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www.ildialogo.org INTERVENTO MILITARE FRANCESE IN MALI. PER FERMARE I TERRORISTI. MA NON SOLO,da Agenzia Adista Notizie n. 3 del 26/01/2013

INTERVENTO MILITARE FRANCESE IN MALI. PER FERMARE I TERRORISTI. MA NON SOLO

da Agenzia Adista Notizie n. 3 del 26/01/2013

UN MISSIONARIO COMMENTA LA CRISI IN MALI


37012. BAMAKO-ADISTA. Alla fine, l’intervento armato è arrivato anche per i Mali, da oltre un anno sotto scacco per la presenza di milizie islamiche che, dopo aver trasformato i due terzi a Nord del Paese (l’Azawad, nome attribuito alla regione dopo la dichiarazione d’indipendenza dei ribelli, il 17 gennaio 2012) in una roccaforte del potere jihadista legato alla galassia di Al Quaeda, si sono spinti fino a minacciare concretamente le regioni intorno alla capitale Bamako. Protagonisti dei disordini, il Movimento Nazionale per la Liberazione dell’Azawad, nato nel 2011 da tuareg maliani, ex militari regolari, che lottano per l’indipendenza dell’Azawad; Al Quaeda nel Maghreb Islamico, di origine e leadership algerina, nata dal riconoscimento del Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento nel 2007, ad opera della multinazionale del terrore Al Qaeda; i “difensori della fede” del gruppo Ansar Dine, gruppo integralista formato da tuareg nel 2012, il cui obiettivo è l’imposizione della sharia in Africa occidentale; infine, il Movimento per l’Unità e la Jihad in Africa Occidentale, formazione criminale comparsa nel 2011 e impegnata principalmente in attentati e rapimenti. Gruppi diversi che hanno raggiunto l’accordo per espandersi oltre la zona desertica, negli ultimi vent’anni crocevia dei traffici illeciti che alimentano la jihad maghrebina. Proprio lo sfondamento delle linee difensive dell’esercito maliano a Konna – città situata al confine tra l’Azawad e il resto del Paese ancora in mano al governo – avrebbe innescato la reazione militare francese, invocata dal presidente maliano Dioncounda Traoré (nominato dalla giunta militare, dopo un golpe, il 12 aprile 2012) che ha peraltro bruciato sul tempo l’intervento di un contingente africano su mandato della Cedeao (Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale).

L’operazione francese Serval – la ex potenza coloniale ha scelto un nome quantomeno curioso, visto che il servalo è un felino selvatico africano che urina circa 30 volte l’ora per marcare il territorio – è stata lanciata lo scorso 12 gennaio proprio con l’obiettivo di arrestare l’avanzata dei fondamentalisti nell’Africa occidentale, frontiera degli interessi islamici in seguito al destabilizzato equilibrio geostrategico dopo le primavere arabe dell’anno scorso e, soprattutto, dopo la caduta di Gheddafi in Libia.

L’intervento francese, sebbene condotto in via unilaterale, ha incassato il sostegno di molti, nell’Unione Africana e nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che ha avallato l’operazione a giochi fatti, ma anche di Paesi più marginali, come Russia e Cina, e Paesi africani inizialmente contrari come l’Algeria. Lo ha riconosciuto anche Romano Prodi (inviato speciale delle Nazioni Unite per il Sahel), in visita a Bamako proprio nei giorni del primo attacco francese: «Devo ammettere – ha riferito lo scorso 13 gennaio a La Stampa – di non aver mai visto una coesione internazionale come quella che distingue in queste ore il sostegno all’intervento militare in Mali. Il motivo sta nel fatto che la paura del terrorismo accomuna tutti».

“Solidarietà internazionale” che ha spinto in molti ad accogliere con favore i primi bombardamenti dei caccia francesi, e la successiva missione via terra, coadiuvata dal malconcio esercito maliano: «La popolazione maliana è notevolmente confortata dall’intervento militare francese», ha confidato all’agenzia Fides (14/1) don Edmond Dembele (Segretario della Conferenza Episcopale del Mali). «Anche le popolazioni nel nord, occupato dai ribelli, guardano con speranza alle operazioni militari, anche se sono preoccupate per i bombardamenti e non sanno quale sarà la reazione degli jihadisti prima di abbandonare le città da loro occupate».

La solita guerra d’interesse?

Ma sulle motivazioni che hanno spinto la Francia – e, a ricasco, gli alleati europei, come Italia e Germania che hanno garantito il sostegno “logistico” – in questa nuova impresa bellica in molti hanno avuto qualcosa da ridire. Anche perché ancora bruciano l’esperienza libica (v. Adista nn. 59, 60, 62/10; 17, 19, 26, 28, 37, 57, 78, 97/11 e Adista Notizie n. 14/12) e quella ivoriana (v. Adista nn. 16, 20, 23, 30, 32 e 39/11).

