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Dossier Rwanda

a cura di Agenzia MISNA

GENOCIDIO: L’INFERNO DEI 100 GIORNI, LA VOCE DI CHI C’ERA
A 20 anni dal genocidio in Rwanda sono molto chiari i ricordi delle settimane, dei giorni che hanno preceduto i massacri, confidati alla MISNA da un esponente della società civile, anonimo per motivi di sicurezza.
“La tensione stava salendo, era palpabile nell’aria. I due blocchi – quello del Movimento nazionale rivoluzionario per lo sviluppo (Mnrd, hutu) e il Fronte patriottico ruandese (Fpr, tutsi) – si stavano radicalizzando già da tempo. Gli estremismi nelle due etnie stavano guadagnando sempre più terreno” racconta alla MISNA l’interlocutore, tornato a Kigali a poche settimane dal genocidio, dopo un periodo trascorso in Europa. “Già la mattina del 6 aprile 1994 decine di civili si erano rifugiati nella parrocchia di Nyamirambo a Kigali. Mi hanno raccontato che non si sentivano più al sicuro a casa loro” prosegue. “Poi ho incontrato padre André Sibomana (giornalista e militante dei diritti umani, deceduto nel 1998, ndr) e anche lui era molto demoralizzato e preoccupato. Mi ha confessato di non sapere più cosa fare per disinnescare le tensioni” aggiunge l’esponente della società civile.
“Il giorno prima, alcuni amici tutsi mi avevano parlato di ‘liste’ di persone da eliminare così come dell’esistenza di buche scavate per seppellire i morti. Una voce che circolava con insistenza in più ambienti, anche tra gli hutu. A me in quel momento, era il 5 aprile, quelle informazioni parve strana”, ricorda ancora la fonte.
La sera del 6 aprile la maggioranza degli abitanti di Kigali era incollata al televisore per una partita di calcio, quando un forte boato scosse i cieli della capitale. L’aereo con a bordo il presidente Juvénal Habyarimana (Hutu) e il collega burundese Cyprien Ntariamira era esploso in volo a pochi minuti dall’atterraggio all’aeroporto. Fu il segnale che scatenò l’inferno ruandese dei 100 giorni. La mattanza si protrasse fino al mese di luglio, quando l’Fpr, l’esercito tutsi comandato dall’attuale presidente Paul Kagame, penetrato dal vicino Uganda, contribuì alla fine delle ostilità.
Le stime più autorevoli parlano di un bilancio che si aggira tra le 500.000 e le 800.000 vittime – per lo più tutsi ma anche hutu moderati – uccise prevalentemente con armi bianche: machete, bastoni, asce e coltelli. I crimini sono stati commessi dall’esercito regolare del potere hutu, dalle milizie estremiste interahamwe (letteralmente ‘quelli che combattono insieme’ in lingua kinyarwanda, costituite dall’Mnrd sin dal 1992, ndr) ma anche da cittadini comuni senza alcun precedente penale.
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GENOCIDIO (2), UN “TRAUMA GENERALIZZATO”
“E’ stato un trauma generalizzato. In primis per i tutsi, i più colpiti dai massacri. Ma la sofferenza ha travolto anche gli hutu più moderati e le coppie miste. Attorno a noi c’erano solo macerie, umane e materiali”: sono queste le prime sensazioni provate dopo la ‘fine’ dei massacri nel Paese delle mille colline da una fonte della società civile contattata dalla MISNA, anonima per motivi di sicurezza. In realtà la scia di violenze si è allungata per mesi, per anni, man mano che corpi senza vita sono stati rinvenuti ai quattro angoli del paese dei Grandi Laghi.
“Non so più quante volte sono andato a case di persone che hanno ritrovato nel proprio giardino vittime seppellite in buche che erano state ricoperte di terra. A chiamarmi per chiedere un intervento e un sostegno sono stati molti hutu, che mi raccontavano che le buche erano state scavate a loro insaputa. Riemerse anche a distanza di anni, quando dovevano fare lavori nel proprio giardino” precisa la fonte della MISNA. In alcuni casi a fare quei macabri ritrovamenti sono stati anche tutsi scampati al genocidio o rientrati in Rwanda dopo anni di esodo in Uganda e in altri paesi limitrofi.
Per quanto riguarda le vittime, “erano per lo più tutsi uccisi a colpi di machete, ma posso confermare che ho anche visto morti hutu” dice l’esponente della società civile, spiegando che “in quest’ultimo caso le vittime avevano le mani legate, un marchio di fabbrica del modo di uccidere dei tutsi”. La fonte dice anche che “una volta consegnati alle autorità, quei corpi di persone delle due comunità sono stati sepolti insieme”.
