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www.ildialogo.org 60° anniversario della nascita di Hugo Chávez,di Julián Isaías Rodríguez Díaz*

60° anniversario della nascita di Hugo Chávez

di Julián Isaías Rodríguez Díaz*

Il ricordo dell'ambasciatore del Venezuela a Roma. Traduzione di Alessandra Riccio


Julián Isaías Rodríguez Díaz*
Discorso pronunciato in occasione del 60° compleanno di Hugo Chávez
Ogni volta che mi riferisco a Hugo Chávez sento vicinissimo a me l’uomo che ho più ammirato negli ultimi quindici anni; l’amico, la guida, il capo.
E’ arrivato come un eletto in una Venezuela esausta. Nessuno come lui ha dato tante risposte alle legittime domande del popolo. Nessuno come lui ha espresso con l’umiltà di un maestro di scuola il suo discorso didattico, senza paroloni enfatici e senza ostentazione. Parlava senza ragionamenti complicati e tutti lo capivano.
Era nato un 28 luglio del 1954, ma ci sono persone che nascono varie volte. Lui è nato un’altra volta durante le vicende del 27 febbraio 1989 e, infine, il 4 febbraio 2002. Dopo aver pronunciato il suo eterno por ahora è rimasto sospeso nell’immaginario popolare come quelle anime che nel llano chiamano “i santi della savana”.
Finalmente qualcuno nel nostro paese si era insediato per comprendere i poveri. Per combattere per loro e farci capire che per loro non c’erano mai stati né diritti né giustizia. Addirittura senza diritti, senza un tetto e senza giustizia, curiosamente, dovevano ringraziare Dio per tutto quello che avevano.
Quando è arrivato, Hugo Chávez ha trovato un Venezuela dove la disuguaglianza era la regola e dove la gente del basso non esisteva. Nessuno ci faceva caso ed erano totalmente inesistenti per quelle che sono le “statistiche dello stato”. Erano assolutamente invisibili, come Garabombo, l’indimenticabile personaggio di Manuel Scorza.
Le proteste dei poveri non si sentivano. I loro reclami e le loro denunce per gli abusi non venivano ascoltati. L’indifferenza e la disattenzione producevano una sorprendente e strana invisibilità che come una malattia contagiava tutte le autorità dell’interno e della capitale del Venezuela.
Le autorità non vedevano gli invisibili. Non volevano vederli. E non si trattava di un fatto che potremmo definire banale poiché segnava esattamente il momento nel quale storicamente c’era bisogno di una nuova libertà. Questi fatti sono stati per quel tempo il tratto più reale e più obbiettivo del potere. Gli emarginati non esistevano. Una classe sociale che ancora li opprime dimostrava il suo dominio, proprio come ora, nascondendo le idee così come oggi viene nascosto il latte e lo zucchero.
Poco a poco il mio Comandante è riuscito a conquistare un pizzico di credibilità e un altro pizzico di fiducia. Poco a poco è cresciuto nella speranza e nelle attese degli infelici. Il paese degli umiliati non ne poteva più. Era fermamente deciso ad aspettare e a mantenere la calma. Poco a poco il Comandante si è conquistato la volontà degli oppressi. Ma prima di lui è arrivato quello che venne chiamato il caracazo.
Senza leaders né dirigenti, il popolo ha occupato le strade delle più importanti città del paese. Non hanno assalito le gioiellerie né le banche, né i negozi di abbigliamento, ma mercati, salumerie, macellerie e negozi di verdure.
Principalmente viveri e alimenti. Farina di mais, latte in polvere, carne, verdure, riso, pasta, fagioli e zucchero. Pochissimi si sono appropriati di beni materiali. E’ vero che hanno rotto vetrine ma erano soprattutto i mercati a venire depredati. La fotografia di un uomo con un quarto di bue in spalla ha fatto il giro del mondo.
L’impoverimento o la decisione di essere liberi, come saperlo! Avevano trasformato l’indignazione in azione. I fotoreporter immortalarono il Giudizio Universale in ogni strada. La risposta è stata incredibilmente sorprendente. La genti più umile, quelli senza un soldo ha incassato in questo modo quel sopruso, quell’ingiustizia e quell’umiliazione.