L'intervento francese, ha dichiarato p. Alberto Rovelli, missionario dei Padri Bianchi per vent'anni in Mali tra Gao e Kidal, «sa molto di un'ennesima ingerenza di tipo neo-colonialista. Personalmente non lo vedo molto di buon occhio. E penso che non riusciranno a sconfiggere i terroristi. Forse, però, anche noi, come Chiesa del Mali, avremmo dovuto fare molto di più in questi anni per mettere in guardia le autorità, far pressione sulle forze più moderate, denunciare le violazioni dei diritti umani e i molti traffici di cui tutti sapevano, ma pochi parlavano» (MissioOnLine, 14/1).

Ancora più duro il giudizio di Antonio Martino (dell’Ufficio Stampa dell’Azione Cattolica Italiana): «Ancora una volta un pezzo d'Europa pensa di sradicare il terrorismo con un'azione militare unilaterale. L'esperienza, purtroppo, non ha insegnato molto. E l'islam radicale ne esce ringalluzzito e più minaccioso. Mentre anziani e bambini muoiono» (www2.azionecattolica.it, 15/1). Anni di guerre, affonda Martino, non hanno ancora chiarito che non è con lo strumento militare che si «ferma la spirale del terrore». In realtà, conclude, l’intervento francese «risponde innanzitutto agli interessi della Francia che in Mali sfrutta le materie prime».

Niente di nuovo sotto il sole anche per Lorenzo Vidino (esperto di islamismo del Politecnico di Zurigo) che ha commentato i fatti del Mali in un’intervista al mensile dei gesuiti Popoli (15/1). Secondo Vidino, Parigi non ha mai dismesso totalmente i panni della potenza imperiale colonialista. E ora «non può permettersi di perdere il Mali. Sarebbe politicamente disastroso». «I motivi sono diversi. Innanzitutto perché da molti di questi Stati Parigi si rifornisce di risorse a basso prezzo (pensiamo all’uranio nigerino o al petrolio gabonese e congolese). In secondo luogo perché sono uno sbocco commerciale per l’industria francese. Infine perché molte imprese francesi hanno sede in Africa e lavorano alla costruzione di infrastrutture». Inoltre, «in Francia esiste un network legato al fondamentalismo islamico che potrebbe trovare un sostegno di carattere economico e militare nel Sahara». Infine, l’intervento militare, aggiunge Vidino, potrebbe rinsaldare il consenso in picchiata libera del presidente Hollande. (giampaolo petrucci)

MA UNA GUERRA NON RISOLVE NULLA. UN MISSIONARIO COMMENTA LA CRISI IN MALI

37013. ROMA-ADISTA. Rintracciare missionari delle Chiese cristiane in Mali è molto difficile. Secondo alcuni osservatori, la presenza dei cristiani nella regione colpita dagli scontri (l’Azawad) sarebbe stata addirittura azzerata, negli ultimi due anni, dalla presenza delle milizie jihadiste. Adista ha chiesto, a margine del conflitto che infiamma il Paese, una testimonianza e una chiave di lettura a p. Alberto “Bannu” Rovelli, dei padri bianchi, missionario per 20 anni nella zona oggi teatro di guerra. «Parlare del Mali in questo momento non è facile», ha subito chiarito p. Rovelli: «Si corre il pericolo di dire cose scontate o che saranno contraddette dai fatti. C'è una guerra, questo è sicuro e con la guerra tutti gli orrori sono possibili». (giampaolo petrucci)

Eppure raramente si è sentito parlare del Mali come di un Paese conflittuale…

Tutti coloro che hanno visitato il Mali ne sono sempre ritornati carichi di umanità, di gioia: la gente del Mali non è mai stata ricca, ma portava la sua povertà con molta dignità. Dal punto di vista della cultura africana il Mali ha “prodotto” scrittori, registi impareggiabili, che hanno contribuito a mantenere le tradizioni e ad aprire il Paese alla modernità. Da circa 20 anni, però, si percepiva nella gente molta insoddisfazione: in pochi si arricchivano sempre più e la moltitudine invece rimaneva o diventava sempre più povera. E il governo ha fatto una politica poco lungimirante: ha amministrato più che governato. Le miniere d'oro hanno dato al governo la possibilità di migliorare strade, scuole, centri sanitari; la Libia ha aiutato a costruire nuovi servizi (aiuto compensato da un affitto cinquantennale di 100mila ettari di terra). Ma quanto sia effettivamente entrato nelle casse dello Stato e quanto invece sia finito nelle mani di pochi, mai nessuno potrà verificarlo.