L’altro tasto dolente riguarda il massiccio esodo degli hutu, che in migliaia hanno trovato rifugio nei paesi confinanti, ma anche in Europa (Belgio, l’ex potenza coloniale in Rwanda, e Francia), Stati Uniti e Canada, a partire dall’estate del 1994. Tra loro ci sono autori dei crimini riusciti a scampare alla giustizia, ma anche cittadini innocenti timorosi di subire ritorsioni da parte del governo tutsi.
“Rapporti stilati da esperti Onu, ma anche alcuni miei colleghi della società civile congolese, hanno confermato che in particolare tra il 1997 e il 1998 l’esercito ruandese ha fatto numerose incursioni nelle foreste del Nord Kivu, uccidendo un numero imprecisato di cittadini ruandesi hutu. A ogni modo parliamo di migliaia di vittime” conclude l’interlocutore della MISNA, precisando che le operazioni delle truppe regolari ruandesi “venivano attuate sulla base di immagini scattate dall’aviazione militare statunitense, consegnate all’alleato Kagame”. Nell’est della Repubblica democratica del Congo sono ancora attive le Forze democratiche di liberazione del Rwanda (Fdlr). Per Kigali la ribellione hutu è costituita da individui coinvolti nel genocidio che ancora oggi rappresentano una “minaccia” per il paese.
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GENOCIDIO (3), “SEDUTI SU UN VULCANO”
Anche quest’anno, nel ventennale del genocidio, i ruandesi stanno osservando una settimana di ‘icyunamo’, letteralmente periodo di lutto in memoria delle vittime. Il 7 aprile, anniversario dell’inizio dello sterminio dei Tutsi 20 anni fa, è Giornata nazionale di commemorazione del genocidio, decretata da Rwanda e Onu.
“E’ una ricorrenza ancora più pesante del solito poiché altamente simbolica. C’è chi è ritornato nei remoti villaggi di origine per non partecipare alla settimana di iniziative ufficiali che ogni anno riaprono ferite mai sanate” confida la fonte della società civile contattata dalla MISNA, anonima per motivi di sicurezza.
La guarigione è difficile, se non impossibile, per i sopravissuti che abitano accanto a chi – gente comune senza alcun precedente penale – ha commesso massacri. Basta pensare che il genocidio ha coinvolto metà della popolazione adulta ruandese, sia come vittima che come carnefice. Poi il territorio è costellato di ossari, cimiteri, memoriali e fosse comuni. “Chi è sopravissuto non ha avuto altra scelta che andare avanti, ma il passato ci rincorre. Siamo seduti su un vulcano che potrebbe nuovamente esplodere” avverte l’interlocutore della MISNA.
Oltre gli slogan coniati dalle autorità – “We are all Rwandans” e “Never again” – anche “l’umuganda”, un giorno al mese di lavoro comunitario che coinvolge operai, contadini e ministri nella costruzione di opere, doveva aiutare la riconciliazione nazionale. Se da una parte i sopravvissuti vanno nelle scuole a raccontare i “cento giorni dell’orrore” a chi ha meno di 15 anni – il 42% della popolazione – da un’altra è vietato pronunciare in pubblico i nomi delle due etnie. Rischia il carcere chi lascia intendere che le atrocità furono commesse da entrambe le parti. Difensori dei diritti umani denunciano la strumentalizzazione a fini politici dei provvedimenti governativi relativi al genocidio.
“Il sentimento primario di appartenenza etnica è molto radicato ancora oggi. Non se ne parla ma fa parte delle dinamiche sociali. Il vulcano non si potrà mai spegnere fin quando le cause profonde delle divisioni non saranno portate a galla e risolte” sottolinea la fonte della società civile, accusando i dirigenti che si sono succeduti alla guida del paese di “strumentalizzare sentimenti e divisioni ancestrali per la ricerca del potere”.
A distanza di 20 anni il Rwanda appare, però, rinato dalle sue ceneri, pacificato e stabile, con una crescita economica del 6,5% e una presenza sempre più significativa degli investitori stranieri. La presenza femminile in parlamento, del 49%, è la più alta al mondo. Kigali è una capitale moderna, ma in gran parte delle case manca luce e acqua potabile.
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“VERITÀ E GIUSTIZIA, CAMMINO INCOMPIUTO”, L’ANALISI DI UN ESPERTO
Il genocidio commesso in Rwanda “sconvolge per la spersonalizzazione dei massacri commessi da gente comune, senza alcun precedente penale” dice Piero Sullo, ricercatore esperto di Rwanda, direttore del Master Europeo in Diritti Umani e Democratizzazione dell’European Inter-University Center for Human Rights and Democratization di Venezia (Eiuc). Un genocidio, perpetrato con machete, bastoni, asce e coltelli, che ha coinvolto metà della popolazione adulta ruandese, sia come vittima che come carnefice.
Vent’anni dopo, cause e dinamiche di quei terribili cento giorni sono state identificate, ma rimangono molte zone d’ombra che ipotecano il processo di riconciliazione.