Quella era la loro risposta a chi li negava e negava anche la loro fame e i loro bisogni. Durante 48 ore le bande di cui parlano i grandi proprietari sono state padrone assolute di un Venezuela prospero.
Era esplosa una violenza procrastinata per affrontare quell’altra violenza che offende e umilia in silenzio; che impedisce di esistere, che annebbia e che, senza far rumore, trasforma in esseri inesistenti coloro che lavorano per gli altri o peggio ancora, coloro che non hanno avuto l’occasione di lavorare neanche una sola volta.
La paura si è diffusa nelle sfere del governo e il ministro incaricato di conservare l’ordine è svenuto. E’ caduto come morto davanti agli schermi della televisione. Il governo aveva organizzato tutto in modo che la repressione potesse essere osservata nitidamente. Fin nei minimi dettagli, ma Dio esiste e in quei circuiti dove nulla doveva restare fuori quadro, si è visto il ministro svenire e cadere lungo lungo in pieno schermo.
Poi è arrivato il coprifuoco, la proibizione di bere alcolici e le notizie che l’obitorio era pieno di cadaveri. Con la sospensione delle garanzie, lo stato ha cercato di togliere la gente dalle strade. Una misura che aveva il solo scopo di intimorire e impedire assembramenti e manifestazioni. Solo che impediva anche l’informazione su quanto accadeva. Scompariva il diritto alla vita, all’inviolabilità della casa, al giusto processo, all’integrità personale, alla dignità e al decoro. Fu limitata anche la libertà di parola! E a nulla è valsa la denuncia dei giornalisti che hanno cercato di riscattarla. I giornalisti sostenevano che la verità non può mai avere un carattere sovversivo, ma il governo rispondeva che i provvedimenti e lo stato d’assedio ... “servivano a preservare la stabilità e l’ordine...”
Il mio Comandante, il giorno della rivolta, stava a casa con i suoi figli, disperato. Erano altri quelli che aggredivano il popolo. Ha sofferto in carne propria, il terrore, la persecuzione e il dolore della gente che non aveva potere. L’ira e la disperazione lo divoravano.
Ho rivissuto molte volte ognuno di questi avvenimenti. Li ho ricordati con sofferenza e sento ancora il suono delle mitragliatrici dei carri armati e dei blindati militari che vomitavano la loro superbia di piombo contro un popolo disarmato.
Diecimila e più cittadini, donne, uomini, bambini e bambine sono morti con il petto e le braccia aperte nelle strade. Non si è mai saputo con certezza il numero di vittime di quel momento. Ancora oggi, venti anni dopo, i parenti le cercano. Corpi scomparsi continuano ad essere cercati da familiari ostinati e testardi. Quando gli chiedono perché si ostinano, rispondono che vogliono un posto dove portare fiori e accendere una candela.
Scavano ancora invano, nessuno sa dove sono stati assassinati. Una fossa comune, imbiancata a calce, copre ancora molte ossa da disseppellire.
E’ passato ormai del tempo.
E’ stato dopo, molto dopo quando ho visto molto da vicino il Comandante scendere da un carro militare. L’ho visto affrontare nel 1992 gli ufficiali e i soldati che non avevano rispettato l’ordine del Libertador di non sparare contro il popolo. Sia maledetto il soldato che dirige le sue armi contro il suo popolo!.
Erano passati giusto tre anni e, adesso insieme ad altri ufficiali, ad altri soldati, ad altri carri militari, il mio Comandante sfidava coloro che avevano commesso lo spaventoso massacro del 27 febbraio 1989.
Proprio quel 27 febbraio è stato il preambolo della ribellione militare del 4 febbraio 1992. Grazie a quella ribellione, il comandante ha fatto colazione con me anni dopo, nel mio appartamento di fronte alla sede del tribunale, in via Vargas de Maracay ...
Dal 4 febbraio 1992 mi sono identificato con lui e con il suo progetto di fare una nuova Costituzione. Il Comandante aveva cercato di prendere il potere civile e militare per un cammino non convenzionale, ma non era il momento giusto. Così come era successo il 27 febbraio 1989, l’oligarchia ha di nuovo sconfitto la causa popolare. Processato il Comandante e giuridicamente condannato, è stato liberato nel 1994, due anni dopo.
