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www.ildialogo.org   I. L’IRREPARABILE ERRORE DEL 1947,di <b>Assunta Daniela Veruschka Zini </b>

POLITTICO DI AUTORE
  I. L’IRREPARABILE ERRORE DEL 1947

di Assunta Daniela Veruschka Zini

Primo di una serie di reportage sulla questione israelo-palestinese.


Ogni voce che sostiene il nostro impegno di oggi è una voce preziosa di coraggio, e ogni Stato, che garantisce il sostegno, oggi, alla richiesta palestinese di cambiare di stato, sta affermando il suo sostegno al principio morale della libertà e dei diritti dei popoli e del diritto internazionale e della pace.”

Mahmud Abbas

a R

con simpatia, questa parola così bella che vuol dire “sentire con”.

Il 29 novembre scorso, il progetto di ammissione della Palestina come Stato non membro osservatore permanente, sottoposto all’Assemblea Generale dell’ONU, ha, agevolmente, raccolto la maggioranza semplice richiesta, con 138 voti a favore, 9 contro e 41 astensioni.

FAVOREVOLI

Russia, Cina, Francia, Italia, Spagna, Belgio, Austria, Svizzera, Danimarca, Norvegia, Finlandia e Svezia.

  • Francia

Questo voto, noi lo manterremo con coerenza e lucidità. Sapete che, da anni e anni, la posizione costante della Francia è stata di riconoscere lo Stato palestinese. È la ragione per cui giovedì o venerdì prossimo, quando la questione sarà posta, la Francia risponderà sì.”

aveva giustificato, a due giorni dal voto, il capo della diplomazia francese, Laurent Fabius. La questione aveva, tuttavia, acceso un dibattito ai più alti vertici dello Stato. A metà-novembre, il presidente François Hollande aveva criticato la richiesta palestinese, mettendo in evidenza il rischio di eventuali misure di ritorsione americane e il timore che la richiesta palestinese ostacolasse l’apertura di negoziati diretti tra palestinesi e israeliani. Laurent Fabius aveva, allora, ricordato il voto favorevole, sotto la presidenza di Nicolas Sarkozy, all’ingresso della Palestina all’UNESCO, nell’ottobre del 2011, e l’impegno elettorale di François Hollande di ottenere un riconoscimento internazionale dello Stato palestinese. Il Quai d’Orsay avrebbe fatto valere che questa posizione avrebbe rischiato di indebolire il presidente palestinese, Mahmud Abbas, di fronte al movimento islamico Hamas.

  • Italia

Con una virata dell’ultimo minuto, in completa antitesi con la politica filo-israeliana, sostenuta, per anni, dall’ex-presidente del consiglio, Silvio Berlusconi, l’Italia era passata dal campo degli astensionisti a quello del sì.

L’Italia ha deciso di dare il proprio sostegno alla risoluzione che attribuisce alla Palestina lo status di Stato non membro osservatore permanente all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, in occasione della votazione all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che avrà luogo fra qualche ora. Tale decisione è parte integrante dell’impegno del governo italiano volto a rilanciare il processo di pace con l’obiettivo di due Stati, quello israeliano e quello palestinese, che possano vivere fianco a fianco, in pace, sicurezza e mutuo riconoscimento. A questo fine, il governo si è adoperato in favore della ripresa del dialogo e del negoziato, moltiplicando le occasioni di incontro con le parti coinvolte nel conflitto medio-orientale, in particolare da parte del presidente del consiglio, ricevendo conferma della loro volontà di riavviare il negoziato di pace e giungere all’obiettivo dei due Stati.

Nell’anno trascorso, il governo ha consolidato ulteriormente il rapporto già eccellente con Israele, dove il presidente del consiglio si è recato due volte negli ultimi mesi. Dopo essere stato in Israele in aprile, in occasione del primo viaggio in Medio Oriente, il presidente Monti vi è tornato nuovamente lo scorso 25 ottobre, insieme ad alcuni ministri del governo, per lo svolgimento del terzo vertice intergovernativo, durante il quale sono stati firmati diversi accordi di collaborazione bilaterale. Ribadendo la centralità che per l’Italia e per l’UE ha il processo di pace, il presidente Monti ha nell’occasione manifestato la convinzione che l’assetto finale si possa basare sul principio dei due Stati per due popoli, con lo Stato palestinese che sia patria del popolo palestinese, e lo Stato d’Israele come Stato ebraico, riconoscendone la legittima aspirazione quale patria del popolo ebraico.

Il presidente del consiglio ha altresì manifestato sostegno agli sforzi dell’Autorità Nazionale Palestinese e alla leadership moderata del presidente Abbas e del primo ministro Fayyad per riavviare il negoziato di pace, contro ogni violenza ed a favore del dialogo come unica strada verso una soluzione duratura del conflitto.

La decisione italiana di sostenere la risoluzione che attribuisce alla Palestina lo status di Stato non membro osservatore permanente alle Nazioni Unite, è un incoraggiamento a proseguire sulla strada del dialogo e contro ogni estremismo. La nascita di uno Stato di Palestina membro a pieno titolo dell’ONU potrà arrivare solo ed esclusivamente con il negoziato e l’intesa diretta tra le parti.

Il presidente Monti ha telefonato al presidente Mahmud Abbas e al primo ministro Benjamin Netanyahu per spiegare le motivazioni della decisione italiana.

