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www.ildialogo.org Rwanda, un paese nel cuore dell’umanità,di  Mauro Matteucci - Gabriella Coppini

Africa
Rwanda, un paese nel cuore dell’umanità

di  Mauro Matteucci - Gabriella Coppini

Ukuri guca mu ziko ntigushya (La verità attraversa la prova del fuoco senza consumarsi)

Proverbio ruandese

Guardando la carta dell’Africa, a un primo sguardo sembra quasi impossibile trovare il Rwanda, il minuscolo “Paese delle mille colline” schiacciato contro il gigantesco Congo. Eppure per una feroce ironia della storia ha segnato profondamente la vicenda del secolo passato con un’immane tragedia, il genocidio dei Tutsi da parte degli estremisti Hutu, che, in un vortice inarrestabile di odio e di violenza, cancellò in cento giorni la vita di un milione di persone. Nel discendere nel cuore dell’Africa, che per noi è diventato il cuore dell’umanità, io e mia moglie, con il nostro viaggio – che non è stato certo una vacanza o il solito safari turistico – abbiamo voluto capire, se capire tanto orrore era possibile. Volevamo capire se la pratica, che definirei ostinata, della riconciliazione – di cui parlano continuamente i rwandesi, peraltro in straordinaria sintonia con papa Francesco – ha una possibilità di riuscita e di realizzazione, dischiudendo percorsi fecondi nella faticosa purificazione della memoria. Gli incontri, quasi tutti di grande intensità, ci hanno dimostrato che noi come loro, non possiamo sottrarci al ritrovato, vero rapporto con l’altro, pena la perdita completa di senso di ogni nostra relazione. Lo scambio di umanità è stato costante: non c’erano i soliti filtri formali tra di noi, era come se, ad ogni incontro, ci fossimo sempre conosciuti. Parlavamo liberamente di tutto in un confronto incessante, ma fecondo: purtroppo così difficile nella nostra società.

L’ingresso stesso, durante la notte, nella casa di Yolande Mukagasana, nobilissima figura di sopravvissuta e di testimone, e poi nel suo quartiere di Nyamirambo, ci faceva entrare subito nel cuore della capitale Kigali e dello stesso Rwanda, incontrando persone dalle storie più complesse, sempre segnate da quanto avvenne nei tremendi giorni tra l’aprile e il luglio del 1994: eppure in ogni momento la loro umanità ci appariva ricca e accogliente, talvolta travolgente. Innanzi tutto quella di Yolande, questa donna che ha perduto tutta la sua famiglia nel genocidio e che conserva intatta una volontà straordinaria di amare, che spesso la fa essere disorganizzata secondo i nostri cliché, non cessa mai di parlare – dimenticando talvolta le esigenze quotidiane - delle persone che chiedono il suo aiuto, in particolare degli orfani rescapés (sopravvissuti) e delle vittime più indifese: di ognuna ci racconta dettagliatamente e con amore la storia dolorosa. La piccola, bellissima Mireille, dagli occhi luminosi eppure attraversati da un velo di tristezza (per il rifiuto da parte dei genitori naturali), alla ricerca continua di affetto come la bambina-donna Anita, orfana dei genitori, dapprima timidissima, poi esplosa in una confidenza trascinante, in particolare con mia moglie Gabriella. Béata, un vero e proprio angelo della casa, che in silenzio - quali orrori ha visto in quei giorni con quegli occhi profondi e talvolta smarriti! - pensa a tutti, in particolare a preparare squisiti pranzi rwandesi. Il mite maestro Joseph, di origine banyamulenge, così amante della cultura, che mi ascoltava incantato parlare dell’insegnamento del grande maestro don Lorenzo Milani: come dono, ho voluto regalargli la bellissima frase milaniana, (tradotta in francese): Quando avete buttato nel mondo d’oggi un ragazzo senza istruzione avete buttato nel cielo un passerotto senza ali. Ci ha accolto con gioia nella sua affollatissima classe all’interno della scuola statale del quartiere: in un modesto spazio stavano seduti nei loro semplici banchi di legno una quarantina di bambini, che guardavano con occhi luminosissimi i due muzungu (bianchi) comparsi all’improvviso. Commovente, è stato l’incontro con la maestra della classe accanto, che ci ha raccontato con occhi lucidi di aver ritrovato la forza di insegnare, dopo il genocidio in cui ha perso il marito, solo grazie alla preghiera e all’amore per i bambini. Al centro del cortile, a ricordare come l’immane tragedia non ha risparmiato nessun luogo, una targa ricorda – presenza silenziosa e ammonitrice! - gli insegnanti e gli alunni uccisi in quei giorni: oltre duecento! L’importanza data all’istruzione e all’educazione, è stata uno degli aspetti, che ci hanno più colpito nel Rwanda: dovunque abbiamo visto scuole e tanti bambini con le loro divise colorate, si trattasse di scuole statali, islamiche, cristiane, ebraiche. Altro incontro di grande spessore umano, è stato quello con Immaculée Ingabire, una donna che da anni si batte strenuamente – per questo minacciata più volte di morte - in ogni angolo del paese per la difesa dei diritti delle donne: il colloquio con lei non ha avuto limiti né di tempo né di argomenti, perché per ore (date le continue interruzioni telefoniche per i drammatici casi da lei seguiti) si è parlato di tutto, dal genocidio all’educazione dei giovani, all’emigrazione, al ruolo della donna nel nuovo Rwanda, alla convivenza tra le religioni; su tutto era capace di intervenire con grande lucidità e conoscenza degli argomenti.