Tragedia imprevedibile o dramma annunciato?
Storicamente ci sono sempre state differenze sociali ed economiche tra hutu e tutsi, che però condividevano una cultura, una religione e una lingua unica, risultando difficilmente inquadrabili come etnie distinte. Al loro arrivo, negli anni 20’ del secolo scorso, sono i coloni belgi a scrivere l’etnia sulla carta d’identità e, con le loro politiche, a creare una netta divisione tra le comunità, alimentata dalla diffusione di un’ideologia razzista. Inizialmente hanno privilegiato i tutsi – minoranza del 14% dedita alla pastorizia, globalmente più ricca e potente – in altri gli hutu – l’86% della popolazione, per lo più poveri contadini. Questi annosi contrasti si sono radicalizzati nel 1990, dopo il fallito tentativo di invasione del paese da parte del Fronte Patriottico Ruandese (Fpr), costituito nel confinante Uganda dalla diaspora tutsi fortemente militarizzata e politicizzata. Da allora il governo hutu di Habyarimana, radio e stampa hanno allertato la gente della minaccia incombente, diffondendo un sentimento di psicosi generalizzata, in un contesto di crisi economica e di forte pressione demografica su un territorio non superiore a quello della Sicilia. Un dramma pianificato dalle autorità che hanno stilato elenchi di persone da uccidere e hanno ordinato alla Cina un carico di 500.000 machete. Il tutto sotto gli occhi indifferenti della comunità internazionale – Onu, presente con un’operazione di peacekeeping, e Stati Uniti al primo posto – e addirittura con la complicità del governo francese del presidente Mitterrand, che ha addestrato l’esercito ruandese. Purtroppo il momento storico è stato sfavorevole: i media si focalizzavano sull’intervento Usa in Somalia, sulla fine dell’apartheid in Sudafrica e sulla Guerra nei Balcani.
Vent’anni dopo il percorso di verità e giustizia è stato compiuto?
Rapporti di esperti Onu, di ong e studiosi hanno evidenziato che non è ancora emersa tutta la verità. In particolare sui crimini commessi da esponenti dell’Fpr, un argomento tabù. Partendo da questo presupposto non c’è stata alcuna giustizia per le vittime hutu dell’Fpr.
Di fronte a numeri talmente alti di carnefici, la giustizia penale ordinaria ha un limite strutturale oggettivo. Il Tribunale penale internazionale per il Rwanda – che dovrebbe chiudere entro fine 2014 – ha processato i ‘pesci grossi’, ma soltanto una settantina dalla sua creazione 20 anni fa. Più che lasciare al solo diritto penale il compito di fare piena luce punire i colpevoli, si sarebbe dovuta includere una componente di giustizia restaurativa che andasse alle radici delle cause strutturali del genocidio.
Innovativa, e potenzialmente rivoluzionaria, è stata l’idea del governo ruandese di riadattare le corti tradizionali, i ‘Gacaca’ (piccola erba in lingua kinyarwanda), un sistema informale di risoluzione delle controversie gestito dagli ‘elders’ (anziani), per far fronte ai crimini commessi nel 1994. Dopo il genocidio i ‘Gacaca’ riemergono spontaneamente per risolvere contenziosi legati alla proprietà terriera. Con una legge ad hoc le autorità hanno formalizzato la competenza delle corti tradizionali elette dalla popolazioni locali e composte di giudici laici per giudicare i crimini di genocidio. La verità ricostruita dallo stesso popolo ruandese ha rappresentato un esperimento mai tentato prima. Sulla carta i ‘Gacaca’ – che hanno concluso il mandato nel 2012 – potevano costituire il miglior motore per la ricostruzione di una nazione da reinventare. Purtroppo le politiche della memoria attuate in Ruanda, incentrate sulla punizione del negazionismo attraverso una legge sull’ideologia del genocidio del 2008, molto ambigua, hanno fatto piombare il processo di riconciliazione nell’autocensura e le corti ‘Gacaca’ popolari sono state strumentalizzate a fini politici. Di fatto la giustizia locale è stata spesso unilaterale e parziale. La parola riconciliazione è stata declinata in maniera molto equivoca ed il Rwanda di oggi ha ancora tanta strada da fare in questa direzione.
(Intervista di Véronique Viriglio)
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CRESCITA E SVILUPPO SOSTENIBILE, UNA NUOVA ERA
Persino alcuni leader di opposizione riconoscono che a 20 anni dal genocidio il Rwanda ha registrato progressi notevoli sia sul piano economico che sociale. All’arrivo al potere del Fronte Patriottico Ruandese (Fpr) il 4 luglio 1994, molti degli edifici della pubblica amministrazione erano distrutti. Nel 1994 c’erano 600 000 orfani, 60 000 vedove e decine di migliaia di disabili sul territorio nazionale. Inoltre dall’altra parte del confine, nella città congolese di Goma, capoluogo del Nord Kivu (est), c’erano due milioni di rifugiati, di cui la maggior parte è ormai rientrata. Vista la difficile situazione è stato cruciale il contributo della comunità internazionale, la cui assistenza rappresenta ancora oggi il 40% del bilancio dello Stato, contro il 52,5% nel 2004.