Nel dare sostegno alla risoluzione, l’Italia, in coordinamento con altri partner europei, ha in parallelo chiesto al presidente Abbas di accettare il riavvio immediato dei negoziati di pace senza precondizioni e di astenersi dall’utilizzare l’odierno voto dell’Assemblea Generale per ottenere l’accesso ad altre agenzie specializzate delle Nazioni Unite, per adire la Corte Penale Internazionale o per farne un uso retroattivo. A Netanyahu il presidente, nel ribadire che questa decisione non implica nessun allontanamento dalla forte e tradizionale amicizia nei confronti di Israele, ha garantito il fermo impegno italiano a evitare qualsiasi strumentalizzazione che possa portare indebitamente Israele, che ha diritto a garantire la propria sicurezza, di fronte alla Corte Penale Internazionale.”

aveva spiegato il governo italiano, in una nota di Palazzo Chigi.

  • Spagna

La Spagna aveva seguito le orme della Francia.

La Spagna voterà domani “sì” alla richiesta palestinese, in coerenza con la nostra storia e perché crediamo che sia la soluzione più adeguata per avvicinarci alla pace.”,

aveva dichiarato il ministro degli affari esteri, José Manuel García-Margallo.

Il nostro governo avrebbe preferito che non si dovesse giungere a questo voto, perché ciò avrebbe significato un progresso nei negoziati di pace.”,

aveva sottolineato il ministro, rimpiangendo così “che la comunità internazionale [non avesse] potuto offrire all’Autorità Nazionale Palestinese una soluzione alternativa” a questo voto. Aveva, egualmente, rimpianto che l’Unione Europea [UE] non fosse riuscita a trovare un consenso sul voto.

  • Austria, Svizzera, Danimarca e Norvegia

L’Austria aveva annunciato che avrebbe votato a favore del progetto palestinese, rimpiangendo l’assenza di una posizione comune dell’UE.

In Svizzera, il dipartimento federale degli affari esteri [DFAE] aveva indicato, il mercoledì 26 settembre, che ”la sua decisione di sostegno si inscrive nel quadro della politica della Svizzera, volta all’instaurazione di una pace negoziata, giusta e durevole tra Israele e uno Stato palestinese indipendente e durevole all’interno di frontiere sicure e internazionalmente riconosciute.” “Un cambiamento di status per la Palestina permetterà di rivitalizzare il concetto della soluzione a due Stati, mettendo su un piede di eguaglianza Israele e la Palestina nella prospettiva dei negoziati di pace.”,

aveva aggiunto il dicastero.

A Copenhagen, il ministro degli affari esteri aveva, parimenti, dichiarato, lo stesso mercoledì 26 settembre, che la Danimarca avrebbe votato “sì”.

Si tratta di un testo moderato che mette chiaramente in luce la necessità di trattative di pace e di negoziati per una soluzione a due Stati.”

aveva detto Villy Søvndal.

Paese dove erano stati negoziati gli accordi di Oslo, oggi moribondi, “la Norvegia voterà sì a uno status di rilievo della Palestina all’Assemblea Generale dell’ONU”, aveva scritto il ministro Espen Barth Eide su Twitter.

Il progetto di risoluzione è equilibrato e costruttivo.”

  • Russia

Membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, la Russia aveva reiterato la sua posizione di principio sulla questione, il mercoledì 26 settembe.

Il sostegno a questa decisione all’Assemblea Generale è, egualmente, dettato dal fatto che i palestinesi non considerano questa richiesta come una alternativa al processo di pace in Medio Oriente, ciò che è, chiaramente, enunciato nel progetto di risoluzione.”,

aveva indicato il ministero degli affari esteri.

Si debbono in questa fase concentrare gli sforzi internazionali e regionali sul ritorno senza indugio a negoziati diretti tra palestinesi e israeliani.”,

aveva aggiunto.

  • Cina

[Pechino] è favorevole all’adesione della Palestina alle Nazioni Unite e ad altre organizzazioni internazionali e comprende, rispetta e appoggia la domanda della Palestina di ottenere uno status di osservatore all’ONU.”

aveva dichiarato il ministro degli affari esteri cinese, Yang Jiechi.

ASTENSIONISTI

Promossa da Catherine Ashton, l’alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell’Unione Europea, la scelta dell’astensione è stata adottata dalla Germania, l’Olanda, la Polonia, la Lituania, la Lettonia, l’Estonia, la Repubblica Ceca, la Slovacchia, l’Ungheria, la Romania e la Bulgaria.

  • Germania

La Germania condivide l’obiettivo di uno Stato palestinese, [ma] secondo noi, si può dubitare del fatto che la tappa ambita, oggi, dai palestinesi favorisca il processo di pace.”,

aveva spiegato, il giovedì 27 settembre, il ministro degli affari esteri tedesco, Guido Westerwelle.

Questa decisione non è stata presa alla leggera.”,

aveva assicurato il ministro, ma il governo tedesco “teme che [questo voto] porti, al contrario, a un inasprimento del conflitto tra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese. Berlino aveva, tuttavia, salutato il fatto che “la risoluzione proposta raccomandi, esplicitamente, una soluzione a due Stati e riconosca, in tale modo, il diritto all’esistenza di Israele”.

