- Scrivi commento -- Leggi commenti ce ne sono (0)
Visite totali: (289) - Visite oggi : (1)
Questo giornale non ha scopo di lucro, si basa sul lavoro volontario e si sostiene con i contributi dei lettori Sostienici!
ISSN 2420-997X

Canali social "il dialogo"
Youtube
- WhatsAppTelegram
- Facebook - Sociale network - Twitter
Mappa Sito

www.ildialogo.org Il Sudafrica che non vedremo,

Il Sudafrica che non vedremo

Inchiesta della Rivista Popoli giugno/luglio 2010


Cammini di giustizia - giugno/luglio 2010
Inchiesta
Il Sudafrica che non vedremo
I Mondiali di calcio sono un'occasione per far conoscere i passi avanti compiuti dalla fine dell'apartheid. Ma la manifestazione è un volano per lo sviluppo o nasconde scompensi sociali ed economici? Viaggio dietro le quinte dell'evento sportivo dell'anno, con uno sguardo al 2014...
Mara Nazari
CITTÀ DEL CAPO (SUDAFRICA)

 AFP

AFP

Pensava di aver toccato il fondo, Ann Le Roux, quando ha lasciato il suo quartiere residenziale di Johannesburg e si è trovata a Krugersdorp, in periferia, a condividere una tenda di plastica con la figlia, i quattro nipoti e due sconosciuti. Non aveva più nulla: quell'ammasso di tende, camper e caravan sfondati era diventata la sua unica possibilità di avere un tetto. A viverci da cinque anni - senza acqua corrente, elettricità e riscaldamento - altri 450 sudafricani bianchi in condizioni di povertà estrema. Come lei, avevano perso il lavoro, bruciato i loro risparmi e venduto tutto ciò che possedevano. Dopo la morte del marito, Ann Le Roux aveva cominciato a vendere gli abiti che usava per uscire a cena, poi è stato il turno dei mobili e, infine, della casa. A 60 anni, in un campo che si riempie di fango e di topi ogni volta che piove, pensava che la sua discesa agli inferi fosse terminata finché, pochi giorni dopo che al Sudafrica è stata assegnata la Coppa del mondo di calcio, ha capito che la situazione poteva ancora peggiorare.

BIANCHI AI MARGINI
Una decisione del governo locale, infatti, ha confermato i suoi timori: Krugersdorp doveva essere rasa al suolo per fare spazio a un maxischermo da cui i turisti rimasti fuori dagli stadi avrebbero potuto guardare le partite, tifare la propria nazionale e applaudire i goal. E loro, gli abitanti, dovevano scomparire, allontanarsi il più possibile da quella messa in scena di se stesso che il Sudafrica sta costruendo in occasione dei Mondiali. Ma Hugo van Niekerk e la moglie Irene hanno deciso di lottare per impedirlo: dopo aver studiato le leggi in materia e trovato un avvocato disposto a difenderli gratis, hanno portato il caso in tribunale. «L'unica alternativa che ci hanno offerto era una specie di discarica, accanto a una township nera - spiega van Niekerk -. Era anticostituzionale, ecco perché abbiamo vinto la causa. Anche se siamo bianchi». Il caso Krugersdorp è come una crepa profonda in quella Rainbow nation (Nazione arcobaleno) che il governo di Pretoria ha bisogno di promuovere all'estero. «Stiamo vivendo un apartheid al contrario - continua -, ma i politici fanno finta che non sia vero, per questo ci vogliono nascondere».
Ann Le Roux annuisce, calibra le parole come se, pronunciandole, volesse liberarsi della sua storia. «Nessuno ci dà lavoro perché siamo bianchi. È assurdo. Pensa, quando il giudice ha deciso che potevamo rimanere qui, io ho festeggiato. Ero felice, perché non mi avevano deportata». C'è una frustrazione impotente, nella sua voce, la stessa che si sta diffondendo tra quei 450mila sudafricani bianchi che vivono sotto la soglia della povertà. Venute a mancare le garanzie create su misura durante l'apartheid (sussidi governativi e posti di lavoro statali) e sostituite invece dal Black Economic Empowerment (un programma governativo per dare ai neri le opportunità lavorative che prima erano loro negate), i bianchi non riescono a trovare una collocazione in quello che ormai tutti chiamano il «Nuovo Sudafrica».