Nel complesso l’utilizzo degli aiuti esterni è stato positivo. Dal 2005 il prodotto interno lordo del Rwanda è cresciuto in media ogni anno dell’8%. Nel 2012 la crescita è stata del 7,7% e in base alla stima della Banca di sviluppo africana il tasso previsto per l’anno in corso si attesta attorno al 7%.
Il settore agricolo, che impiega il 73% della forza lavoro, ha registrato una crescita inferiore del 3% circa, in parte dovuta a piogge insufficienti. Tuttavia la qualità dalle principale coltura di sussistenza, il caffè, sta migliorando e il rendimento è aumentato del 25% nel 2012. Ora gli sforzi si stanno concentrando sul valore aggiunto della produzione; nel 2013 già il 10% del caffè ruandese – un’arabica di prima scelta classificato tra i migliori caffè di eccellenza, venduti da Starbucks e Marks & Spencer – è stato tostato in loco. Ulteriori investimenti per migliorare sementi, fertilizzanti e attrezzature agricole potrebbero accrescere ancora i rendimenti.
Anche se negli ultimi anni il contrabbando dei minerali congolesi ha reso difficile la distinzione tra produzione locale da una parte, cassiterite, coltan, oro, tantalio e stagno trafugati in Congo e re-esportati dall’altra, il Rwanda è riuscito a sviluppare il settore. Il meccanismo di tracciabilità e certificazione introdotto dalla Conferenza internazionale della regione dei Grandi Laghi (Cirgl) dovrebbe acconsentire a tutti i suoi Stati membri, Rwanda incluso, di comprovare l’origine non bellicosa dei suoi minerali, quindi consentirne l’esportazione. Già oggi il settore minerario registra una crescita annua del 10% oltre ad essere la terza fonte di introiti tra i prodotti esportati. L’obiettivo è quello di aumentare le entrate minerarie fino a 400 milioni di dollari nel 2017 grazie a recenti investimenti governativi e di alcune società canadesi nelle miniere di oro.
Se il settore minerario e l’industria stanno crescendo al ritmo annuo del 6%, quello del tessile e dell’agroalimentare è superiore (9% nel 2012) ma sono i servizi a registrare una crescita ancora più elevata del 14%, grazie allo sviluppo di banche, assicurazioni e turismo. Nel 2012 da solo il turismo ha fatto affluire nelle casse dello Stato più introiti che minerali, tè e caffè insieme. L’espansione del settore turistico è l’effetto indotto dalla sicurezza del clima degli affari in Rwanda, secondo dietro le Mauritius nella classifica stilata dalla Banca Mondiale sul “mondo degli affari” in Africa.
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CRESCITA E SVILUPPO SOSTENIBILE… (2)
Il Rwanda ambisce a diventare il perno della regione. Motivo per cui quasi un quarto del bilancio dello Stato è destinato alle infrastrutture. Una rete di 2300 km di fibra ottica per le telecomunicazioni è stata ultimata due anni fa e ha permesso di migliorare l’accesso ai servizi su banda larga. Inoltre il 70% della popolazione ha accesso alla rete di telefonia mobile. Circa l’1,6% del bilancio pubblico ruandese è destinato alle tecnologie dell’informazione, alla pari con l’Unione europea. Il Rwanda è il paese pilota per la strategia di espansione di Microsoft in Africa. Più di 400 scuole sono dotate di computer e a Kigali c’è un totale accesso gratuito alla rete Wi-fi. La strategia ‘Vision 2020’ si prefigge di migliorare l’accesso di tutti all’elettricità, dal 6% del 2008 al 70% nel 2017. Nel 2012 l’accesso alla corrente si è attestato attorno al 16%. Per raggiungere il traguardo il governo sta lavorando al potenziamento della capacità produttiva da 110 a 563 megawatt entro il 2017, puntando su torba, metano, energia idroelettrica, solare e geotermica. Il nuovo aeroporto internazionale di Bugesera dovrebbe essere inaugurato sempre nel 2017.
