazioni diverse. I musulmani vengono presi di mira dimenticando che molti di loro fuggono dai loro paesi d’origine per motivi di guerra, repressione, dispotismo rischiando la propria vita attraversando mari, monti, deserti per approdare in un luogo dove ritrovare una dignità. Queste persone sono, paradossalmente, le vittime più fragili dal punto di vista sociologico e materiale e una volta giunte in luoghi sicuri si trovano a confrontarsi con delle situazioni di cui spesso non sono né responsabili né complici ma di cui devono giustificarsi continuamente. A quel punto questi cosiddetti luoghi più sicuri rischiano di fatto di diventare dei miraggi.
Adel Jabbar (foto: peacebz.wordpress.com)
Nella strage di Parigi sono stati colpiti molti giovani, cosa vuol dire?
Potrebbe trattarsi del tentativo di colpire una fascia giovanile che si identifica con determinati modelli, aggregarsi intorno a un tavolo in un bar, uomini e donne insieme; modelli che evidentemente, per alcune frange fanatiche, possono essere considerati fuorvianti e “indecenti”. L’attentato è avvenuto del resto di venerdì in uno dei luoghi di ritrovo del fine settimana frequentato fondamentalmente da giovani.
Il premio nobel per la pace Shirin Ebadi ha detto che “il terrorismo si combatte aprendo il dialogo con i giovani musulmani”, condivide questa tesi?
Su certi temi sono piuttosto cauto, la maggior parte dei giovani musulmani francesi, ad esempio, non conosce nemmeno la lingua araba e inoltre gli autori degli attentati, stando ai loro profili sociologici, hanno notoriamente poca familiarità e poca consuetudine con la vita religiosa. Riferendosi perciò alle categorie religiose come unica causa del problema si rischia di banalizzare e semplificare la questione, credo sia utile piuttosto andare a sviscerare tutta una serie di motivazioni, concause, finalità. Non possiedo al momento tutti gli strumenti necessari per indagare la miriade di ragioni che stanno dietro a certe dinamiche o individuarne gli attori, credo perciò che sia un dovere e una responsabilità comune quella di condurre un’analisi che prenda in considerazione diversi elementi attraverso un ragionamento che sia all’altezza della complessità del problema.
Molte persone hanno affidato alla rete i loro messaggi di accusa o solidarietà dopo quanto successo a Parigi, come inquadra il ruolo dei social network in relazione ad eventi del genere?
I social network incrementano lo spazio di comunicazione, servono da vetrina per le opinioni che in questo modo hanno maggiore visibilità, ma non incidono sulla sostanza degli atteggiamenti della società che restano gli stessi anche fuori del perimetro del web.
Lei è sociologo e docente, cosa le hanno chiesto i suoi studenti nei giorni successivi ai fatti di Parigi?
C’è indubbiamente una preoccupazione diffusa, ma curioso è quello che mi è successo a Roma il giorno dopo l’attentato nella capitale francese. Sono uscito dall’albergo dove ero ospite per andare a prendere il treno e ho visto in un’edicola un titolo di giornale: “Roma si blinda”, ma cos'è che si blinda? Gli autobus, le metro, i luoghi strategici? Ho camminato per un paio di chilometri attraversando il centro storico e non ho visto nemmeno una pattuglia delle forze dell’ordine. Le persone affollavano le strade come in un giorno qualunque, poi sicuramente ognuno di noi avrà riflettuto ed elaborato dentro di sé quello che è successo ma, ecco, rispetto al linguaggio dei social network e dei media, sembrava che intorno prevalesse piuttosto il naturale procedere della quotidianità, non so se per fatalismo o saggezza.
Sta dicendo che stiamo sottovalutando la questione?
Credo che la gente faccia bene a non lasciarsi condizionare dalla paura, perché questa la risposta migliore. La quotidianità, in secondo luogo, ci impone di proseguire con le nostre esistenze; la vita non si ferma e ci permette di resistere, insieme, al panico, all’odio e al terrore. 



Venerdì 20 Novembre,2015 Ore: 18:47
 
 
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