E su questa diseguaglianza socioeconomica, in Mali si innesta anche quella culturale e geografica...

Il Nord continuava a rimanere tagliato fuori dai grandi progetti di rilancio del Paese cui prima accennavo, e sono rimaste divisioni razziali e culturali. Intanto le regioni a nord di Timbuctu e a est di Kidal e Menaka erano diventate territorio di bande armate dedite a traffici illeciti, come droga, sigarette, armi, esseri umani (donne, uomini e anche bambini preparati come kamikaze).

Tu hai trascorso diverso tempo in Mali. Cosa hai potuto riscontrare?

Tra il 1997 e il 2002 ho vissuto a Gao. In quegli anni, il flusso di migranti provenienti dai Paesi subsahariani sfilava ininterrottamente. Bastava avere soldi per corrompere i camionisti diretti in Algeria. Alcuni migranti però non ce la facevano. La polizia li rispediva a Gao e una volta tornati ci raccontavano quello che avevano vissuto: squadroni del terrore, di difficile identificazione, li spogliavano di tutto quello che avevano. Le donne erano ridotte alla prostituzione. Conoscevo una ragazza, Awa, che tra l'Algeria e il Marocco mi ha spedito una lettera chiedendo mille dollari per continuare il suo viaggio. Che fine avrà fatto? Insomma, il Nord del Mali viveva già allora grazie alla malavita molto ben organizzata.

Si dice che due terzi del Paese già allora erano in mano alla criminalità.

Non proprio. Nelle città (a Gao, Timbuctu, Kidal, Menaka, ecc.) la vita scorreva regolare: i ragazzi andavano a scuola, gli ospedali funzionavano; le varie confessioni religiose convivevano in pace. In fondo, la maggioranza dei musulmani maliani è moderata: ho troppi amici per mettere in dubbio questa mia affermazione.

E allora come si è arrivati a questa situazione?

Nel 2000 c'è stata un'infiltrazione di non maliani che hanno iniziato a propagandare un islam radicale. Tanti amici erano spaventati, si sentivano a disagio proprio in quanto musulmani; i giovani venivano rinchiusi nelle moschee e indottrinati. Senza saperlo erano in mano a fondamentalisti venuti dal Pakistan e dall'Arabia Saudita. Anche al governo ci sono stati vari tentativi di introdurre la sharia, ma la proposta non ha mai ottenuto la maggioranza.

E poi è precipitato tutto…

La situazione attuale è stata preparata con cura e davanti al “vuoto di potere”. Soprattutto nel Nord del Paese, è stato facile per l’Al Quaeda nel Maghreb Islamico mettere insieme tutti quei gruppi che vivendo nell'illegalità vogliono sentirsi riconosciuti e assolti.

Cosa pensi dell'intervento della Francia?

Personalmente non ho mai creduto – e non inizierò certo ora a farlo – che le armi possano risolvere la situazione, neanche in Mali. Certo, davanti a gente armata e violenta che se la prende con civili indifesi, bisogna pure che le autorità facciano tutto il possibile per difendere i loro cittadini. Comunque, secondo me, le cattive idee si combattono meglio diffondendo “buone idee”. Il fondamentalismo islamico è un’ideologia fuori dalla storia e farà ancora danni peggiori se nessun capo o leader musulmano la sconfesserà.

Hai già una proposta?

Sarebbe bello riunire tutti gli imam moderati del Mali, e anche fuori del Mali, perché sconfessino le ideologie sostenute dai fondamentalisti religiosi. La loro gente li seguirebbe senz’altro. Dobbiamo cercare il modo di mettere in dubbio le convinzioni religiose di questi jihadisti, magari lanciando una campagna di controinformazione, che potrebbe aiutare tanti innocenti a vivere senza guerra.

Una curiosità: perché ti chiamano Bannu?

In Mali c'è la bella usanza di dare nome e cognome maliani a una persona che vive a lungo con loro. Bannu Benoit era un maestro che ho conosciuto a Diré, a 100 km a Sud di Timbuctu, era direttore di una scuola del governo e quando andavo in visita della comunità cristiana di Diré, la sua famiglia mi ospitava a casa sua. (g.p.)

Articolo tratto da
ADISTA
La redazione di ADISTA si trova in via Acciaioli n.7 - 00186 Roma Telefono +39 06 686.86.92 +39 06 688.019.24 Fax +39 06 686.58.98 E-mail info@adista.it Sito www.adista.it



Sabato 26 Gennaio,2013 Ore: 17:28
 
 
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