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www.ildialogo.org Palestina: Campi profughi senza più diritto alle cure,di Antonietta Chiodo

Palestina: Campi profughi senza più diritto alle cure

di Antonietta Chiodo

Riprendiamo questo articolo, su segnalazione della rerazione di Pressenza, che ringraziamo, da Pressenza.com
06.10.2016 - Antonietta Chiodo
Palestina: Campi profughi senza più diritto alle cure
Mohammed Abbas
Le condizioni di vita attuali nei campi profughi palestinesi
Mi trovo all’ interno di un campo profughi creato nel 1948, Al Amari Camp, in Palestina, alle porte della città di Ramallah. Condivido i miei giorni con i profughi e come loro annuso ogni mattina l’odore della spazzatura distribuita confusamente nelle strade. Questa viene di norma “utilizzata” quotidianamente dai bambini, come gioco abituale, destreggiandosi con la scopa, spostandola il più lontano possibile. Ma l’odore non cambia, resta sempre lo stesso, acido e nauseante ad ogni ora del giorno e della notte.
Le vie sono strette e congiungono ampli agglomerati di case, tra strade talmente piccole che nei periodi delle piogge, l’acqua giunge sino alle ginocchia, creando così problemi non indifferenti soprattutto per i più piccini. La popolazione qui si aiuta da sola e nulla è gratis, neanche l’energia elettrica o la sanità. Viene da chiedersi perché i soldi raccolti dalle associazioni ed i fondi della Comunità Europea per i rifugiati, stanziati anche a favore della Croce Rossa Internazionale, non giungano mai all’interno di questi campi profughi.
Solo nella zona di Ramallah i campi profughi arrivano a 4, con una media minima di 300 famiglie a campo. Pochi studenti universitari riescono a terminare gli studi. Non hanno accesso alla scuola pubblica; la spesa media sostenuta da una famiglia è di 2.000 dollari annui per accedere alla sola università esistente, quella privata.
Gli uomini sono impegnati all’interno del campo nell’organizzazione di attività sociali e culturali a favore soprattutto di disabili e adolescenti, le donne si occupano della famiglia e di creare gruppi di lavoro per un possibile futuro economico.
Tutti hanno morti da raccontare lasciati alle proprie spalle, figli, mariti, fidanzati, non uccisi solo dalle bombe, ma spesso morti in maniera inconcepibile. Colpisce in particolar modo la morte di un padre di famiglia schiacciato da una jeep militare alcuni anni addietro all’interno del campo. La vicenda avrebbe potuto evolversi in maniera differente se solo i militari non avessero deciso di fare marcia indietro sul suo corpo per una decina di volte almeno. Gli abitanti del campo mi raccontano della loro solitudine, chiedono che la gente sappia della loro esistenza, che il mondo si accorga delle loro difficoltà e che non rimanga indifferente.
Mi avvio con la mia guida verso la sede di Red Cross Crescent, un plesso spaventosamente imponente che costeggia Al Amari Camp. Per gli addetti ai lavori basta affacciarsi a una qualsiasi finestra per entrare nelle case e nelle strade della gente.
Profughi palestinesi: tutto a caro prezzo, persino il diritto alle cure
Gli abitanti ed i responsabili del centro mi confermano che il diritto alla sanità gli è totalmente negato: l’ospedale non consente loro visite ed operazioni se non a pagamento, come profughi i loro diritti sono praticamente inesistenti. Differente è l’aiuto che viene erogato ai turisti europei e alle famiglie agiate perché accessibile con semplice modalità di ticket. Un uomo all’interno del campo racconta di avere 4 figli, per il primo parto pagò l’ospedale 200 Shekel; la cifra è aumentata a ogni nascita, arrivando sino a 500 Shekel per assicurarsi il parto del figlio più piccolo. Qui non esistono diritti tutelati dalla comunità internazionale, qui vige lo spirito di adattamento e sopravvivenza. All’interno del campo vi è un centro medico della famosa Unrwa, associazione dell’ONU che si occupa di fornire assistenza sanitaria, mentre la popolazione si lamenta del fatto che il dottore è in realtà reperibile solo su prenotazione e non disponibile per le emergenze.
Le medicine erogate gratuitamente sono solamente due, paracetamolo e un antiallergico dal nome di Cetralon. Questo antistaminico viene utilizzato dal mal di denti a dolori che possono provenire da qualsiasi infezione interna. fino a rappresentare anche l’unica cura per il cancro, che in Palestina, da studi recenti, sembra sia in continuo aumento.
 