INDECISI

  • Gran Bretagna

Il capo della diplomazia britannica aveva indicato, il mercoledì 26 settembre, che Londra si sarebbe astenuta dal voto sullo status di Stato osservatore all’ONU per la Palestina, se le sue condizioni non fossero state soddisfatte: il ritorno immediato dei palestinesi al tavolo dei negoziati, l’impegno a non chiedere uno status di Stato membro a pieno titolo e a rinunciare al diritto di utilizzare le giurisdizioni internazionali contro Israele, in particolare la Corte Penale Internazionale [CPI].

Noi saremmo aperti all’idea di votare in favore della risoluzione, se vedessimo i palestinesi fornire pubblicamente garanzie”su diversi punti, aveva detto William Hague.

Se i Palestinesi contassero su questa decisione per fare ricorso alla CPI circa i territori occupati, ciò renderebbe impossibile una ripresa dei negoziati.”,

aveva fatto valere e aveva preteso che la risoluzione non potesse applicarsi retroattivamente. Aveva indicato che queste assicurazioni potessero essere aggiunte al testo della risoluzione o evidenziate in un comunicato accluso.

CONTRARI

Oltre agli Stati Uniti e a Israele, altri sette Paesi avevano votato contro, Canada, Repubblica Ceca, Isole Marshall, Micronesia, Nauru, Palau e Panama.

  • Stati Uniti

Il portavoce del dipartimento di Stato americano, Victoria Nuland, aveva ricordato, il martedì 25 settembre, che Washington era contraria “a ogni presa di posizione dell’Assemblea Generale che rendesse la situazione ancora più complicata”. “Noi abbiamo detto ai palestinesi che non dovevano contare su una risposta favorevole del Congresso” se il voto all’ONU avesse avuto luogo, aveva aggiunto.

Il capo dell’Autorità Nazionale Palestinese aveva scelto di presentare istanza davanti all’Assemblea Generale dell’ONU dopo il fallimento, un anno prima, di una precedente iniziativa per il riconoscimento di uno Stato membro a pieno titolo davanti al Consiglio di Sicurezza.

La scelta della data non era fortuita, naturalmente.

65 anni fa, il 29 novembre 1947, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU aveva votato la Risoluzione n. 181, che sanciva la creazione di due Stati, l’uno arabo e l’altro ebraico, con Gerusalemme sottoposta a uno speciale status e amministrata dall’ONU. Decretava, altresì, la libertà di transito attraverso le frontiere e il libero accesso ai luoghi religiosi, e obbligava i due Stati a dotarsi di una costituzione democratica, che garantisse eguali diritti a tutti i cittadini. La risoluzione ratificava anche la libera circolazione delle merci e l’unione economica. La risoluzione passò con 33 voti a favore, 13 contro e 10 astensioni. Il rifiuto da parte degli arabi di questa decisione della comunità internazionale ha avuto conseguenze disastrose.

Un anno fa, nel novembre del 2011, Mahmud Abbas stupì più di qualcuno, confidando al giornalista Enrique Zinnerman che “il rifiuto del piano di spartizione da parte degli arabi è stato un errore che io tento, oggi, di riparare”. A nulla serve congetturare sull’evoluzione della storia medio-orientale, se gli arabi avessero accettato il piano di spartizione. Forse, questa storia sarebbe stata altrettanto sanguinosa. Per convincersene basta avere in testa il refrain di Eretz Israel [dailymotion.com] e l’espansionismo inerente all’ideologia sionista. Di certo, numerosi intellettuali e politici arabi qualificano il rifiuto del piano di spartizione “errore catastrofico”. Non si può dubitare della buona volontà del presidente Abbas, ma è giocoforza constatare che vi è una sproporzione vertiginosa tra la portata dell’errore e delle sue conseguenze drammatiche, che non hanno cessato di aggravarsi da 65 anni, e i mezzi, molto limitati, di cui dispone la direzione palestinese per ripararla. Questa sproporzione, si ritrova in tutti i tentativi palestinesi di “riparare” questo errore e, in particolare, nella proclamazione di uno Stato palestinese da parte dell’OLP, il 15 novembre 1988, ad Algeri.

I tentativi internazionali di “riparare l’errore” del 1947 sono tutti falliti.

Dagli Accordi di Oslo del settembre del 1993 alla Conferenza di Camp David dell’agosto del 2000, sponsorizzata da Bill Clinton, nessuno ha fatto avanzare di uno iota il processo di pace israelo-palestinese. La ragione è molto semplice: l’assenza assoluta di neutralità e di imparzialità degli Stati Uniti che, dalla guerra del 1967, si sono schierati, con armi e bagagli, al fianco di Israele. Questa parzialità americana che si ripropone ogni volta che la questione dei diritti palestinesi si pone sulla scena internazionale. E si è riproposta, ancora una volta, il 29 novembre, perché Washington ha fatto di tutto per dissuadere Mahmud Abbas, anche utilizzare la minaccia di ritorsioni finanziarie contro l’Autorità Nazionale Palestinese. Ci si stupirà, sempre, di questa costanza americana nel sostegno indefettibile alla politica israeliana. Vale a dire alla politica di colonizzazione, di aggressione, di espulsione, di bombardamenti di civili e di altri crimini di guerra. Nel quadro del conflitto israelo-palestinese, dal 1967 a oggi, nessuna presidenza americana ha giudicato suo dovere difendere il diritto internazionale, né opporsi seriamente alla colonizzazione di Gerusalemme Est e della Cisgiordania, né porsi tra la vittima disarmata e l’aggressore superarmato. Questi atteggiamenti di semplice buon senso sono stati, superbamente, ignorati dal presidente Johnson, Nixon, Ford, Carter, Reagan, Bush padre, Clinton, Bush figlio e anche da Obama, la cui elezione, nel novembre del 2008, aveva sollevato tante speranze, presto deluse, nel mondo arabo e islamico.