L’incontro più toccante e intenso è stato senz’altro quello con “Les enfants du viol” (I figli della violenza) a Kabuga. Abbiamo saputo dalla sua presidente Onorine che questa associazione – che porta il nome beneaugurante di L’espoir e la paix (La speranza e la pace) è l’unica esistente in Rwanda, che raccoglie coloro che furono concepiti nei giorni dell’odio, perché i genocidari volevano umiliare nel modo più infame e violento le donne tutsi. Sono stati a lungo abbandonati a se stessi e solo con il costituirsi dell’associazione, questi giovani – che oggi hanno sui vent’anni – hanno potuto parlare del loro calvario di sofferenze e di umiliazioni. Tre ragazze: Emy, Drocella e Angélique – non è un caso che siano state solo le donne ad avere il coraggio di parlare, nonostante fossero presenti anche molti ragazzi - raccontano con il loro viso dolce e triste la loro vicenda di rifiuto e di umiliazione, finché hanno trovato la forza di parlare grazie all’incontro e all’unione con chi condivide la stessa sorte e con i fratelli, che all’inizio non le accettavano. Nella stanza, in cui erano presenti i figli, alcune madri e alcuni zii, s’incrociavano in un silenzio carico di emozione, tre lingue: il kinyarwanda parlato dai giovani, il francese in cui mi traduceva Yolande le loro parole, l’italiano in cui spiegavo a mia moglie, che volevano condividesse come donna il loro racconto. Mi ha impressionato la loro volontà di voler continuare a sperare, la loro dignità e fierezza, in quanto pienamente coscienti di non aver nessuna colpa di quanto ora subivano, come se una profonda ferita interiore ne attraversasse l’anima: le loro parole cadevano nella sala come pietre. Quando, con un filo di voce strozzata, ha parlato Chantal, una delle madri violate, il silenzio è divenuto ancora più assordante, come se rimbombasse nelle nostre coscienze: parlava la vittima di infinite sofferenze non solo da parte dei violentatori, ma anche del nuovo marito che voleva farla abortire, ma la sua volontà alla fine ha vinto, nonostante confessasse che all’inizio non riusciva ad amare quella figlia concepita nell’odio. Si è poi dedicata all’assistenza del fratello paralizzato, lui stesso vittima dell’uccisore del cognato. Quest’uomo è uno splendido esempio di non-violenza e di perdono: infatti l’omicida gli aveva confidato dove era la fossa comune in cui aveva gettato con gli altri le vittime. Lui l’ha perdonato una prima volta, ma poi l’altro, temendo che rivelasse al tribunale gacaca il suo delitto, con una scusa l’ha attirato su un ponte, dal quale l’ha gettato, riducendolo tetraplegico; la vittima, quando la polizia ha catturato il genocidario, l’ha di nuovo perdonato: così gli ha permesso di essere nuovo libero! Onorine, la presidente parla di alcuni progetti concreti sia come prospettiva di speranza per l’avvenire lavorativo dei giovani sia come sostegno delle situazioni più disagiate. Yolande rinuncia al suo intervento e mi chiede di parlare: dopo un primo momento di emozione che mi serra la gola, decido di rivolgermi a braccio parlando con brevi frasi in francese, ma che vengono dal cuore e che si rivolgono direttamente al cuore dei presenti. Dico che innanzi tutto parlerò come padre di una figlia, Rachele, che qualche anno fa è venuta in Rwanda rimanendo innamorata di questa terra, come marito di Gabriella che è lì con me, come educatore di valori, che è venuto a cercare in questo Paese meraviglioso, anche se segnato da tanto dolore. Sottolineo la bellissima affermazione di una delle testimoni che l’unione tra loro è stato l’inizio di una conquista di nuova speranza: questa può costituire come un cerchio magico della solidarietà. Il genocidio preme sulla grandezza della Storia per stringerla dentro alla dimensione del dolore delle vittime. Ho dedicato la mia vita professionale di insegnante intendendo il mio lavoro come educazione ai valori fondanti dell’identità delle giovani generazioni: la memoria, il rispetto e la cura per l’altro, l’attenzione all’umanità: tutto questo, loro l’hanno vissuto sulla loro pelle giorno per giorno. Vengo da un Paese, che purtroppo non ha niente da insegnare: le infami leggi razziali italiane del 1938 sono state una vergogna che ci portiamo dietro. Sentendo parlare dalle testimoni, di sogno e di indifferenza, mi sono tornate alla mente le parole di una grande educatrice ebrea sopravvissuta al lager di Auschwitz Birkenau, Liana Millu, che scrisse in una lettera ai miei studenti e che vorrei consegnare stasera anche ai presenti: Il disprezzo, l’indifferenza, la violenza sono i vostri nemici, le forze malvage che possono rovinarvi la vita … Avere un sogno è bello,direi che è necessario: triste è la giovinezza senza un sogno. bisogna tenerselo caro, ma anche indirizzare la propria attività, almeno per avvicinarlo. Dico di apprezzare il grande valore che è stato dato all’istruzione, mi ha ricordato un altro grande maestro a me carissimo, don Lorenzo Milani, che intese sempre la cultura come impegno al servizio degli ultimi. Educava allo spirito critico e al senso di responsabilità, che ho invitato a coltivare in loro perché l’orrore del genocidio non avvenga più. Termino facendo una richiesta e una promessa: chiedo che diffondano, come hanno cominciato, le loro storie che debbono diventare i mattoni del loro futuro. Affermo con forza, lungamente applaudito che né loro, né le loro madri hanno nessuna colpa del male che è stato loro fatto. Prometto l’impegno, anche con mezzi modesti, di associazioni e di privati che conosco, a sostegno dei loro coraggiosi progetti. Chiedo alla fine che la frase di don Lorenzo Ogni anima è un universo di dignità infinita diventi il simbolo della loro associazione; la frase li appassiona e confrontando le interpretazioni, cercano di tradurla in kinyarwanda: ancora una volta il messaggio del grande educatore di Barbiana si rivolge gli ultimi e dà loro forza!