Confezioni di Cetralon distribuite all’interno del campo
Riassumendo, il lavoro e i servizi che vengono erogati dalle ONG sono pari a zero, sembra che l’unico bisogno dei medici sia di tenere i profughi tranquilli e silenziosi. Sì perché questo “miracoloso” farmaco, il Cetralon, viene dato a donne uomini e bambini come palliativo a qualsiasi problema, compromettendo le loro attività quotidiane. Stando a quello che ci raccontano i profughi del campo, questo medicinale causa infatti forti stati di sonnolenza, mancanza di appetito, nausea e spesso anche diarrea; le madri accusano che dopo la somministrazione di Cetralon i più giovani, e non solo loro, sono costretti a letto per alcuni giorni. Ad oggi  quindi, non c’è nessuna presenza costante di reale aiuto all’interno  del campo. Le medicine non sono quasi mai reperibili e questo porta la popolazione ad auto-curarsi o chiedere assistenza al presidio ospedaliero più vicino, che però è a pagamento.
 

Informazioni sull'Autorice
Antonietta Chiodo

Nata a Roma il 2 Aprile 1976, cresciuta a Milano, mi diplomo come perito tipografo nel 1995 lavorando per alcuni anni presso il Corriere della Sera. Ho sempre amato il circuito che crea l’informazione, dal primo tassello che può definirsi la stesura di un articolo alla creazione di stampa in esso. Ero affascinata dalla stampa offset e da quella a torchio avendo come insegnanti i tipografi storici del quotidiano locale milanese. Mi sono occupata sin da bambina di diritti umani essendo cresciuta con una madre profondamente legata alla causa palestinese, cominciando così varie letture che mi hanno trascinata nell’arco degli anni a confrontarmi sempre più la cultura islamica cercando di mantenere una visione individuale ed imparziale delle dinamiche. Amare la pittura sin da bambina mi ha portata a conseguire una mini laurea di disegnatore di animazione ed a collaborare con varie associazioni per eventi grafici e pubblicitari legati al disagio umanitario. Lavori che mi hanno donato profonde soddisfazioni con associazioni quali ANLAIDS e Gruppo Abele, da qui il mio trasferimento a Torino nel 2003. Collaborato per parecchi anni come grafico per Narcomafie la cui direttrice Manuela Mareso è una da cui ho tratto grandi insegnamenti, Animazione Sociale e Cooperazione internazionale da cui nacquero 3 mini libri che vennero applauditi a Bruxelles nel 2006. Insieme ad una equipe di psicologi e mediatori culturali tracciamo sul campo la storia dei minori in Burkina Faso, Marocco e zone desertiche limitrofe trattando i temi dell’ Aids e dei minori nelle carceri. Continuai negli anni il lavoro di collaborazione con alcuni giornali locali e soprattutto con associazione del BDS per il boicottaggio dei prodotti israeliani. Inizio 2013 mi trasferì per alcuni mesi in Brasile in una scuola che si occupava di scolarizzazione e protezione per i bambini delle favelas. Rientrata obbligatoriamente causa tumulti nelle zone di Salvador de Bahia nel 2013 ripresi il mio lavoro di cronista scrivendo ed intervistando sempre in merito alla diversità di culture nelle relazioni odierne. Ho sempre condotto il mio lavoro cercando di trarre più insegnamenti possibili dalle persone che si sono trovate a percorrere con me un percorso, legata alle filosofie buddhiste cerco sempre di relazionarmi senza alcun giudizio. Non credo che la guerra possa essere un vettore per la pace, credo nei ponti, nei confronti e nell’ascolto.



Giovedì 06 Ottobre,2016 Ore: 16:59
 
 
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