In effetti, è, nel 1968, che i leaders israeliani hanno commesso “l’altro grande errore” di questo conflitto, che è consistito nell’iniziare la costruzione, su vasta scala, di colonie a Gerusalemme Est, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Questo errore fatale ha, radicalmente, cambiato la natura del contenzioso israelo-palestinese, trasformandolo in conflitto inestricabile di una incredibile complessità. Grazie alla politica di confisca sistematica delle terre palestinesi, oggi, Israele controlla un territorio due volte più grande di quello che le è stato concesso dalla Risoluzione n. 181 del 29 novembre 1947. La risoluzione sanciva la spartizione della Palestina: attribuiva il 56,47 % del territorio a 500mila ebrei e a 325mila arabi, il 43,53 % del territorio a 807mila arabi e a 10mila ebrei, la tutela internazionale su Gerusalemme con circa 100mila ebrei e 105mila arabi, prescrizioni e diritti vari.

Questo fatto coloniale unico al mondo, in questo inizio di Terzo Millennio, è stato reso possibile per l’ostinazione nell’errore della politica di espansione territoriale degli israeliani da un lato, e per il sostegno incondizionato che questo Paese trova, da 45 anni, presso le grandi potenze influenti dall’altro.

Oggi, i palestinesi tentano una nuova breccia diplomatica.

Se la fuga in avanti è sempre stata una delle principali caratteristiche della politica dei leaders di Israele, non si comprende la disposizione della Casa Bianca a lasciarsi trascinare, così facilmente, in una fuga in avanti.

Il presidente Obama è stato, ormai, rieletto per un secondo mandato e, dunque, la sua politica non è più intralciata dalle preoccupazioni elettorali. Sarebbe una occasione d’oro per lui rimettere la diplomazia americana, rispetto al Medio Oriente, sulla via della giustizia e del rispetto del diritto internazionale. Ma vi sono forti probabilità che questa occasione vada perduta, se si giudica dall’allineamento della posizione del presidente americano su quella del primo ministro israeliano circa l’iniziativa di Mahmud Abbas. Il buon senso avrebbe dovuto indurre, l’uno e l’altro, a sostenere il presidente palestinese che ha, ampiamente, dato prova del suo impegno contro la violenza e per un regolamento politico del conflitto arabo-israeliano. Il loro rifiuto puntava a indebolire, ancora di più, Mahmud Abbas e a rafforzare l’estremismo contro il quale Israele e gli Stati Uniti pretendono di ingaggiare una lotta.

Il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon aveva domandato, solennemente, ai leaders palestinesi e israeliani di “rilanciare il processo di pace”, a un punto morto da più di due anni. La risoluzione richiama, particolarmente, a una ripresa dei negoziati diretti, nella prospettiva di arrivare a uno Stato della Palestina coesistente al fianco di Israele “sulla base delle frontiere esistenti prima del 1967” ed esprime la speranza che il Consiglio di Sicurezza consideri, in modo favorevole, la candidatura della Palestina come Stato membro a pieno titolo, depositata, nel settembre del 2011, da Abbas, ma naufragata dalla minaccia di veto americano.

Mahmud Abbas, molto applaudito sulla tribuna dell’Assemblea generale dell’ONU, aveva ritenuto che si trattasse dell’” ultima chance di salvare la soluzione a due Stati” e aveva promesso di “tentare di rilanciare i negoziati” di pace con Israele. Aveva, anche, fatto diversi “riferimenti all’” aggressione israeliana” a Gaza, una settimana dopo il cessate il fuoco tra Hamas, che controlla quel territorio, e Israele.

Questa nuova statura internazionale, che dà ai palestinesi accesso alle agenzie delle Nazioni Unite e ai trattati internazionali, costituisce una grande vittoria diplomatica. A Ramallah, sede dell’Autorità Nazionale Palestinese, migliaia di palestinesi avevano accolto questo voto con acclamazioni, colpi in aria e scene di esultanza popolare. Anche Hamas si era felicitato per questa “nuova vittoria”, che metteva, temporaneamente, a tacere le divergenze tra il suo capo in esilio, Khaled Meshaal, e i suoi leaders a Gaza.

Diversamente, Benyamin Netanyahu aveva tacciato come “diffamatorio e velenoso” l’intervento del presidente dell’ANP, avvertendo che la decisione dell’ONU non avrebbe cambiato “nulla sul terreno”.

Presentando la loro domanda all’ONU, i palestinesi hanno violato i loro accordi con Israele e Israele agirà di conseguenza.”,

aveva messo in guardia il primo ministro israeliano.

La domenica 30 settembre, in una nota ufficiale, il governo israeliano aveva fatto sapere che “il popolo ebraico ha un naturale, storico e legale diritto nei confronti della sua terra natale e di Gerusalemme come sua capitale. La risoluzione non servirà come base per futuri negoziati né fornisce una via per una soluzione pacifica.”