Ho accennato spesso al genocidio del 1994, il terribile evento che ha reso famoso questo minuscolo Paese più che per le sue bellezze incontaminate e per la sua traboccante umanità. In ogni angolo del Rwanda se ne trova traccia, nei sopravvissuti (i cosidetti rescapés), nelle case distrutte e nei Memoriali che si trovano dovunque. Ne abbiamo visitati quattro, quello della capitale, due di località vicine posti entrambi nelle chiese di Ntarama e Nyamata – dove le vittime cercarono inutilmente salvezza -e infine, quello forse più sconvolgente, anche per le gravissime ed evidenti responsabilità francesi, a Murambi. Avevamo già visitato, circa venti anni fa quello di Birkenau così come qualche anno fa abbiamo incontrato le madri di Srebrenica, che non avremmo più dimenticato, ma anche questi ci sembrano penetrare nel nostro presente, rivolgendoci interrogativi angoscianti, che purtroppo non sempre hanno una risposta di senso. Come è potuta scatenarsi una carneficina così terribile, che ha distrutto sì i corpi delle vittime, ma anche l’anima dei carnefici? Perché teatro di queste atrocità sono state proprio le chiese, luoghi dove si predicava l’amore e dove gli stessi sacerdoti hanno consegnato i fedeli ai massacratori? Perché chi poteva fermare e denunciare l’eccidio, dall’ONU agli Stati Uniti, allo stesso Vaticano sono stati inerti, invece di intervenire prontamente, dato che esistevano prove concrete sia della pianificazione del genocidio sia dell’inizio della strage? Perché la Francia, patria dei diritti umani, e il suo presidente socialista François Mitterrand si sono macchiati di crimini efferati con i soldati del loro esercito che armavano i genocidari, li sostenevano militarmente, massacravano loro stessi i Tutsi, violentavano le donne? Io e mia moglie visitavamo questi luoghi perlopiù in silenzio, un odore di morte sembrava aggredirci violentemente lo stomaco e l’anima insieme a un senso di pietas, anche se era come se una linea divisoria invisibile ci separasse dalle vittime, talvolta dalla stessa Yolande che ci accompagnava sempre: ci sentivamo impotenti a capire, letteralmente a contenere tanta sofferenza che potevamo solo immaginare. Forse il momento di maggiore unione con le vittime e di ritrovata speranza nell’umanità, l’abbiamo realizzato davanti alla tomba di Antonia Locatelli, la coraggiosa donna bergamasca, che, già due anni prima, aveva denunciato ai media il montare dell’odio e della violenza e per questo era stata uccisa barbaramente: è stata una vera grande Giusta tra le nazioni e come tale merita di essere ricordata nel giardino dei Giusti di Pistoia e in altri. Visitare i memoriali è stato per noi come percorrere insieme i cento giorni del genocidio, in compagnia di migliaia di vittime. Spesso ci hanno come assalito lo scoramento, la nausea e la collera: era talvolta come tuffarci in apnea. Abbiamo lottato contro il rifiuto di vedere la natura umana in quello che ha di più abietto e di più feroce, perché anche di questi aspetti è composta. E una volta che eravamo giunti a vincere il disgusto ispirato dai massacri, abbiamo dovuto lottare contro la stanchezza che la ripetizione di uno spettacolo disgustoso finisce per provocare nella parte più sensibile di ciascuno. Abbiamo scelto, in una sorta di investigazione angosciata e sofferente, di fissare la Medusa della verità, cioè tutta la verità, questa verità, una e indivisibile.