A influire positivamente sul clima degli affari è il basso livello di corruzione. Secondo Trasparency International il Rwanda è il quarto paese meno corrotto di tutta l’Africa. Una buona pagella che sta facendo affluire sempre più investitori stranieri – con più di 159 milioni di dollari di investimenti nel 2012 – in particolare nel settore bancario, edile, dell’energia, del turismo e dell’agroindustria. Anche le rimesse della diaspora ruandese sono aumentate in modo esponenziale da 25 milioni di dollari nel 2006 a 172 milioni sei anni dopo, dando un contributo decisivo al successo economico del paese e ad uno sviluppo sostenibile. Negli ultimi 20 anni la superficie forestale si è ampliata del 37%. Principale punto di debolezza dell’economia nazionale rimane lo squilibrio strutturale della bilancia commerciale: le esportazioni coprono soltanto un quarto delle importazioni.
Sul piano sociale i donors del Rwanda riconoscono gli sforzi attuati per realizzare gli Obiettivi di sviluppo del Millennio. Il 18% del bilancio pubblico è destinato alla sanità. La mortalità dei bambini di meno di 5 anni è diminuita da 103 al 54 per mille tra il 2008 e il 2011. Dimezzato tra il 2002 e il 2012 il tasso di prevalenza dell’Aids/Hiv tra le persone di età compresa tra 15 e 49 anni, che si attesta attorno al 3%. I tre quarti dei circa 11,46 milioni di abitanti hanno accesso all’acqua potabile e il 98% hanno un’assicurazione sanitaria. Per il New York Times si tratta di un “successo storico”.
Stessi risultati nell’istruzione (15,5% del bilancio nel 2012) con un tasso di scolarizzazione del 91,7% dei bambini nella scuola primaria mentre l’83,7% dei giovani tra 15 e 24 anni è alfabetizzato. L’Istituto di scienza e tecnologia di Kigali è un polo di eccellenza riconosciuto in tutta l’Africa. Nel contempo è anche diminuita la percentuale dei ruandesi che vivono sotto la soglia di povertà, passata dal 78 al 45% tra il 1994 e il 2012, ma rimane ancora molto da fare. In Rwanda più che altrove vale l’equazione in base alla quale senza il contributo delle donne la battaglia per lo sviluppo non può essere vinta. Il paese non ha avuto altra scelta dopo il genocidio nel quale più uomini hanno perso la vita. Questo squilibrio demografico tra donne e uomini si è rispecchiato nel registro elettorale: nel 2008 le donne hanno rappresentato il 55% degli aventi diritto. Anche per la rappresentatività delle donne nelle istituzioni il Rwanda è ai primi posti al livello mondiale. In parlamento il 64% dei deputati sono donne, che occupano 51 seggi su 80. Il 47% dei membri del governo sono di sesso femminile così come il 38% dei senatori. Nelle scuole medie il 52% degli alunni sono ragazze. Il paese può essere considerato un regime autoritario ma è un dato di fatto che un nuovo Rwanda sta vedendo la luce.
(François Misser, traduzione Véronique Viriglio)
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L’OMBRA DEL GENOCIDIO SUI RAPPORTI CON I VICINI
A 20 anni dal genocidio contro tusti e hutu moderati, il Rwanda fa fatica a ricucire rapporti particolarmente tesi con alcuni dei suoi vicini.
Ancora oggi le relazioni con la Repubblica democratica del Congo sono molto tese per la presenza nel paese confinante di soggetti coinvolti nel genocidio, esponenti delle Forze democratiche di liberazione del Rwanda (Fdlr). Un altro vicino, la Tanzania, viene accusata di sostenere forze anti-Kigali con l’obiettivo di destabilizzare il regime del presidente Paul Kagame.
Le relazioni tra Kigali e Dodoma si sono deteriorate dopo che nel 2013 il presidente tanzaniano Jakaya Kikwete ha invitato il suo omologo ruandese di aprire un dialogo con le Fdlr. Un appello respinto da Kigali. Come conseguenza diretta dell’inasprimento dei rapporti bilaterali la Tanzania ha espulso migliaia di ruandesi rifugiati sul suo territorio nazionale da 40 anni. Il presidente Kagame ha minacciato di attaccare il paese vicino. Colloqui diretti avuti a Kampala tra i due capi di Stato hanno contribuito a far abbassare la tensione politica, ma i motivi di attrito permangono sotto la superficie.
“Se sono coinvolti nel genocidio vanno arrestati, processati e puniti. Ma la maggior parte degli esponenti delle Fdlr sono giovani uomini nati nel 1994 o che avevano pochi anni durante il genocidio. Quindi si tratta per lo più di individui che hanno tutto il diritto di partecipare alla vita politica nel proprio paese di origine” aveva detto nel luglio 2013 il ministro degli Esteri tanzaniano, Bernard Membe.
Fonti ufficiali ruandesi hanno respinto questa considerazione, rispondendo che “le Fdlr sono guidate da dirigenti che hanno le mani sporche di sangue, sono costituite dai figli di chi ha commesso il genocidio e continuano a portare avanti l’ideologia del genocidio”.