LA RIVINCITA DI RENE
Lo stesso, però, vale per i molti neri e coloured (i nati da unioni tra bianchi e africani secondo le classificazioni in uso nell'apartheid), confinati nelle township a vent'anni dalla caduta dell'apartheid. In attesa della tanto promessa occasione di riscatto, si trovano a loro volta oscurati dietro l'immagine dell'«Africa-che-sorride» costruita da Pretoria a uso e consumo dei visitatori. Chiamati, questi ultimi, a contribuire allo 0,5% del Pil riempiendo stadi, alberghi e ristoranti. Per accoglierli, il governo ha investito quasi due miliardi di euro. «Ci sono più stanze d'albergo che lastre di lamiera per noi - è il commento di Rene Onverwag, 38 anni passati senza mai vivere in una casa di mattoni -, ma non importa, siamo uno spettacolo troppo triste per i turisti, faranno in modo che non ci vedano». A 1.600 km da Krugersdorsp, ne condividono il destino. Rene soffia di rabbia dentro il fischietto. Un fischio lungo per ordinare alle sue allieve di correre. La sua penultima casa era fatta di plastica e legno sulla statale che porta all'aeroporto di Città del Capo. Fino a sei mesi fa ci abitavano un centinaio di persone. Poi li hanno sgomberati, avrebbero potuto attirare l'attenzione dei turisti chiusi nei loro taxi con aria condizionata. Così li hanno mandati in periferia in una distesa di baracche tutte uguali, piene di sfollati e disoccupati. La speranza del sindaco è che non decidano di attirare l'attenzione.
Fischia di nuovo, fa un gesto con la mano: flessioni, subito, dopo venti minuti di corsa veloce. Sembra che le alleni a fare la guerra. È nata per rabbia, infatti, la sua squadra di netball (sport simile alla pallacanestro) campionessa tra le township di Città del Capo. «A forza di scappare dagli sgomberi - prova a ridere - hanno le gambe buone. Manca tutto il resto, però». In quattro non hanno le scarpe, le altre fanno le pause a turno per accudire i fratelli più piccoli. Urla qualcosa in afrikaans e Tammy, il capitano, si mette al centro e prova i lanci: tra poco inizierà un nuovo torneo. Rene vuole vincere, è la sua sfida personale alla città, vuole dimostrare che, anche senza nulla (nemmeno una formazione ufficiale, dato che chi trova un lavoretto abbandona subito), non riusciranno ad annientarle. Ecco perché vuole quel trofeo di carta, per portare le sue allieve a sfilare a Città del Capo, davanti al nuovo stadio gremito. A fermarla, però, potrebbe essere il blocco dei minibus, quei furgoncini stipati di passeggeri che hanno sempre usato per andare alle partite. Per loro, come per tutti i sudafricani che non possiedono un'automobile, sono l'unico mezzo disponibile.

L'APARTHEID DEI BUS
In un'altra tardiva operazione di cosmesi, il ministero dei Trasporti aveva deciso di bandirli per tutta la durata dei Mondiali, almeno nelle tratte cosiddette turistiche e in quelle che portano negli stadi. Al loro posto, i nuovi mezzi della Bus Rapid Transport (Brt), la nuova e costosa linea di autobus creata ad hoc per i Mondiali. Patricia, portavoce dei lavoratori di periferia, temeva il peggio: «Dovremo scegliere: o non andare al lavoro, o spendere tutto lo stipendio per pagare i Brt». A protestare, anche i conducenti. «Questo significa che noi rimarremo tagliati fuori dal business dei Mondiali - grida Sisi, che guida un minibus da decenni -. Ci saranno migliaia di famiglie che perderanno un reddito: quelle degli autisti come me, quelle di chi raccoglie i soldi e di chi vende cibo e gadget nelle stazioni».
Conel Mackay, il portavoce di Brt, aveva diffuso una nota in cui prometteva che il business dei minibus sarebbe rimasto intatto. La sola creazione di corsie preferenziali aveva però messo in crisi gli autisti. «Ci affolleremo tutti sulle tratte libere - si sfogava Sisi - ci faremo concorrenza tra di noi rischiando di viaggiare semivuoti e di non coprire nemmeno i costi della benzina». Vibravano di rabbia anche le stazioni: saranno i turisti a strozzarci, si lamentavano gli autisti, magari invece del taxi prenderanno gli autobus di linea, pensando di contribuire all'economia locale. Per loro, in fondo, i minibus non saranno mai esistiti.
Johannesburg, proprio per questo, ha vissuto ad aprile due giorni di sciopero dopo che la Brt ha, di fatto, sostituito i minibus sulla tratta tra la città e Soweto, la township dove nel 1976 iniziarono le proteste che poi, nel 1994, portarono alla caduta dell'apartheid. Le proteste sono anche sfociate in attentati alle linee dei bus che hanno provocato diversi feriti e un morto. Per tranquillizzare autisti e utenti, il governo a maggio ha sospeso il servizio Brt. Ma non è detto che non lo ripristinerà.


