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www.ildialogo.org TRIPOLI, RAMADAN DI BOMBE (RICORDO DI UN AGOSTO 2011),di Marinella Correggia

TRIPOLI, RAMADAN DI BOMBE (RICORDO DI UN AGOSTO 2011)

di Marinella Correggia

Un piatto di datteri sul marciapiede dell’incrocio “Biffi”, nel pluribombardato quartiere Tajura. Un’offerta votiva lasciata lì all’alba in quel giorno di ramadan, il mese sacro di digiuno diurno, dall’alba al tramonto. Nel 2011 era iniziato il primo agosto. Intorno a quel piatto gentile, Tripoli pareva in quei giorni una città del futuro: quasi nessuna auto per le larghe strade, solo pulmini collettivi chiamati Ifico (Iveco), qualche taxi, passanti a piedi, qualche ciclista (migrante). Un futuro post-fossile e dunque forse senza più guerre; almeno non quelle per il controllo degli idrocarburi e dei loro corridoi disumanitari. Un futuro ecopax.

Assedio

Macché. Tripoli nell’agosto 2011 – pochi giorni prima della sua presa manu militari - è una città del bellicoso presente, silenziosamente stralunata. Di notte la rintronano le bombe Nato (qualcuno invano ha pur chiesto di interrompere questi regali dal cielo, poco adatti a un mese di digiuno, preghiera e pace). Di giorno è sotto assedio economico. Potrebbe essere presa per fame di petrolio: il che, in un contesto dove gli idrocarburi fanno marciare tutto, può significare fame tout court.

E’ una penuria energetica da guerra.

Il blocco navale si aggiunge ai sabotaggi alle condutture, ai bombardamenti a installazioni energetiche (come a Rwaisa) e perfino ad atti di pirateria marittima. Il paese non ha capacità di raffinazione sufficienti e l’embargo navale sulle armi è un’occasione per rendere più difficile l’arrivo anche delle merci diverse dalle armi, come gli idrocarburi. Il viceministro degli Esteri Khaled Khaim ha denunciato atti di pirateria internazionale: “Una nave algerina carica di benzina raffinata – quasi 40.000 tonnellate - stava arrivando a Tripoli ma è stata assaltata da forze speciali inglesi e francesi e obbligata ad arrivare invece a Bengasi. Il governo inglese ha riconosciuto all’International Maritime Organization che l’atto non andava fatto. Ma finisce tutto lì”.

Del resto gli antigovernativi, appoggiati dalla Nato, hanno sabotato condutture di gas e petrolio che attraverso la zona delle montagne Nafusa arrivavano alla raffineria di Zawya, unica rimasta attiva nel paese.

Ecco il perché dell’assenza di traffico. Le tante automobili sono ferme ai distributori di benzina e diesel, che i proprietari lasciano in fila per giorni in lunghe attese, dandosi il turno. Il prezzo, poi: prima la benzina costava 250 centesimi di dinaro (12 cent di euro circa) al litro, adesso certi giorni costa 4 dinari, due euro. Succedeva anche nell’altrettanto petrolifero Iraq. Poco male che non circolino auto: ma è la causa a preoccupare.

Tripoli è anche sovente sotto black out, con gran danno per quella parte della popolazione che non può comprarsi un costoso generatore domestico che comunque andrebbe alimentato ma manca il combustibile. Così vanno a male i frigoriferi pieni del cibo immagazzinato per la rottura notturna del digiuno.

La tivù alimenta l’orgoglio delle persone indicando la bicicletta e i piedi come vanto, ma pochi sono convinti, e poi il prezzo delle due ruote a pedali è salito alle stelle.

All’unica passeggera straniera sull’Ifico da Tajura verso il centro della città, le persone chiedono la nazionalità. All’imbarazzata risposta con richiesta di scuse alcuni tacciono, altri scuotono la testa: “Italia, Natu, Natu” (Nato detta dagli arabi). Ma un giorno una signora del Ghana, un’altra volta una signora di Tripoli, vogliono pagare il biglietto (peraltro molto economico). Il ramadan impone un senso dell’ospitalità ancora maggiore.