Inoltre, secondo alcune fonti di stampa ruandesi, di recente la Tanzania ha facilitato lo svolgimento di una riunione di alcuni esponenti dell’opposizione ruandese, tra cui l’ex primo ministro Faustin Twagiramungu e leader di diverse formazioni politiche – tra cui il Rwanda National Congress (Rnc) e Fdlr – per favorire l’unità dell’opposizione. Un’accusa respinta formalmente dall’ambasciata tanzaniana a Kigali.
Secondo Kigali l’obiettivo di tale riunione, tenuta in Tanzania, era quello di dare una ‘copertura’ alle Fdlr per costruire un’immagine accettabile e spingere le autorità ruandesi ad aprire un colloquio con loro. “Se questo non dovesse bastare per spingere il Rwanda ad aprire colloqui, è già pronta un’altra strategia: l’uso della forza. Questa seconda fase si sta già facendo strada” scrive un articolo pubblicato nei mesi scorsi su un sito internet ruandese.
Il 1° marzo 2014 il partito di Twagiramungu – Rwanda Dream Initiative – ha costituito una coalizione in Belgio con le Fdlr, il Partito Sociale e l’Unione democratica ruandese, chiamata ‘Coalizione dei partiti politici per il cambiamento’, il cui primo obiettivo è chiedere al governo l’apertura di colloqui sula questione del ritorno in patria dei rifugiati, con il sostegno della comunità internazionale. Uno scenario che appare remoto visto che le Fdlr hanno ancora il marchio di organizzazione coinvolta nel genocidio. La coalizione dovrebbe cambiare nome e liberarsi dei suoi membri ‘compromessi’ nei massacri.
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L’OMBRA DEL GENOCIDIO… (2)
Nella mente delle autorità ruandesi, la Tanzania sta lavorando con la Repubblica democratica del Congo alla ‘trasformazione’ delle Fdlr – il cui ultimo obiettivo è quello di attaccare il Rwanda – piuttosto che di procedere al disarmo dei suoi membri, nonostante l’impegno preso nell’ambito della brigata di intervento speciale dell’Onu. Dopo la disfatta militare del Movimento del 23 marzo (M23) – sostenuto da Kigali – lo scorso novembre, l’attenzione delle truppe regolari congolesi (Fardc) e dei caschi blu della Monusco si è spostata sui ribelli ugandesi delle Forze democratiche alleate- Esercito nazionale per la liberazione dell’Uganda (Adf-Nalu). Una scelta che ha spinto Kigali ad interrogarsi sulla logica e le motivazioni che hanno fatto slittare il disarmo dei ribelli ruandesi.
Le tensioni tra Tanzania/Rdc da una parte e Rwanda/Uganda dall’altra hanno avuto ripercussioni all’interno stesso della Comunità dell’Africa orientale (East African Comunity) con il Kenya che ha costituito con Rwanda e Uganda una ‘Coalizione dei volenterosi’. Dai progetti comuni in corso di realizzazione sono invece esclusi Tanzania e Burundi. Bujumbura è entrata a far parte dell’asse Dodoma-Kinshasa.
Da 20 anni non si sono mai normalizzate le relazioni tra Kigali e Kinshasa. Fonti di stampa e osservatori ruandesi accusano le autorità congolesi non solo di non aver disarmato gli hutu ruandesi ma di aver reclutato esponenti delle Fdlr nei ranghi delle forze armate regolari congolesi (Fardc). Sono in tanti a Kigali a credere che la Tanzania stia utilizzando il territorio congolese per provocare il Rwanda. Queste tensioni incrociate hanno spinto Kinshasa a fare affidamento sulla Comunità di sviluppo dell’Africa australe (Sadc) per tutelare la propria integrità territoriale. Attualmente Tanzania, Malawi e Sudafrica fanno parte della brigata di intervento speciale dell’Onu, che ha sconfitto l’M23. In passato Zimbabwe, Namibia e Angola sono intervenuti a sostegno di Kinshasa contro i ribelli attivi nell’est.
Fuori dal continente africano, nonostante vari tentativi, rimangono tese anche le relazioni tra Kigali e Parigi. Il Rwanda accusa la Francia di avere sostenuto gli autori del genocidio sin dall’inizio degli anni 90’ e finora i giudici francesi si sono sempre rifiutati di estradare presunti responsabili del genocidio che hanno trovato rifugio sul territorio nazionale. In Rwanda la Francia non ha ancora ritrovato la posizione influente ricoperta prima del genocidio.
Nel contempo il Rwanda – ex colonia belga di lingua francofona – ha adottato l’inglese come lingua ufficiale ed è entrato nel Commonwealth. Nonostante la condanna in primo grado a 25 anni di carcere per Pascal Simbikangwa nel primo processo per genocidio celebrato in Francia il mese scorso, Kigali continua ad accusare Parigi di sottrarre volontariamente alla giustizia i responsabili del genocidio. Tra i nomi eccellenti che non sono stati estradati a Kigali ci sono Claude Muhayimana e Innocent Musabyimana.