Ma non era tutto.

Dopo l’annuncio che avrebbe proceduto con la costruzione di 3mila nuovi alloggi negli insediamenti dei coloni, a Gerusalemme Est e in Cisgiordania, Israele minacciava di bloccare il trasferimento all’ANP delle entrate derivanti dalle tasse doganali [Tali fondi, che ammontano a 460 milioni di shekels, circa 100 milioni di dollari, al mese, equivalenti più o meno a metà delle entrate interne dell’ANP, provengono dai dazi doganali, imposti sui beni importati nei territori palestinesi. Sono, dunque, soldi palestinesi, che vengono raccolti da Israele in base agli accordi di Oslo.] e di ridurre il numero dei permessi di lavoro per i palestinesi. La decisione israeliana di sospendere – temporaneamente, in attesa di una decisione definitiva – il trasferimento di questi fondi rappresentava, dunque, un “furto” agli occhi dei palestinesi, che arrecva un grave danno all’ANP in un momento, già difficile, per la sua fragile economia.

Tale decisione si sommava, infatti, alla risoluzione del congresso americano di congelare centinaia di milioni di dollari in aiuti, a seguito dell’iniziativa palestinese per ottenere il riconoscimento da parte dell’ONU. Qualificando la risoluzione “controproducente”, il capo della diplomazia americana, Hillary Clinton, riaffermava che la creazione di uno Stato palestinese non potesse risultare che da negoziati diretti con Israele.

In compenso, la Lega Araba aveva promesso una rete di salvataggio di 100 milioni di dollari al mese.

Israeliani e americani si preoccupavano, in realtà, della possibilità che il nuovo status desse ai palestinesi di perseguire Israele davanti alla Corte Penale Internazionale.

di

Daniela Zini

Pensa agli altri


Mentre prepari la tua colazione, pensa agli altri,
non dimenticare il cibo delle colombe.
Mentre fai le tue guerre, pensa agli altri,
non dimenticare coloro che chiedono la pace.
Mentre paghi la bolletta dell’acqua, pensa agli altri,
coloro che mungono le nuvole.
Mentre stai per tornare a casa, casa tua, pensa agli altri,
non dimenticare i popoli delle tende.
Mentre dormi contando i pianeti, pensa agli altri,
coloro che non trovano un posto dove dormire.
Mentre liberi te stesso con le metafore, pensa agli altri,
coloro che hanno perso il diritto di esprimersi.
Mentre pensi agli altri, quelli lontani, pensa a te stesso,
e dì: magari fossi una candela in mezzo al buio.

Mahmud Darwish

Il presidente palestinese Mahmud Abbas aveva presentato, il 29 novembre scorso, la domanda per il riconoscimento della Palestina come Stato non membro osservatore permanente all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, uno status simile a quello della Santa Sede [La Santa Sede opera presso le Nazioni Unite con lo status di Stato non membro osservatore permanente. In tale veste può partecipare attivamente alle conferenze organizzate dall’ONU e alzare la propria voce durante i lavori. Non è, quindi, rappresentato uno Stato, quello del Vaticano, che non avrebbe, peraltro, neppure i requisiti relativi alla popolazione permanente, bensì un ente religioso, la Chiesa Cattolica, che si trova, così, avvantaggiata rispetto ad altre religioni o correnti di pensiero non religioso, che non hanno un territorio a propria disposizione]. È uno status un po’ ambiguo, come amano inventarne i diplomatici. Quando l’aveva ottenuto, il Vaticano non cercava di essere riconosciuto come Stato – lo era già –, ma di potersi esprimere davanti all’Assemblea Generale e di seguirne i lavori, senza impegnarsi sul terreno propriamente politico come i membri a pieno titolo. Ha avuto, così, modo di influenzare, direttamente, i documenti delle assemblee, pilotando alcuni voti, attraverso energiche pressioni sui governi amici e, contemporaneamente, spostando le discussioni sui temi più cari alla Chiesa, quali l’aborto, la contraccezione e la pianificazione familiare.

Per i palestinesi, al contrario, questo voto significa che i due terzi dei governi del pianeta considerano la Palestina, già, uno Stato. È, dunque, visto come un primo passo verso un pieno riconoscimento dall’insieme della comunità internazionale, ciò che implicherebbe un voto positivo del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, attualmente impossibile a causa del veto degli Stati Uniti. Sostenendo, infatti, da più di venti anni, che la soluzione del problema israelo-palestinese passi dal mutuo riconoscimento di due Stati indipendenti, Washington continua a considerare che le condizioni di un tale riconoscimento non siano riunite e ha, dunque, votato contro lo status di Stato non membro osservatore permanente accordato alla Palestina. Ciò non ha impedito un voto positivo dell’Assemblea Generale, ma sarebbe redibitorio al Consiglio di Sicurezza, in cui i cinque membri permanenti dispongono di un diritto di veto.

La Francia è stata coerente con la sua politica tradizionale, che ha per obiettivo l’esistenza di due Stati, che vivano in frontiere riconosciute e sicure. Diversamente, la maggioranza degli Stati europei, quali la Germania e la Gran Bretagna, si è astenuta – come se, in tanti anni, i suoi leaders non fossero riusciti a farsi una opinione ferma sulla questione.