ECONOMIA
Ricchezza, ma non per tutti

Il Sudafrica è un Paese a due velocità in cui convivono livelli di benessere simili a quelli delle economie più avanzate e livelli di povertà al limite della sussistenza. Il Paese è ricchissimo di materie prime (è il primo produttore mondiale di platino, il terzo di oro e il quarto di diamanti), ha imprese all'avanguardia in settori chiave come le telecomunicazioni, l'energia e i trasporti, ha una Borsa valori tra le più importanti al mondo (per capitalizzazione la prima in Africa e la 16ª in assoluto). Questa ricchezza è ancora controllata in gran parte dalla minoranza bianca la quale, se è vero che con la fine dell'apartheid ha ceduto alla maggioranza nera il potere politico, non ha mai rinunciato alla leadership economica. Manager e impiegati bianchi hanno redditi simili a quelli europei. Non solo: il 70% delle terre coltivabili sono in mano ad agricoltori bianchi.

A fare da contraltare c'è la miseria in cui vive la stragrande maggioranza della popolazione nera: il 43% dei sudafricani vive infatti al di sotto del livello di povertà (un dollaro al giorno), due milioni di famiglie abitano in bidonville, la disoccupazione interessa il 40% della forza lavoro. Questa situazione porta con sé un forte divario di reddito. Secondo la lista degli Stati stilata dall'Onu in base al livello di distribuzione del reddito in ciascun Paese, il Sudafrica è al 116° posto su 124 Paesi (l'Italia è 52ª).

Per far fronte a questa sperequazione, il governo di Pretoria ha cercato di varare alcune politiche di «discriminazione positiva», che però non sempre hanno avuto successo. Nel 1994, per esempio, il primo governo dell'Anc si è posto come obiettivo la redistribuzione a contadini neri di almeno il 30% delle terre coltivabili (24,6 milioni di ettari) entro il 2014. Nel 2009 però erano stati ridistribuiti solo 5,5 milioni di ettari, cioè il 6,7% delle terre coltivabili. Non solo, il 90% di questi appezzamenti ridistribuiti, secondo quanto ha denunciato Gugile Nkwinti, ministro delle Riforme agrarie, è oggi improduttivo e rischia di essere nuovamente venduto agli agricoltori bianchi.

Nel 2003, il governo di Thabo Mbeki ha poi promosso una legge (Black Economic Empowerment Act) per favorire la formazione di manager africani da inserire in società a fianco di imprenditori bianchi. Grazie a questo provvedimento, negli anni si è andata creando una piccola classe media nera, che ha raggiunto i livelli di reddito dei colleghi bianchi.

Enrico Casale
 

CRIMINALITÀ RECORD

La criminalità diffusa è uno dei problemi che preoccupano maggiormente gli organizzatori dei Mondiali di calcio. I dati forniti dall'Interpol parlano chiaro: nel biennio 2008-2009 in Sudafrica si sono registrati 2,1 milioni di reati. Di questi, un terzo sono crimini contro la persona tra cui 18mila omicidi e altrettanti tentati omicidi, 71.500 violenze sessuali, 121mila furti con gravi conseguenze. Secondo le statistiche mondiali fornite dalle Nazioni Unite, il Paese è al secondo posto per omicidi (0,49 su 1.000 abitanti), dietro alla Colombia (0,61/1.000) e davanti alla Giamaica (0,32/1.000), l'Italia è al 47° posto (0,01/1.000); al primo posto per violenze sessuali (1,19 su 1.000 abitanti), davanti a Seychelles (0,78/1.000) e Australia (0,77/1.000), l'Italia è al 46° posto (0,04/1.000); al primo posto per rapine (12,07 su 1.000 abitanti), davanti a Monserrat (10,27/1.000) e a Mauritius (8,76/1.000), l'Italia è al 37° posto (0,5/1.000).
 