La Francia può aprire procedimenti e chiedere l’estradizione di presunti autori del genocidio residenti in Germania e In Belgio. Lo scorso febbraio una corte tedesca ha condannato a 14 anni di prigione un ex sindaco ruandese per crimini commessi nel 1994.
(Paul Kamazi, traduzione Véronique Viriglio)
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GIUSTIZIA, TRA CONDANNE E IMPUNITÀ
A 20 anni dal genocidio giustizia è stata fatta, ma solo in parte. Alcuni dei pianificatori sono tutt’ora liberi. Tra questi anche commercianti d’armi, politici e banchieri che sono alla radice dei massacri, finanziandoli e organizzandoli, ma non sono mai stati processati. Non sono stati puniti neanche i crimini commessi dall’esercito vittorioso, arrivato al potere nel luglio 1994.
“La sfida era difficile” ha sottolineato Eric Gillet, ex vice presidente della Federazione internazionale dei diritti umani (Fidh), con sede a Parigi. Da una parte bisognava evitare ogni forma di impunità, ma dall’altra era necessario impedire che un intero gruppo – gli hutu – fosse considerato colpevole.
Nel novembre 1994 è stato istituito il Tribunale penale internazionale per il Rwanda (Tpir, con sede ad Arusha), incaricato di processare quanti responsabili di atti di genocidio e di altre gravi violazioni dei diritti umani in Rwanda o da cittadini ruandesi in paesi vicini tra il 1° gennaio e il 31 dicembre 1994. Come previsto dal calendario dei lavori, le inchieste del Tpir si sono concluse nel 2010 e le decisioni in appello dovranno essere comunicate entro la fine del 2015. Uno dei processi storici è stato quello a carico di Jean Kambanda, primo ministro del cosiddetto governo ad interim costituito il 9 aprile 1994, condannato all’ergastolo nel settembre 1998. E’ durato sette anni il processo ai “media dell’odio”, tra il 2000 e il 2007. Ferdinand Nahimana, uno dei fondatori della Radio Television Libre des Mille Collines (Rtlm), è stato condannato a 30 anni di carcere. In tutto il Tpir ha emesso 47 condanne e ha prosciolto 12 persone.
Tuttavia la giustizia umana è imperfetta. I sopravvissuti sono stati shockati per il proscioglimento in appello, nel 2009, di Protasi Zigiranyirazo, noto come ‘Mister Z’, l’ex prefetto di Ruhengeri e cognato del presidente Habyarimana. I suoi legali hanno basato la loro difesa sul fatto che non c’era alcuna prova del suo coinvolgimento nella pianificazione del genocidio. D’altra parte nove pianificatori del genocidio sono tutt’ora latitanti, tra cui uno dei principali finanziatori dei massacri, l’uomo d’affari Felicien Kabuga, visto per l’ultima volta in Kenya 20 anni fa.
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GIUSTIZIA, TRA CONDANNE… (2)
Un altro versante della giustizia è stato affidato al Rwanda, dove è stato processato il più gran numero di assassini e pochi organizzatori. La stragrande maggioranza degli imputati è stata giudicata dalle corti comunitarie ‘gacaca’, in attività dal 2002 al 2012. In un decennio circa 160000 ‘Inyangamugayo’ (onesto in lingua kinyarwanda) giudici eletti hanno esaminato 1,9 milioni di casi. Circa il 30% degli imputati è stato prosciolto. Uno su dieci è stato condannato all’ergastolo. La maggior parte dei colpevoli è stata punita con pene dai 5 ai 25 anni di carcere, spesso commutate in lavori di pubblica utilità nel caso in cui i crimini venivano confessati.
Per le autorità ruandesi le corti ‘gacaca’ sono state un successo in termini di giustizia e di riconciliazione nazionale. Il governo di Kigali ha inoltre evidenziato che, in un paese a terra, rappresentavano l’unica risposta realistica a una sfida così grande. In molti hanno riconosciuto alle corti popolari il grande merito di aver ridotto il numero dei detenuti, da 140 000 nel 2003 a 58 000 nel 2013.
Tra le critiche mosse da organizzazioni di difesa dei diritti umani, la mancanza di competenze legali dei giudici popolari così come il fatto che a difendere gli imputati non sono stati avvocati professionisti. Altro motivo di malcontento è stato il mancato risarcimento delle vittime. Su quest’ultimo punto va sottolineato che difficilmente l’amministrazione di un paese a terra avrebbe potuto far fronte al pagamento di indennizzi ai sopravvissuti.