Come tutto ciò che attiene al conflitto israelo-palestinese, il voto dell’ONU ha scatenato polemiche sarà utile ritornare sui fatti.

Dagli accordi di Oslo, nel 1993, Israele riconosce come principio che una Autorità Nazionale Palestinese eletta amministri i due territori palestinesi di Cisgiordania e di Gaza.

Negoziati in Norvegia, ma firmati a Washington, il 13 settembre 1993, gli Accordi di Oslo, ufficialmente chiamati Dichiarazione dei Principi riguardanti progetti di auto-governo ad interim o Dichiarazione di Principi [DOP], prevedevano anche un sistema di negoziazione per regolare le questioni pratiche, al fine di giungere al riconoscimento di un vero Stato palestinese. La firma di questi accordi aveva dato luogo a una foto storica, in cui si vedeva, sotto lo sguardo compiaciuto di Bill Clinton, presidente degli Stati Uniti, Yitzhak Rabin, primo ministro israeliano, sorridente, scambiare una calorosa stretta di mano con il presidente dell’OLP [Organizzazione per la Liberazione della Palestina], Yasser Arafat, eletto più tardi presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese.

La maggioranza degli israeliani e dei palestinesi aveva potuto credere, allora, come l’insieme della comunità internazionale, che gli Accordi di Oslo avessero, infine, tracciato il cammino della pace. I complementari Accordi di Taba [1995] avevano diviso questi territori in diverse zone amministrate, in modo diverso, da Israele e dall’Autorità Nazionale Palestinese al fine di garantire la sicurezza di Israele.

  • Zona A: [4% del territorio], comprendente le sette grandi città palestinesi [Hebron, Betlemme, Ramallah, Nablus, Jenin, Qalqiliya, Tulkarem], a esclusione di Gerusalemme Est e buona parte di Hebron. In questa zona all’Autorità Nazionale Palestinese spettano compiti di polizia e di poteri civili.

  • Zona B: comprendente all’incirca tutti i villaggi palestinesi, sui quali l’Autorità Nazionale Palestinese esercita i poteri civili, ma la sicurezza è nelle mani dell’esercito israeliano.

  • Zona C: [70% del territorio] comprendente le zone non abitate, le colonie israeliane, sotto il controllo di Israele.

Sì, in quell’inizio di autunno del 1995, sperare di giungere alla pace era, legittimamente, permesso, anche se il principio degli accordi era, al tempo stesso, contestato da piccoli gruppi palestinesi, che non si rassegnavano a riconoscere Israele, e da una minoranza di estremisti israeliani, che non potevano ammettere l’idea di un futuro Stato della Palestina. Meno di due mesi più tardi, erano stati questi ultimi a infrangere questa speranza con l’assassinio di Itzhak Rabin per mano di uno studente ebreo di estrema destra.

Il processo di pace era arrestato.

I tentativi per rilanciarlo alla fine della presidenza di Bill Clinton, poi, sotto quella di George W. Bush, dovevano fallire in particolare per l’impossibilità di mettersi d’accordo sullo status di Gerusalemme e sui diritti al ritorno dei rifugiati palestinesi, cacciati dalla loro terra, nel 1948.

Da allora, anche se gli studi di opinione mostrano che la maggioranza degli israeliani come dei palestinesi desiderino arrivare alla pace nella coesistenza di due Stati, anche se i principi, adottati a Oslo, restano ufficialmente gli obiettivi della comunità internazionale e, in particolare, degli Stati Uniti, nulla si è veramente mosso. Il governo Netanyahu, il più estremista che Israele abbia, mai, avuto, ha fatto di tutto per impedire ogni iniziativa di pace, anche se continua ad affermare che questa pace resti il suo obiettivo. Al contrario, ha moltiplicato le installazioni di coloni per minare il territorio palestinese in Cisgiordania.

Dal lato palestinese, Hamas e la Jihad islamica hanno buon gioco nel dire che i palestinesi non otterranno il rispetto dei loro diritti con la negoziazione. Inviano missili su Israele, che replica bombardando Gaza e moltiplicando le vittime civili.

In questo contesto, giocando sulla paura dell’altro, le estremità della due sponde scoraggiano i militanti della pace quando non li perseguono.

La pace si può stabilire solo se imposta dall’esterno, dalla comunità internazionale e, in particolare, dagli Stati Uniti, alleati privilegiati di Israele.

Tale è, da lungo tempo, la convinzione di tutti gli osservatori di buona fede – in particolare di eccellenti analisti americani del Medio Oriente – ma anche dagli israeliani e dei palestinesi più illuminati. Si può sperare che, nel corso del secondo mandato, ormai iniziato, Obama abbia carta bianca per fare avanzare la pace, anche se la maggioranza del congresso americano sostiene, incondizionatamente, il governo israeliano.

Per il momento, niente è meno sicuro.

Il voto dell’ONU lo dimostra, ma più ancora ciò che è accaduto dopo.