I chiaroscuri della Nazione arcobaleno
Raymond Perrier *
JOHANNESBURG (SUDAFRICA)

Sebbene la nazionale sudafricana abbia poche possibilità di vincere, i sudafricani sentono di aver già conquistato i Mondiali di calcio. Per la prima volta, dall'11 giugno all'11 luglio, l'Africa ospiterà il più grande evento sportivo mondiale. In Sudafrica c'è grande orgoglio per essersi visti assegnare il «2010» (come viene chiamato l'evento). Naturalmente questo orgoglio nasce dalla speranza, molto pragmatica, che la manifestazione porti turisti, investimenti stranieri e denaro «sonante». C'è però qualcosa di più profondo. Questa manifestazione è simile a un esame di maturità. È vero, il Sudafrica nel 2003 ha ospitato la Coppa del mondo di cricket e nel 1995 ha ospitato e vinto la Coppa del mondo di rugby (come testimonia anche il film Invictus). Ma cricket e rugby sono discipline minori, praticate e seguite da bianchi, meticci e asiatici. Lo sport della gente comune, soprattutto dei neri, è il calcio. Ed è seguito con passione.
Sono solo 20 anni che Nelson Mandela è stato scarcerato e solo 16 anni fa si sono tenute le prime elezioni democratiche del Paese. Il Sudafrica quindi è una nazione adolescente. E, come molti adolescenti, i sudafricani tengono molto a quello che il mondo pensa di loro (anche se sostengono il contrario). Vogliono essere presi seriamente. Vogliono «giocare» con i più grandi. E i Mondiali sono l'evento che più di ogni altro permette di confrontarsi con i grandi. A partire dai fuoriclasse schierati da diverse nazionali: Ronaldo, Eto'o, Drogba, ecc. Per finire con le statistiche. I mondiali sono la fiera dei grandi numeri: 32 squadre partecipanti (su 204 che hanno cercato di qualificarsi alla fase finale); 64 partite in 30 giorni; dieci stadi favolosi; un pubblico di oltre tre milioni di spettatori paganti. E un'audience televisiva di 25 miliardi di persone nell'arco di un mese. Questo evento può essere un palcoscenico per una nazione che cerca un suo spazio fra i Paesi più grandi? La cosa importante è che il Sudafrica ospiterà il mondo e ad esso vorrà mostrare il suo volto migliore.
Alcuni aspetti di questo Paese impressioneranno i visitatori. Tutti gli stadi sono stati completati prima del tempo e quasi tutti sono stati realizzati rispettando i budget. Molti, come il nuovo Greenpoint Stadium che sovrasta la baia di Città del Capo, tolgono il respiro per la loro bellezza. Il nuovo e veloce sistema di trasporti in alcune città sarà pronto in tempo. Anche l'elaborato sistema di vendita online dei biglietti delle partite, dopo alcuni problemi iniziali, sta funzionando.
Ovviamente non tutto è filato liscio nell'organizzazione dell'evento. Ci sono ancora molti problemi da risolvere: dalla criminalità diffusa (cfr box) alle migliaia di venditori ambulanti abusivi. L'avveniristica monorotaia che unirà l'aeroporto a Johannesburg e Pretoria sarà pronta due anni dopo i Mondiali.
Ma, oltre a questi problemi, c'è un altro lato oscuro. Per anni, il Sudafrica ha accolto bene le migliaia di turisti che hanno scoperto le impareggiabili bellezze del Paese: dai parchi ai vigneti, alle spiagge. Dalla fine dell'apartheid si è però registrato anche un costante flusso di immigrati da Zimbabwe, Nigeria, Congo e altri Paesi africani. Immigrati che, a differenza dei turisti, non tornano a casa dopo due settimane. Infatti, questi ospiti sono stati accolti meno calorosamente.