Ad esempio Nadia e Walid sprecano un po’ del prezioso diesel per far fare un giro più lungo al loro camioncino, così da accompagnare, sostituendo l’Ifico latitante in quel venerdì, la straniera – anche se non capiscono bene cosa stia a fare lì. Parlano dei prezzi più che delle bombe. Il pane è l’unico alimento (qui si dice “mangiaria”, una delle reminiscenze della colonizzazione italiana) il cui prezzo non è cresciuto, venti pezzi per un dinaro. Ma allora perché quella coda per il pane? In poche parole in arabo Nadia spiega che sono partiti gli egiziani che facevano i panettieri; Al Jazeera li ha spaventati troppo. Nadia indica i cumuli di rifiuti per strada, non raccolti: erano gli africani a raccogliere i rifiuti. Anche l’Italia si fermerebbe senza il lavoro dei migranti. Tanti sono partiti, poi c’è il ramadan, poi c’è la guerra…

Le foto sul tappeto

Di giorno non mangia né beve nessuno. Malgrado il caldo dopo un po’ ci si abitua, tutti si passano la lingua sulle labbra contando le ore che separano dal tramonto e dall’acqua, e la rinuncia affratella (è del resto uno degli scopi del ramadan: rendere uguali i disuguali, almeno per un po’).

Ma per via del ramadan non c’è nemmeno un tè alla menta a consolarci durante l’incontro con i superstiti della famiglia Al Garari. Il sordo suono degli aerei anche di giorno ricorda continuamente ai superstiti, nel quartiere Suq El Juma, zona Arrada, il bombardamento nella notte del 19 giugno. Un quartiere senza nulla di militare, una casa tre piani in una strada tranquilla verde. Fra le macerie si son trovati i corpi di sei persone fra i quali una donna, una bambina e un bambino. Un altro morto, non identificato (forse un egiziano) passava in strada nel momento sbagliato.

Adesso i superstiti Al Garari vivono in un appartamento ampio e vuoto fornito dal governo. Il loro massacro è stato finora l’unico “errore” riconosciuto dalla stessa Nato. La strage di 15 persone fra cui 3 bambini della famiglia al Kweidi al Hamedi a Sorman è stata invece giustificata con il fatto che si trattava di “obiettivo militare”, un “comando di alto livello”. Lutfia Laabeshi ha sposato Salem Al Garari, fratello di uno dei morti, 13 anni fa e ha quattro bambini, uno dei quali è rimasto ferito. Precisa che nessuno della famiglia lavora nell’esercito. Sarebbe da spiegarle che anche se così non fosse, la Nato commetterebbe un crimine di guerra a bombardare una casa civile. La vedova di Ali Al Garari si chiama Fatma. Dice che nell’area non c’erano nemmeno uffici governativi (e potremmo ripeterle quanto sopra). Allarga sul grigio del tappeto le foto delle vittime (vedi foto) e e i loro certificati di morte. Il marito. Il figlio Fresh, la cui moglie è incinta. La figlia Karima con il marito di origine siriana Abdalla e i loro due bambini, Khaled di 2 anni e Jumana di 7 mesi. Amer, un altro figlio di Fatma, è rimasto in coma per un po’. Come i vicini, la famiglia Sudani che non ha avuto morti ma ha avuto la casa lesionata e un bambino, Ghaffan, ferito, e come il vicino Jumaa Hussein, casa crepata, tutti chiedono “when insanya?”: “dov’è l’umanità?”…le stesse parole degli iracheni al tempo delle bombe di Bush e del precedente embargo.

Sì, sono tutti disponibili a fare causa alla Nato, se qualche avvocato se ne incarica, ma che sia straniero, i libici non bastano…(NB. A distanza di un anno, l’unica causa avviata è stata per la famiglia al Kweidi di Sorman. Passata la guerra, non punito il diavolo. Succede sempre così.