Un indulto ordinato dal Presidente Costituzionale della Repubblica sembra sia stato la conseguenza di alquanti pentimenti differiti.
Nel 1997 il Comandante è entrato nell’appartamento dove vivevo. Appena seduto mi ha chiesto di accompagnarlo nei nuovi compiti che avrebbe intrapreso. Era deciso, mi ha detto, ad arrivare democraticamente alla presidenza della repubblica del Venezuela.
Gli ho risposto rispettosamente che io avevo attraversato tutti i deserti della politica ... l’incredulità ... la frustrazione ... il disinganno ... gli errori, i tradimenti, e che ero, quasi come poi lo sono stato di nuovo, profondamente deluso dai dirigenti politici, dalla politica e dai partiti venezuelani senza esclusione.
Non credo a niente e a nessuno! Gli ho detto ... Tuttavia lo avevo ringraziato per la fiducia e per la sua intenzione di farmi credere di nuovo in qualcosa. Gli avevo confermato, con le dovute considerazioni, la gioia di sentirmi completamente identificato con lui dal 4 febbraio 1992, ma che mi doveva scusare perché in realtà non mi fidavo né credevo in nessuno.
Con le mie ferite aperte, gli avevo detto che il Venezuela non sarebbe mai stato riscattato tramite un colpo di stato e che la lotta per il potere, con tutte le contraddizioni che ciò significava in quel momento, doveva passare attraverso una serie di atti democratici, compresi quelli elettorali, per poter portare senza violenza o con la minore violenza possibile, il paese in un porto sicuro.
Ho detto –e per molto tempo ho pensato che non era stato opportuno farlo sapere- che non mi fidavo di molti di coloro che lo stavano accompagnando. Alcuni perché erano di una sinistra che era poco sinistra e altri perchè Dio solo sapeva a cosa aspiravano.
Quanto a quelli di sinistra, avevo dato al Comandante vari nomi noti e gli avevo spiegato che quelli non lo avrebbero mai accettato come capo.
Devo confessare che non si era sorpreso quando gli avevo detto che quegli eroi guerrieri credevano solo a “loro stessi” e che non avrebbero mai voluto come capo un tenente colonnello.
Quanto agli altri, parlando nel modo più prudente e silenzioso possibile, gli avevo detto: “molti di loro non sono sinceri, né con lei né con il paese. Non hanno una buona formazione politica, hanno troppa vocazione autoritaria e pochissimo coraggio”.
Avevo aggiunto che alcuni di quei signori con spalline e medaglie detestavano chi non indossava l’uniforme. Loro credevano solo nella spada, nel bastone di comando e nell’uniforme di gala.
Rispettosamente gli avevo suggerito di fare attenzione, perché qualcuno di loro potevano solo essere compagni di una storiella di carta per sentirsi eroi per una fine settimana. Col tempo la maschera sarebbe caduta! Ho osato affermare. Pochi, molto pochi sarebbero sopravvissuti per la gloria e per la libertà, avevo concluso.
Mi aveva ascoltato con tolleranza, guardandomi sempre negli occhi, senza mai perdere la calma né il calore della sua voce. Non aveva alterato il tono né la tenerezza del suo modo di fare. Probabilmente pensava di costruire un movimento civico militare come parte di questo meticciato politico e rivoluzionario con il quale stavamo costruendo un socialismo mulatto e scuro. Aveva insistito serenamente cercando di persuadermi: “Comunque conto su di te!”
Lo ricordo con la sua forza sincera e leale, dove c’era energia, dubbio, impegno e responsabilità; dove c’era rispetto e integrità. Mi ha detto che andava via ma che quella conversazione non era finita. Quando se ne è andato, confesso che mi ha lasciato pensieroso...
Nel febbraio del 1998, liberato da quegli imitatori del Che Guevara, senza tanti militari e commedianti, senza coloro che la hanno lasciato solo nel primo tentativo di colpo di stato fatto contro di lui, senza quella vigliaccheria e opportunismo in uniforme, mi aveva fatto di nuovo visita.