Inoltre un certo numero di processi è stato celebrato in paesi terzi – Germania, Belgio, Svizzera, Canada – dove i tribunali locali sono competenti per giudicare il crimine di genocidio. Tuttavia in alcune nazioni la giustizia è stata molto lenta, per non dire riluttante nel processare gli assassini anche se le corti locali sono state dichiarate competenti. In Francia ci sono voluti 20 anni per vedersi aprire il primo processo per genocidio: quello celebrato a Parigi tra lo scorso febbraio e marzo a carico dal capitano Pascal Simbikangwa, condannato in primo grado a 25 anni di carcere. La mancanza di ‘entusiasmo’ delle autorità francesi viene ricollegata all’imbarazzo che potrebbero generare alcune testimonianze sul sostegno dell’amministrazione di Parigi al regime hutu durante il genocidio. Alcuni miliziani Interahamwe sono stati addestrati da ufficiali francesi prima e durante i massacri. Il 27 aprile 1994 la Francia è stata l’unico paese al mondo ad aver ricevuto esponenti del governo ruandese durante il genocidio.
Un altro limite della giustizia riguarda il mancato procedimento giudiziario a carico di banchieri, donatori e commercianti d’armi. Nonostante l’embargo sulle armi decretato dall’Onu, anche dopo la caduta del regime hutu nel 1994, diversi ordini di armi sono stati pagati dalla Banca nazionale del Rwanda. Anche fondi della Banca mondiale sono stati “sistematicamente” utilizzati per comprare equipaggiamenti militari tra il 1990 e il 1994.
In conclusione, al di là del genocidio dei 100 giorni, i crimini commessi dall’Esercito patriottico ruandese, incluso il massacro di 4000 persone a Kibeho nell’aprile 1995, sono rimasti impuniti, rendendo la riconciliazione molto difficile.
(François Misser, traduzione di Véronique Viriglio)
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IL PAPA AI VESCOVI, “AVANTI SU CAMMINO RICONCILIAZIONE”
“La Chiesa è impegnata alla ricostruzione di una società ruandese riconciliata (…) Ancora oggi ci sono ferite profonde da guarire, perciò è importante superare i pregiudizi e le divisioni etniche e proseguire sul cammino della riconciliazione”: lo ha detto il Papa Francesco nel messaggio consegnato ai presuli della Conferenza episcopale del Rwanda durante la loro visita ‘Ad Limina Apostolorum’ di giovedì scorso.
Il Pontefice si è associato al dolore dei ruandesi e ha assicurato la sua preghiera per quanti soffrono ancora, per tutto il popolo del Rwanda, “senza distinzione di religione, di etnia o di scelta politica”.
A 20 anni dal genocidio il Santo Padre ha incoraggiato i vescovi a “perseverare in questo impegno”, sottolineando che “il perdono delle offese e la riconciliazione autentica che potrebbero sembrare impossibili in un’ottica umana sono invece un dono che è possibile ricevere da Cristo, attraverso la vita di fede e la preghiera”. Papa Francesco ha, però, riconosciuto che “il cammino è lungo e richiede pazienza, rispetto reciproco e dialogo”.
Di qui l’esortazione ai vescovi ad andare “risolutamente avanti” nel testimoniare la verità evangelica con il dinamismo della fede e la speranza cristiana. Solo stando uniti nell’amore, è stata la sua esortazione, “possiamo fare in modo che il Vangelo tocchi e converta i cuori in profondità”. E’ allora importante, ha ribadito il Papa, che, “superando i pregiudizi e le divisioni etniche, la Chiesa parli ad una sola voce, manifesti la sua unità e riaffermi la comunione con la Chiesa universale e con il Successore di Pietro”. In questa prospettiva di “riconciliazione nazionale”, ha esortato, “è anche necessario di rinforzare le relazioni di fiducia tra la Chiesa e lo Stato”. Il 6 giugno prossimo ricorrerà il 50° anniversario delle relazioni tra Rwanda e Santa Sede. Un dialogo costruttivo e autentico con le autorità, ha affermato Francesco, “non potrà che favorire l’opera comune di riconciliazione e ricostruzione della società sui valori della dignità umana, della giustizia e della pace”.
Nel suo discorso il Papa ha anche messo l’accento sull’importanza dell’educazione dei giovani, del ruolo dei laici per la sfida dell’evangelizzazione e della formazione dei sacerdoti. Dal Pontefice un incoraggiamento a coloro che negli Istituti religiosi si dedicano a quanti sono stati feriti dalla guerra, nell’anima come nel corpo. Un pensiero particolare è andato agli orfani, ai malati e agli anziani. “L’educazione della giovinezza – ha evidenziato il Papa – è la chiave dell’avvenire in un paese dove la popolazione si rinnova rapidamente”. In conclusione il Pontefice ha affidato il popolo ruandese alla protezione della Vergine di Kibeho.
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Domenica 06 Aprile,2014 Ore: 17:56
 
 
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