All’ospedale Tmc ecco la nonna sopravvissuta a un altro massacro per via aerea, avvenuto a Zliten in luglio (molti di più ne saranno uccisi l’8 agosto). Fatma Omar Mansour è ferita non gravemente (“solo” alcune dita amputate) ma non sa che i suoi nipotini Mustafa Murabat Nagi e Mohamed Moatas Nagi sono morti con la loro madre Ibtisam. Dice che sapevano che l’area sarebbe stata colpita e che si erano trasferiti. Poi non era successo nulla ed erano tornati. Due giorni dopo, il missile ha colpito, alle 6 di mattina. Lei, rimasta parzialmente sepolta, è stata tirata fuori dal figlio Ayman che l’ha portata fuori prima del successivo attacco. Nota bene: Rolando Segura di Telesur dice poi che alcuni dei giornalisti occidentali (e arabi) portati sul posto a vedere i corpi prima del funerale, facendo la corrispondenza hanno detto: “Il governo dice che è stato un attacco della Nato”.

Rompere il digiuno con la piccola Noor, sfollata (vedi foto)

Il 4 agosto la rottura serale del digiuno è speciale. E’ con la piccola Noor e la sua famiglia. Sfollati da Tobruk. Dall’Est e dalle montagne Nafusa, zone in mano ai ribelli, decine di migliaia di persone si sono via via rifugiate in Egitto, altre a Tripoli o dintorni, presso parenti o in strutture messe a disposizione dal governo.

Circa cinquecento persone sono alloggiate a Sish Sahia, qualche decina di chilometri da Tripoli, in un gruppo di container dove prima abitavano lavoratori di una ditta cinese, rimpatriati all’inizio della crisi. Sono cinquecento persone. Bambini, una minibandiera verde illuminata da un fiammifero per una telecamera inglese che però bada a riprendere solo la foto di Gheddafi retta da un’anziana, prova del nove di inattendibilità! E’ sera, l’ora dell’iftar, la rottura del digiuno. Una bambina riccia color caffelatte, di forse tre anni, si avvicina con il fratello. Prenderla per mano è la cosa più naturale. La colpa di Noor e dei sui cinque fratelli è di avere un padre che era poliziotto a Tobruk, da tempo conquistata dai ribelli. Nella stanza che occupano è pronto il cibo, sul tappeto per terra. E’ l’ora stabilita e gli adulti bevono acqua di rose e i bambini succhi di frutta, seguiti da datteri. Poco dopo una specie di minestra, ma ha pezzi di carne. “Ana nabatyia”, “sono vegetariana”, allora ecco le patate, le melanzane, il pane e le olive. Ibrahim spiega: “Quando la mia casa a Derna è stata attaccata siamo andati via. Almeno qui ci sentiamo al sicuro. Ma non capiamo perché la Nato ha fatto questa guerra, Avremmo potuto risolvere i problemi fra noi libici, invece…”. Non sa quanto tempo dovranno stare lì, è una vita stupida anche se i bambini vanno a scuola e il cibo non manca.

A Zanzour, villaggio turistico sul mare, in tempo di pace, ci sarebbero 1.500 famiglie da Misrata e Benghazi.. Iman è di Misurata; ma di quella parte di Misurata che non voleva i ribelli. In febbraio era a Tripoli, e tornata a Misurata ha visto i ribelli che controllavano tutto, con le armi. Erano, dice, prigionieri in casa per la paura finché l’esercito entrando nel quartiere non li ha liberati. Sono andati via con il marito e i bambini in aprile, prima a Dafnya, poi a Tripoli. Sa di dire cose scomode per i giornalisti internazionali, ma questa è la sua verità.

PS. Non ci sono più notizie di Noor. Dove sarà adesso? Alla caduta di Tripoli, nessuno ha più potuto occuparsi del cibo, dell’acqua, della sicurezza delle famiglie “non pro-ribelli” ammassate a Tripoli e Sidh Sahia. Interpellata varie volte dopo il 22 agosto, la stessa Croce Rossa internazionale non si è occupata del problema avendo altre emergenze. Chi è andato a verificare a settembre non ha trovato più nessuno, fra chi è dalla parte del torto. Nella caccia al “nemico”, mentre i nuovi padroni di Tripoli epuravano i quartieri lealisti mandando all’ospedale donne, bambini e anziani, dove sarà finita la piccola?