Come rappresaglia al voto, il governo Netanyahu si è premurato di gelare le somme che deve all’Autorità Nazionale Palestinese e, soprattutto, di annunciare la costruzione di 3mila nuove case nelle installazioni israeliane di Gerusalemme Est e di Cisgiordania. Da quando ha fatto fallire gli Accordi di Oslo, la destra israeliana persegue la stessa politica: quella del fatto compiuto, che mira a scoraggiare i palestinesi e a incitarli a partire al fine di stabilire il “Grande Israele” senza alcun territorio palestinese. Prima di divenire primo ministro e quando osteggiava nell’opposizione gli Accordi di Oslo, Ariel Sharon aveva spiegato che ciò avrebbe richiesto, forse, uno o due secoli e avrebbe fatto, forse, “scorrere molto sangue ebreo”, ma, infine, si sarebbe realizzato.

L’amministrazione americana avrebbe dovuto reagire alle nuove misure prese dal governo israeliano. Lo ha fatto la voce di Hillary Clinton. Il segretario di Stato ha dichiarato che le nuove colonie israeliane “non potevano che fare rimandare la causa della pace”.

Non è esattamente ciò che si potrebbe chiamare una pressione sul governo israeliano!

Il riconoscimento dello status di Stato non membro osservatore permanente all’ONU per i palestinesi è una vittoria simbolica.

Ma quali saranno i benefici concreti e i rischi portati da questo cambiamento?

  • Riportare la causa palestinese sulla scena

Le primavere arabe e l’assenza di ogni avanzamento dei negoziati di pace tra Israele e palestinesi, mentre la colonizzazione non cessa di estendersi in Cisgiordania, hanno fatto uscire la questione palestinese dagli schermi radars della comunità internazionale. Il voto dell’Assemblea Generale in favore della Palestina può essere un mezzo per rimediarvi. Segnerà la volontà della comunità delle Nazioni di riprendere il volano e non lasciare l’occupante e l’occupato in un faccia a faccia sbilanciato e distruttore. Ma questo voto, nell’assenza di sovranità sul terreno e di un regolamento preliminare sulla questione dei rifugiati, non è per le diplomazie europee che un perizoma, con il quale contano di mascherare la loro rinuncia prolungata a tutelare i diritti nazionali palestinesi, che hanno, pertanto, formalmente riconosciuto. Un recente rapporto della FIDH ha accertato che l’Unione Europea importa quindici volte più merci provenienti da colonie israeliane, illegali secondo il diritto internazionale – che dai territori palestinesi.

  • Rimettere il diritto internazionale al centro delle discussioni

Con l’adozione del piano di divisione della Palestina, nel 1947, era previsto che fossero proclamati due Stati.

L’uno ebraico e l’altro arabo.

Il secondo non ha mai visto il giorno.

Andare davanti alle Nazioni Unite, permetterebbe alla Palestina di coinvolgere le diverse agenzie dell’ONU, quali l’Organizzazione Mondiale della Sanità [OMS o World Health Organization] e il Programma Alimentare Mondiale [WFP o World Food Programme]. La Palestina potrebbe, in teoria, richiedere l’intervento della Corte Penale Internazionale e presentare denuncia contro il leaders israeliani, seppure, per il passato, i diversi governi israeliani abbiano dato poca importanza alle decisioni delle istanze internazionali. Così, senza contare le risoluzioni dell’ONU, rimaste lettera morta, la condanna del muro di separazione, costruito in territorio palestinese, da parte della Corte Internazionale di Giustizia, nel 2004, è rimasta senza effetti.

- Rafforzare al-Fatah [acronimo inverso di Harat al-Tahrir al-Filistini, Movimento di Liberazione Palestinese] di Mahmud Abbas, molto indebolito

L’Autorità Nazionale Palestinese, che aveva scommesso sui negoziati, soffre di un discredito terribile, come lo hanno dimostrato il debolissimo tasso di partecipazione alle ultime legislative di Cisgiordania, in ottobre, e l’elezione di dissidenti del Fatah in diverse città. L’intervento militare iraeliano a Gaza lo ha ancora più emarginato a profitto di un Hamas uscito rafforzato dalla prova.

L’ammissione della Palestina all’ONU sarebbe, dunque, un mezzo per salvare la faccia a Mahmud Abbas.

  • Profittare della dinamica innescata dal cessate il fuoco a Gaza

Il rafforzamento della statura di Hamas, dopo l’Operazione Pilastro di Difesa, è, forse, ciò che spiega il cambiamento di atteggiamento del movimento islamico, il cui capo in esilio, Khaled Meshaal, aveva annunciato, lunedì 24 settembre, il sostegno alla richiesta di Mahmud Abbas. Questa posizione era una sorpresa per tutti, osservatori come attori. Fino ad allora, il movimento aveva manifestato un semplice disdegno per ciò che considerava l’ennesimo tentativo di sopravvivenza di un Fatah allo stremo.

Un effetto della diplomazia egiziana, dieci giorni dopo l’intervento israeliano a Gaza!

Il sostegno di Meshaal alla richiesta di Mahmud Abbas sarebbe stato, così, un contributo, poco costoso per Hamas, a una riconciliazione con al-Fatah, rilanciato da un Egitto, ritornato in posizione di forza nell’arena regionale.