CONTRADDIZIONI
Quella sudafricana è tra le economie del continente che crescono maggiormente e così attrae persone che provengono da Paesi meno stabili politicamente, meno ricchi e con meno risorse. Ma i posti di lavoro non sono infiniti e molti sudafricani che hanno sofferto in passato stanno scoprendo sulla loro pelle che la fine dell'apartheid non significa prosperità per tutti. Sfortunatamente, sebbene ormai si sia formata una classe media nera, il livello di diseguaglianza sociale in Sudafrica è cresciuto dal 1994 e, oggi, è tra i peggiori del mondo (cfr box). Molti, pur avendo patito la discriminazione a causa della razza, non hanno esitato a discriminare gli immigrati sulla base della nazionalità. Di fronte a questi problemi, la Chiesa cattolica non smette di ricordare ai sudafricani che gli uomini sono tutti uguali in quanto nati «a immagine e somiglianza di Dio» e che, quindi, la discriminazione di popolazioni di diverse nazionalità non ha ragione di esistere. La Chiesa però è anche in grado di offrire il calore dell'accoglienza, mentre molti voltano le spalle agli immigrati.
A un estraneo, la parrocchia dei gesuiti nel centro di Johannesburg sembra accogliere una massa indistinta di neri. Ma questa massa in realtà è un insieme di persone di Paesi diversi, che qui sono accolti e trattati con rispetto.
Nella parrocchia non vengono offerti solo una calorosa accoglienza e un sorriso, ma anche un aiuto materiale. Ogni mattina, viene garantito un pasto caldo a centinaia di senza fissa dimora. E una volta alla settimana, grazie alla collaborazione con l'università, chi non ha accesso alle cure mediche viene visitato e assistito nell'ambulatorio. Questo servizio ha avuto così successo che, grazie al sostegno economico fornito da alcune parrocchie inglesi, si è recentemente trasferito in locali più attrezzati. E ciò ha permesso la distribuzione di farmaci ai malati di Hiv-Aids.
Chi guarderà le partite di calcio dei mondiali probabilmente vedrà il vuvuzela, che qualcuno sostiene sia diventato lo strumento musicale sudafricano per eccellenza. Si tratta di una tromba di plastica suonata dai tifosi in ogni partita. Il suono che produce è simile a un mix tra l'urlo di un elefante costipato e il ronzare di uno sciame di api. Queste trombe possono essere un avvertimento agli immigrati e agli stranieri a non osare ad avvicinarsi al Paese. O possono essere un allegro benvenuto che suscita l'ilarità degli stranieri. Noi possiamo utilizzarle per proclamare quanto di buono la Chiesa fa qui e in altre parti dell'Africa per abbattere i muri della povertà, dell'oppressione e della discriminazione.

* Direttore del Jesuit Institute of South Africa.


CALCIO AFRICANO
Un movimento in crescita

Sono sei le nazionali africane che si sono qualificate alla fase finale del Campionato mondiale di calcio che si giocherà dall'11 giugno all'11 luglio in Sudafrica: Algeria, Camerun, Costa d'Avorio, Ghana, Nigeria e Sudafrica. Mai, in passato, la pattuglia delle squadre africane è stata così folta. Nelle ultime tre edizioni (1998, 2002 e 2006), le compagini erano cinque e, precedentemente, non erano mai state più di tre.

La ridotta presenza africana ai Mondiali ha ragioni storiche. Nel 1930, quando nacque il campionato (allora si chiamava Coppa Rimet), gran parte dei Paesi africani erano colonie europee. E, infatti, nelle prime otto edizioni non giocarono squadre africane, se si fa eccezione per il Campionato del mondo del 1934, organizzato in Italia, al quale partecipò l'Egitto, allora uno dei pochi Stati africani indipendenti.