A cena chez Abu

Mohamed, giovane del nord del Niger, si è riciclato come autista presso una (inutile) commissione “non governativa” (certo aiutata dalle istituzioni) che dallo scorso aprile cerca invano di spiegare al mondo che la guerra alla Libia si è fondata su menzogne e inganni ed è proseguita con tragedie, e che sarebbe il caso di smetterla e negoziare. Mohamed dice: “Questa guerra è una tragedia. Se non si ferma degenererà, farà danni su danni anche nei paesi del Sahel. Per aiutare nel mio piccolo a fermarla, vorrei spiegare dal mio punto di vista di straniero questa guerra Nato contro la Libia, a partire dalle menzogne che l’hanno creata. Io ero qui agli inizi e vedendo le tivù come Al Jazeera e Al Arabyia ci hanno spaventati così tanto che per un po’ sono andato via anch’io, via Tunisia. Eppure qui non vedevo nulla dei massacri dei quali ci parlavano in tivù! Sono qui da 11 anni. Come quasi cinque milioni di stranieri in Libia. Io lavoravo con ditte cinesi: i loro 25mila operai sono stati evacuati all’inizio della crisi a opera dello stesso governo cinese. Altri stranieri, provenienti da paesi giù in crisi, non sono stati così fortunati e hanno penato a lungo. Quelli del Bangladesh per esempio sono stati a lungo nel campo sfollati di Ben Gurdan in Tunisia. Così i miei connazionali del Niger; non posso biasimare il mio paese, stavamo giù sbendo la crisi in Costa d’Avorio con molti altri rimpatri, poi i problemi interni, la povertà estrema, i postumi del colpo di stato…Perché gli stranieri sono partiti? Un po’ perché le ditte libiche o straniere per le quali lavoravano hanno chiuso i battenti. Un po’ per paura delle bombe. Un po’, nell’Est, per le violenze subite da africani accusati di essere ‘mercenari di Gheddafi’: a questo proposito vorrei dire non solo che non è vero ma che mi pare assurdo che un esercito di un paese sovrano sia chiamato ‘l’esercito di Gheddafi’ o peggio ‘i mercenari di Gheddafi’! Sono soldati, e hanno il diritto e il dovere di difendere il loro paese”. Con Mohamed andiamo a rompere il digiuno (e a bere un po’ d’acqua!) dal suo connazionale Abu. Che lavora in una villa di ricchi affittata a imprenditori adesso assenti. Addossata al cancello pesante c’è la sua stanzetta da custode. Abu cucina fuori, su un fornelletto per terra come a casa sua. Avvertito per tempo ha evitato pesce e pezzetti di carne nel brodoso misto di verdure fatto con erbe secche importate dal Niger, pomodori e cipolle libici, olio di arachidi di chissà dove. Polenta di miglio che sa un po’ di gesso. Tè troppo carico.

Seduti su un muretto basso mangiamo, tre stranieri lì, sotto queste bombe anche italiane, spada di Damocle sulla testa di tutti. Rumore sordo di aerei invisibili, poi a poche centinaia di metri si accendono fuochi che non sono artificiali ma mortali.

“Ci fanno visita ogni notte” dice Abu, “non so cosa abbiano ancora da colpire di militare. Tornerei in Niger, ma là c’è siccità e crisi alimentare, che farei?”.

PS. Dopo la fine di agosto Abu è rimasto in Libia; il clima razzista rimane fuori dalle mura alte delle case di ricchi per i quali lavora. Mohamed invece non ha voluto stare a guardare le milizie accanirsi su neri libici e subsahariani. Si è fatto rimpatriare come tanti saheliani, dall’Organizzazione mondiale delle migrazioni. Ultime notizie: ha ripreso a coltivare ad arachidi alcuni terreni, con la madre.

Marinella Correggia



Mercoledì 15 Agosto,2012 Ore: 18:33
 
 
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