Quella volta gli ho detto che sarei stato con lui. Il Comandante aveva deciso di partecipare come candidato alla presidenza della repubblica del Venezuela e tutti coloro che avevano un pizzico di impegno dovevano assumere lealmente questo atteggiamento.
Ha corso il rischio di smontare quella verità ineffabile della nostra storia secondo la quale nessuno si spoglia dei propri privilegi senza aver calcolato come mantenerli intatti. Fu eletto .. fu eletto presidente del Venezuela ... in un contesto unico e forse irripetibile per l’America Latina.
Quando è stato eletto, la regione ha cominciato a uscire dai radar interni degli Stati Uniti del Nord. Nuova Costituzione e nuova logica per il Venezuela. Stavolta il governo non era sceso dalle montagne, non aveva sparato un solo colpo, non aveva la barba, e neanche esperienza ma aveva l’ impegno.
Io ho deciso di lavorarci.
Il Comandante ha assunto la guida di un governo democratico che sarebbe sfociato in una rivoluzione. Attraverso le elezioni ma in rotta verso la rivoluzione. La legittimità di un’elezione popolare universale e diretta gli aveva conferito la direzione di un processo nuovo. Poi avrebbe vinto 14 elezioni di seguito in tredici anni.
Il Comandante ha consegnato al popolo con la sua gestione, sovranità, rispetto, coesione sociale e dignità. Il suo linguaggio semplice e diretto è stato di sfida ma modesto e agile. Le sue parole avevano la malizia e il coraggio che fa sudare l’anima dei popoli. Parlava con una lingua che arrivava all’udito e al cuore.
Si era proposto di parlare di economia in maniera semplice e c’è riuscito. Ha rotto con l’accademismo da torre di Babele che confonde tanto. Ha sempre sostenuto che il linguaggio è un meccanismo di oppressione e di dominio, perfino di esclusione.
Una volta ha detto che tutti i linguaggi sono meccanismi per fare in modo che i popoli restino ai margini dei loro processi sociali e politici. In questo modo vengono isolati, sosteneva. Gli uomini e le donne del popolo ignorano quello che accade giorno per giorno sotto il loro naso perché il linguaggio lo copre. E’ questo linguaggio a far sì che la gente diventi assente, come intontita e mezzo morta.
Le sue alleanze internazionali e la riduzione dell’offerta di petrolio, ha permesso che il Venezuela avesse risorse economiche sufficienti per la salute e l’istruzione, ma anche per promuovere una maggiore democrazia o, per lo meno, per disegnare una democrazia che non fosse così ipocrita.
Sono state queste alleanze a permettere di incorporare il popolo al protagonismo e alla mobilitazione. Questo compito ha comportato rischi e ha avuto bisogno di un’immensa riforma, ma alla fine ha consegnato ai cittadini fiducia, partecipazione, impegno e identità. Aveva anche capito che la sua rivoluzione non avrebbe avuto successo se la rinchiudeva nelle frontiere del suo paese e la lasciava prigioniera del suo territorio.
Come Bolívar e come altri libertadores, ha pensato che se le repubbliche non comunicavano si sarebbero esaurite in se stesse. Quando la lotta si disperde contro un nemico comune, non ha successo. Per questo cercava la solidarietà, la complementarietà e l’idea di una patria continentale. In questo modo ha potuto opporsi alla globalizzazione.
Con il suo aiuto e con la strategia di una sfida coraggiosa contro poderosi consorzi economici internazionali ha aperto la strada per altri processi libertari e democratici nel continente e nel mondo.
La sua irriverenza ha reso meno difficile la lotta contro l’imperialismo e le multinazionali che ha affrontato senza timore mentre è stato sempre disposto a spalleggiare e ad offrire solidarietà ai governi fraterni e a quelli vicini. Il Comandante aveva capito con grande chiarezza l’importanza del momento storico che viveva e vive ancora l’America Latina.
Aver garantito l’indipendenza politica ed economica del Venezuela nelle istanze internazionali gli ha permesso di parlare con fermezza, da uguale a uguale. Questa è stata una delle ragioni per le quali è riuscito ad inalberare la bandiera del socialismo necessario. Ma ha aspettato fino al 2005 per renderla pubblica.