  • Il rischio per i palestinesi della diaspora

Uno Stato della Palestina riconosciuto sui territori occupati nel 1967 [Striscia di Gaza e Cisgiordania, di cui Gerusalemme-Est] lascerebbe da parte i 5 milioni di palestinesi rifugiati in Giordania, in Libano e in Siria, che non sarebbero più rappresentati da questo nuovo Stato della Palestina, mentre, oggi, lo sono dall’Organizzazione di Liberazione della Palestina [OLP]. Nella configurazione attuale, il loro diritto al ritorno resta da regolare nel quadro di un negoziato. L’assenza di un regolamento preliminare sulla questione dei rifugiati fa in modo che la richiesta all’ONU sia foriera di rischio tanto per la tutela dei diritti nazionali palestinesi che per la rappresentazione internazionale dell’insieme del popolo palestinese.

  • Il rischio di rappresaglie da parte degli Stati Uniti e di Israele

Gli Stati Uniti e Israele, ostili alla richiesta palestinese, hanno minacciato i palestinesi di misure di ritorsione. Minacciano, infatti, di sospendere ogni finanziamento a ogni organizzazione internazionale che riconosca la Palestina come Stato, come hanno fatto, un anno fa, con l’UNESCO, quando questa agenzia aveva ammesso la Palestina nel suo seno. La decisione dell’UNESCO di accogliere la Palestina aveva, infatti, scatenato una dura reazione da parte degli Stati Uniti e di Israele, che avevano deciso, entrambi, di sospendere i propri finanziamenti a questo organismo internazionale. I finanziamenti USA, in particolare, ammontavano al 22% dei fondi totali versati all’UNESCO, e la loro interruzione aveva creato seri problemi all’organizzazione.

La Casa Bianca sostiene che l’unico modo per i palestinesi di ottenere uno Stato sia attraverso negoziati bilaterali con Israele; ma è proprio la constatazione che tali negoziati hanno fallito e che le dinamiche della politica interna americana impediscono a Washington di essere un mediatore imparziale, nel processo di pace, ad aver spinto l’Autorità Nazionale Palestinese a rivolgersi all’ONU e ad altri organismi internazionali. Va detto che, decidendo di sospendere i finanziamenti all’UNESCO, l’amministrazione Obama aveva, semplicemente, agito in obbedienza a una legge, che, su pressione della lobby filo-israeliana, impone agli Stati Uniti di non finanziare organizzazioni dell’ONU, che abbiano ammesso la Palestina come membro. E il presidente non può imporre nessuna deroga a questa legge, neppure in casi di interesse nazionale, come, invece, solitamente avviene.

Tel Aviv ha minacciato di abrogare gli Accordi di Oslo, di accelerare la colonizzazione e di confiscare i diritti di dogana palestinesi. In una bozza di un documento del ministero degli affari esteri veniva, anche, ipotizzato il rovesciamento di Mahmud Abbas. Ma, queste misure punitive sono state, già, inflitte ai palestinesi a più riprese.

E il governo Netanyahu corre il rischio di ritrovarsi a gestire la sorte di 2,5 milioni di palestinesi di Cisgiordania, mentre, al momento, l’Autorità Nazionale Palestinese sottrae questa amministrazione e si incarica anche di mantenere la sicurezza.

Quanto al quadro degli Accordi di Oslo, è divenuto una conchiglia vuota, in mancanza del minimo progresso nei negoziati. Il proseguimento della colonizzazione, che ha fatto della Cisgiordania una pelle di zigrino – più del 42% delle terre cisgiordane sono state confiscate – rende, già, pressoché, impossibile una soluzione a due Stati.

Carta d’identità

Prendi nota
sono arabo
carta di identità numero 50.000
bambini otto
un altro nascerà l’estate prossima.
Ti secca?

Prendi nota
sono arabo
taglio pietre alla cava
spacco pietre per i miei figli
per il pane, i vestiti, i libri
solo per loro
non verrò mai a mendicare alla tua porta.
Ti secca?

Prendi nota
sono arabo
mi chiamo arabo non ho altro nome
sto fermo dove ogni altra cosa
trema di rabbia
ho messo radici qui
prima ancora degli ulivi e dei cedri
discendo da quelli che spingevano l’aratro
mio padre era povero contadino
senza terra né titoli
la mia casa una capanna di sterco.
Ti fa invidia?

Prendi nota
sono arabo
capelli neri
occhi scuri
segni particolari
fame atavica
il mio cibo
olio e origano
quando c’è
ma ho imparato a cucinarmi
anche i serpenti del deserto
il mio indirizzo
un villaggio non segnato sulla mappa
con strade senza nome, senza luce
ma gli uomini della cava amano il comunismo.

Prendi nota
sono arabo e comunista
Ti dà fastidio?
Hai rubato le mie vigne
e la terra che avevo da dissodare
non hai lasciato nulla per i miei figli
soltanto i sassi
e ho sentito che il tuo governo
esproprierà anche i sassi
ebbene allora prendi nota che prima di tutto
non odio nessuno e neppure rubo
ma quando mi affamano
mangio la carne del mio oppressore
attento alla mia fame,
attento alla mia rabbia.

Mahmud Darwish

Assunta Daniela Veruschka Zini

Copyright © 26 gennaio 2013 ADZ


NOTE

POLITTICO: Pala d’altare (dipinta, talora anche scolpita) costituita da vari elementi (scomparti) uniti fra loro, talvolta anche con cerniere, in modo che possano essere chiusi come sportelli. P. a due o tre elementi, più propriamente detti e trittici , anche di piccole dimensioni e portatili, erano già diffusi in età classica e tardoantica. Vedi qui



Lunedì 28 Gennaio,2013 Ore: 09:04
 
 
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