Nella ricerca di questa verità al presente, abbiamo chiesto a Yolande di andare verso nord-ovest ai confini con l’immenso Congo, non per vedere il parco dei leggendari gorilla, ma per visitare i luoghi che negli ultimi venti anni hanno segnato, purtroppo spesso tragicamente, la storia dell’Africa dei grandi laghi. Nel percorrere la strada che portava a Gisenyi, sul lago Kivu, era come se ripercorressimo la via dove oltre un milione di persone spinte dai genocidari (terrorizzati dall’incalzare del Fronte patriottico Rwandese) si muoveva in massa verso Goma. Eppure l’orrore sembrava lontano, anzi tutto aveva un aspetto sereno, estremamente somigliante alla nostra Toscana: ai lati della strada si estendevano campi fertilissimi, anche per il terreno di origine vulcanica, intensamente coltivati a tè, a verdure di ogni genere, mentre si elevavano colline terrazzate curatissime con i sempre presenti bananeti e con piantagioni del famoso caffè rwandese. L’operosità infaticabile del contadino di questa regione ricordava quella a noi tanto familiare del contadino toscano di un tempo. Ma si aprivano anche le ferite della Storia: i genocidari detenuti – riconoscibili per le loro casacche arancione o rosa - impegnati nei lavori pubblici o agricoli, i Memoriali e i campi dei rifugiati dal Congo. Due incontri mi avrebbero rivelato la realtà di questi ultimi abitati dai rwandesi del Congo fuggiti dopo la sconfitta del movimento M23, che aveva difeso i diritti di questa minoranza dimenticata, che da tempo abita la regione vicino al Kivu. Gaspard, uno degli uomini più dignitosi e colti incontrati nel nostro viaggio, esponente dell’M23, mi ha raccontato la lotta eroica di questo movimento demistificando tutte le menzogne dei media, che l’avevano dipinto come un movimento terrorista, quando invece si era battuto strenuamente per la difesa dell’uguaglianza dei diritti della minoranza ruandese oppressa dal regime centrale del presidente-burattino Cabila manovrato dalle potenze e dalle multinazionali occidentali. Mi ha confermato questa analisi un giovanissimo, dignitoso cameriere del ristorante sul lago, raccontando, con voce commossa, come aveva dovuto abbandonare la sua terra natale in Congo per vivere prima in un campo di rifugiati e poi lavorare, interrompendo forse definitivamente gli studi. Ho ripensato a lungo – in questi giorni in cui tanto si parla in Italia e in Europa dell’emergenza rifugiati - alle responsabilità di noi europei, che abbiamo spogliato di tutto gli africani, che consideriamo dei fantasmi coloro che sono stati costretti a lasciare le loro terre, forse per sempre. Siamo chiamati a fare i conti con la Storia, ma cerchiamo capri espiatori, miseri pretesti, spiegazioni mistificanti per non confrontarci alla pari con gli umani, che abbiamo umiliato, depredato, ridotto alla disperazione! Uno degli aspetti che ci ha più offeso è la continua mistificazione e disinformazione dei media occidentali sulle questioni africane: tutto è subalterno e funzionale agli interessi più inconfessabili. Nel corso del nostro viaggio abbiamo potuto attingere a fonti dirette di informazione: testimoni, documenti originali, testi di veri ricercatori sul campo. Ogni volta abbiamo constatato sia la verità umana della realtà sia la miseria dell’informazione menzognera, che quotidianamente ci viene propinata.

Prima di ripartire, abbiamo voluto osservare in attento silenzio la strada che sale verso il quartiere di Nyamirambo: abbiamo visto ancora una volta le donne con i bambini sulla schiena o con i cesti di povere merci sulla testa, i ragazzi che andavano o tornavano da scuola con le loro divise multicolori, gli uomini che spingevano faticosamente le biciclette con sacchi strapieni, gli altissimi camion carichi di canna da zucchero. Un’Africa umana in movimento, forse la sola Africa più vera.

 

Mauro Matteucci

Gabriella Coppini


 



Sabato 19 Settembre,2015 Ore: 20:47
 
 
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