A partire dal termine della seconda guerra mondiale, gli Stati africani divennero indipendenti. I singoli Paesi organizzarono propri campionati e le loro nazionali iniziarono a partecipare ai turni eliminatori dei Mondiali. Bisognerà però aspettare il 1970 per ritrovare una nazionale africana, il Marocco, nelle fasi finali della competizione. Da allora, la presenza africana è aumentata in quantità, ma anche in qualità. Il calcio africano, anche grazie al fatto che molti suoi giocatori militano in formazioni europee e molti allenatori europei sono diventati negli anni commissari tecnici di squadre e nazionali africane, ha conosciuto una notevole crescita sotto il profilo della tecnica individuale e di squadra. «Quello africano - spiega Giuseppe Dossena, campione del mondo 1982 con la nazionale italiana ed ex ct della nazionale ghanese - è un potenziale in gran parte inespresso a livello di Mondiali. È una miniera, ma sinora nessuno è riuscito a estrarre tutto quello che produce». E, infatti, se nei Mondiali solo due nazionali africane hanno raggiunto i quarti di finale (Camerun nel 1990 e Senegal nel 2002), in altre sedi hanno però raggiunto risultati eccellenti. La Nigeria ha vinto le Olimpiadi ad Atlanta nel 1996 e ha conquistato l'argento a Pechino nel 2008; il Camerun ha vinto le Olimpiadi 2004 a Sydney.

e.c.
 
Rio, favelas a cinque stelle
Serena Corsi
RIO DE JANEIRO (BRASILE)

Chiunque conosca Rio de Janeiro, anche solo grazie a una visita di pochi giorni, sa che si tratta di un mosaico sociale e urbanistico sui generis, dove tessere diversissime convivono a pochi metri le une dalle altre. Enormi favelas si arrampicano sui morros, le colline che danno forma alla città, mentre a valle sorgono quartieri chic e grattacieli dai cui balconi si può osservare la vita quotidiana dei concittadini favelados. I quali, dal canto loro, godono di una vista spettacolare sulla baia di Guanabara senza bisogno di aver comprato un attico.
Per i turisti l'incredibile posizione delle favelas ha sempre costituito una parte dello spettacolo di Rio, l'ennesimo aspetto da fotografare, purché da lontano. Per i media e per il governo della città, invece, esse sono il nido del male inestirpabile del narcotraffico e della criminalità che cela la faccia oscura della metropoli. Questa associazione tra favelados e crimine è stata inculcata ad arte, per anni, negli abitanti carioca. Ma come sarebbe, Rio, senza le favelas?
Dietro a quest'antica e mai realizzata idea dei governi locali o nazionali si nasconde la gola degli speculatori immobiliari di mezzo mondo. Il valore dello spazio edificabile della città è inestimabile, soprattutto quello della zona sud. Ipanema, Capocabana, Leblon e Botafogo: tutti quartieri chic. Ma è da decenni che lo spazio edificabile, ampliato all'impossibile da piani regolatori sempre più accondiscendenti, è finito. Che peccato, direbbe qualsiasi uomo d'affari, che su queste meravigliose colline con vista sull'oceano ci siano impenetrabili favelas; non solo impediscono con la loro presenza lo sviluppo edilizio, ma abbassano i prezzi delle case vicine, per intuibili motivi.
Una pressione che gli abitanti hanno sempre respinto. Entrare in zone effettivamente controllate da qualche gang di narcotrafficanti e spostare con la forza decine di migliaia di persone era una possibilità impraticabile. Così come proporre loro un indennizzo: solo una parte degli abitanti lo avrebbe accettato. E nemmeno era possibile convincerli a vendere ciascuno la propria casa, anche perché nessuna legge aveva trasformato la loro sistemazione abusiva in un titolo di proprietà. Ma da quando al Brasile è stata affidata l'organizzazione dei Mondiali di calcio 2014 e Rio è stata scelta come città ospite delle Olimpiadi 2016 gli interessi che gravitano su questa parte della città sono diventati molti, troppi perché la situazione rimanesse invariata.