Non sbandierava un socialismo qualunque ... ne voleva uno che avesse radici nella sua patria. Che fosse una scuola di libertà e di opinione. Che conservasse una somiglianza con i credi e le tradizioni dell’America Latina. Vincolato ai fiumi e agli alberi della natura, all’ambiente, all’acqua e ai valori di solidarietà dei primi abitanti della Abi Ayala dei primi giorni.
In questo modo ricreava i principi del socialismo scientifico, i modi di produzione e la dialettica hegeliana. Includeva, come forgiatore delle lotte sociali, il Gesù del cammello e della cruna dell’ago, il Cristo Redentore della frusta contro i mercanti nel tempio.
E includeva anche l’assenza di proprietà privata delle culture indigene dell’America Latina. Aggiungeva le loro esperienze di lotta contro gli spagnoli, l’impegno libertario dei nostri padri della patria e le loro lettere, i loro proclami, i loro discorsi, i loro deliri e le loro contraddizioni.
Incorporava l’amore come fonte di lotta. Il vero rivoluzionario è guidato da grandi sentimenti di amore, ha detto il Che. Il mio Comandante credeva all’amore per il prossimo e all’amore per l’umanità.
Con il minimo costo umano ha portato a termine il suo processo di cambiamenti rivoluzionari e sostanziali in Venezuela. Gli avversari dovranno riconoscerlo un bel giorno. Anche se forse se lo meriterebbero, nessuno dei nostri avversari è stato massacrato come lo è stato il popolo del Guatemala nel 1954, nel Guatemala di Arbenz o come lo è stato il popolo cileno nel 1973, nel Cile di Allende.
Il Comandante ha proposto una strada alternativa alla violenza rivoluzionaria per fare una società di uguali. Fino ad ora la violenza è stata l’unica maniera di far partorire la storia. Il Venezuela, invece, si permette di offrire oggi ai popoli una precaria ma valida esperienza del fatto che per un’altra strada, in un altro tempo può essere possibile un altro mondo, con un’altra civiltà e una maggiore giustizia sociale. Pur non essendo rigorosamente certo, alcuni chiamano il nostro processo “rivoluzione pacifica ed elettorale”.
Tutto questo va sotto il nome di chavismo. Il chavismo è pratica e dottrina. E’ teoria e prassi di un socialismo tropicale sostenuto dalle radici culturali e libertarie di tutti i popoli liberati da Simón Bolívar. Chavismo è anche pezzi di Palestina senza quei vecchi e nuovi testamenti utilizzati per sottomettere e per ricattare religiosamente l’umanità. Chavismo è il coraggio ardito con cui il presidente Maduro ha reclamato la libertà di uno dei nostri generali davanti all’Olanda per sbaragliare le manovre provocatrici degli Stati Uniti. Chavismo è il Comandante vivo nelle sue idee e nel suo pensiero.
Non ci sbagliamo; è vero, il Comandante non c’è più fisicamente ... Ho visto personalmente e per televisione i suoi funerali. C’erano più di tre milioni di cittadini per salutarlo. Il lutto si è esteso a molti paesi e da allora le strade e le piazze si chiamano come lui. Per salutarlo, ricordo di aver scritto note come questa:
“Mi hai insegnato a lottare e a vincere. E’ vero che le rivoluzioni le fanno i popoli e la storia. Ma in qualche momento tu sei stato il padre di tutti, così come paradossalmente sei il figlio di tutti.
Caro Comandante, ti rimpiangeremo. Diremo: Presente! Quando ci convocherai da un qualsiasi posto. Ti saremo leali. Con te la lealtà è una parola nuova. L’hai creata con un altro nome. L’hai chiamata sovranità che è una parola saldamente femminile. Femminile come Costituzione e come vita. Invece il cancro e il dolore, al contrario, sono vocaboli maschili. A prescindere dalla possibilità che te lo abbiano inoculato, mi è sempre parso che la tua parte maschile abbia imparato da tutta la forza femminile che era in te, il modo di costruire questa stirpe piena di simboli con cui sfidi la morte”.
Hasta siempre, Comandante!
* Attualmente Ambasciatore del Venezuela in Italia, è stato senatore, costituente, Vicepresidente della Repubblica e Procuratore Generale.



Giovedì 31 Luglio,2014 Ore: 18:20
 
 
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