L'OMBRA DELLA MAFIA
Dona Marta, nel cuore del quartiere chic di Botafogo, è una delle storiche favelas della città. È stata la prima a ricevere l'intervento della «Policia pacificadora» (Upp), un corpo addestrato a ridurre il livello di violenza e che ha sostituito il famigerato e truculento Bope (Battaglione di operazioni speciali). La cosa incredibile è che la Upp è riuscita davvero a penetrare e occupare le favelas senza resistenza opposta dai miliziani e senza spargimenti di sangue. Quasi sempre in favelas della zona sud. Come Dona Marta, appunto.
Come è stato possibile? Secondo l'avvocato João Tancredo, presidente della Commissione diritti umani dell'ordine dei giuristi carioca, la mafia qui avrebbe accettato di diminuire l'uso e la distribuzione di armi a patto che le venisse garantita la gestione dello spaccio, in vista degli affari d'oro che si profilano nei prossimi anni: «La presenza della Policia pacificadora diventa allora una garanzia del fatto che una fazione rivale non cerchi di entrare nella favela». Gli abitanti di Dona Marta scrollano la testa all'idea che i narcotrafficanti siano spariti senza tentare la via del conflitto a fuoco con la polizia. E una ricercatrice di urbanistica dell'Università di Rio rivela: «Per chi conosce le dinamiche della città, è evidente che la parte più alta e meno controllabile delle favelas è ancora la base e il nascondiglio delle cosche più potenti».
Nel frattempo, il riconoscimento di ogni abitante come proprietario di una casa, grazie al programma federale «Minha casa, minha vida», è stato giustamente salutato con favore dei favelados. Ma non è che il primo passo di un'enorme speculazione immobiliare che punta a mettere le mani sui morros meglio localizzati e con i panorami migliori: riconoscere un titolo fondiario agli abitanti significa mettere quei terreni e quelle case sul mercato. Comprandole, gli speculatori potranno poi costruirvi mansioni da rivendere a 50 volte tanto. «Per la prima volta, quest'anno degli stranieri hanno comprato una casa nella parte bassa di Dona Marta», racconta un abitante del morro. Ma come convincere in massa gli antichi abitanti a cederle, ora che sanno quanto potranno valere in futuro?
Per paradossale che sembri, ci penserà la regolarizzazione dei servizi di base, come luce, acqua e gas. A ruota della Upp, infatti, nelle favelas «prescelte» è entrata la Light, una concessionaria di servizi elettrici che ha installato un nuovo sistema di erogazione della corrente che centralizza il controllo del consumi. Prima quasi tutti erano allacciati abusivamente. Con Light e compagnia satellite aumentano elettricità, acqua e gas. Di conseguenza aumentano i prezzi dei piccoli alimentari di produzione artigianale sorti all'interno della favela. Lentamente, inesorabilmente, l'economia informale di Dona Marta boccheggia, costringendo gli abitanti ad adeguarsi ai prezzi di mercato. Ma molte volte sono disoccupati, lavoratori a giornata: come rifiutare, a quel punto, le migliaia di euro offerti da qualche impresario edile per vendere la casa e andarsene altrove, presumibilmente nella zona nord della città?
Nel giro di qualche anno, molte di queste favelas saranno abitate dalla medio-alta borghesia della città, in qualche caso da stranieri. Altrettanti favelados avranno affollato le dimenticate, e per sempre abusive, favelas della parte nord della città. E la zona che conta, quella che ospiterà Mondiali e Olimpiadi, avrà un aspetto impeccabile da offrire alle telecamere.

© FCSF - Popoli

Torna al sommario



Venerd́ 04 Giugno,2010 Ore: 18:16
 
 
Ti piace l'articolo? Allora Sostienici!
Questo giornale non ha scopo di lucro, si basa sul lavoro volontario e si sostiene con i contributi dei lettori

Print Friendly and PDFPrintPrint Friendly and PDFPDF -- Segnala amico -- Salva sul tuo PC
Scrivi commento -- Leggi commenti (0) -- Condividi sul tuo sito
Segnala su: Digg - Facebook - StumbleUpon - del.icio.us - Reddit - Google
Tweet
Indice completo articoli sezione:
Notizie dal sud del mondo

Canali social "il dialogo"
Youtube
- WhatsAppTelegram
- Facebook - Sociale network - Twitter
Mappa Sito


Ove non diversamente specificato, i materiali contenuti in questo sito sono liberamente riproducibili per uso personale, con l’obbligo di citare la fonte (www.ildialogo.org), non stravolgerne il significato e non utilizzarli a scopo di lucro.
Gli abusi saranno perseguiti a norma di legge.
Per tutte le NOTE LEGALI clicca qui
Questo sito fa uso dei cookie soltanto
per facilitare la navigazione.
Vedi
Info