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www.ildialogo.org Un edificio andato in frantumi: due decenni di fallimenti nella costruzione di uno Stato,di Alastair Crooke

Medio Oriente - L'analisi
Un edificio andato in frantumi: due decenni di fallimenti nella costruzione di uno Stato

di Alastair Crooke

Alastair Crooke è un ex membro dello staff della Commissione di Inchiesta del Senatore Mitchell sulle cause della seconda intifada, scrittore, direttore e fondatore di “Conflicts Forum”. Consigliere speciale di Javier Solana, l’ex ministro per gli affari esteri dell’Unione Europea, ha contribuito alla mediazione in numerosi casi di cessate-il-fuoco durante il conflitto israelo-palestinese fra il 2001 e il 2003.


(Traduzione di Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova)
 
28 aprile 2011
Negli ultimi decenni, l’Europa e gli Stati Uniti d’America hanno condiviso la salda convinzione che Israele, necessariamente ed inevitabilmente, deve cercare di conservare una maggioranza ebraica al suo interno. E che con il tempo, e con una popolazione palestinese sempre in crescita, Israele a un certo momento dovrà acconsentire alla costituzione di uno Stato palestinese, al fine di mantenere una maggioranza ebraica al suo interno: solo consentendo ai Palestinesi un loro Stato e, quindi, trasferendo una parte dei Palestinesi sotto il suo controllo, può essere preservata una maggioranza ebraica in Israele.
Su questa semplice proposizione si fonda la dottrina della “sicurezza innanzitutto”: si presume che il riconoscere i bisogni di sicurezza auto-definiti da parte di Israele dovrebbe proporsi come la condizione necessaria e sufficiente per permettere a Israele una transizione fiduciosa verso la soluzione dei due Stati.
Ma Israele non ha preso in considerazione nulla di tutto questo - nonostante molte occasioni nel corso degli ultimi 19 anni - e non sembra proprio disposto a “concedere” uno Stato palestinese, ora.
Visto che il ragionamento logico è davvero così stringente, ci si è chiesti qualche volta perché non si impone l’opportunità così evidente della formazione dei due Stati?
Questa narrazione sulla“sicurezza innanzitutto” è convincente, tanto convincente che le politiche dell’Europea e degli Stati Uniti si sono quasi del tutto orientate verso l’obiettivo di una fiduciosa sicurezza in favore di Israele. Questo obiettivo è stato perseguito “ad oltranza” – ben al di là del punto in cui la residua sovranità che potrebbe rimanere ad un tale “Stato” palestinese si configurerebbe in uno status poco migliore di una persistente occupazione.
Eppure, per la frustrazione dei leader occidentali e nonostante l’“ondata” di sicurezza degli ultimi anni, uno Stato palestinese sembra più lontano che mai.
I leader occidentali, tutti compresi nel modo di pensare prevalente, sembrano non avere soluzioni, ma continuano ad insistere ancora per una maggiore cooperazione con Israele e per la costruzione di rapporti di fiducia nei confronti di Israele.
Ma forse, sia l’originale premessa “Israele vuole sicuramente uno Stato palestinese”, che il presupposto per cui costruire la fiducia di sicurezza in favore di Israele sia la “conditio sine qua non” necessaria per la transizione di Israele verso la soluzione dei due Stati, sono frutto di calcoli sbagliati. Forse Israele ha tenuto in serbo un’alternativa alla presunta inevitabilità di due Stati con uguali diritti politici per tutti i cittadini.
L’evidenza delle azioni israeliane sul terreno chiaramente non suffraga la tesi che Israele stia preparando la transizione verso una soluzione a due Stati con frontiere ben determinate, e verso uno Stato palestinese sovrano. Al contrario, gli elementi di prova puntano nella direzione opposta: che vi sia stato, e vi sia, l’intento di compromettere la soluzione dei due Stati delimitati da precisi confini.
Ciò suggerisce un pensiero molto diverso, in contrasto con quello che è stato supposto dal consesso internazionale.
Questo ci indirizza piuttosto verso una dottrina puramente militare, che fa la sua comparsa da prima della guerra dello Yom Kippur, e che evolve in modo organico attraverso tre fasi distinte.
Le sue radici affondano in una strategia militare non ortodossa, su come difendere dall’esercito egiziano il Sinai allora occupato.Visto il successo conseguito, questa strategia, recepita in primo luogo come struttura difensiva per proteggere il fronte orientale di Israele, successivamente ha costituito la base per gestire l’occupazione della West Bank - orientata sempre più contro il nemico interno: i Palestinesi, e non solo contro nemici esterni.
Nella seconda fase, quando la radicale mancanza di rispetto per lo spazio militare altrui e i confini politici stabiliti prende piede, e diventa la concezione principale nel campo militare israeliano - questa strategia si trasferisce dalla sfera militare a quella politica, per oggettivarsi nel radicale disprezzo nei confronti dello spazio amministrativo e giuridico dei Territori Palestinesi Occupati. Questo provoca una divaricazione sistemica verticale nell’ambito amministrativo e giuridico per i Palestinesi e per gli Israeliani, e per estensione riduce a brandelli lo spazio politico dei Palestinesi.
Tutto questo si sviluppa fino a diventare una più larga strategia di gestione dei Territori Occupati.
Nella sua terza fase, principalmente a seguito del successo tangibile della sua espressione militare durante e dopo la seconda Intifada, la strategia evolve ancora una volta per diventare un sistema politico opportuno per la gestione di tutti e tre i settori della questione palestinese - i Palestinesi dei Territori Occupati, i Palestinesi che vivono all’interno della Linea Verde e i Palestinesi che vivono nei campi profughi – secondo un unico punto di vista.
Quest’ultima modalità di imporsi in un sistema politico diffuso è sembrata offrire ad Israele la prospettiva di tenere salda la basilare aspirazione di essere lo “Stato sionista” nel mondo contemporaneo – con il presupposto di una gestibile sicurezza - senza dover sottoporre le fondamenta del “progetto Israele” a test troppo severi.
La strategia consente alla dirigenza politica e sociale israeliana di bypassare la più evidente contraddizione tra i privilegi e gli esclusivismi di uno Stato sionista / ebraico, e le esigenze di una vera democrazia e di parità di diritti, che rimangono irrisolte nel sionismo contemporaneo.
Oppure, in termini semplici, permette agli Israeliani sia di sfuggire alla “inevitabilità” di dover consentire uno Stato palestinese al fine di conservare una maggioranza ebraica all’interno di Israele, sia di dover rinunciare al sionismo, in una condizione di effettiva parità di diritti per le minoranze non-ebraiche, come per quei Palestinesi che vivono all’interno della Linea Verde.
La naturale conseguenza dell’esistenza, e perfino della preminenza, nel pensiero della dirigenza israeliana di quest’altro paradigma politico, di questa “logica” alternativa, si manifesta nel fatto che la politica europea e quella statunitense sono sulla strada sbagliata – e sono state su una strada sbagliata, almeno dalla fine della seconda Intifada.
Questo suggerisce che la mancata istituzione di un Stato non si accompagna con un qualche deficit di sicurezza causato dai Palestinesi, ma, più decisamente, è dovuta agli ostacoli frapposti dai sionisti israeliani, che temono l’ineluttabilità del loro dover concedere uguali diritti ai Palestinesi che vivono in Israele.
Esiste un timore reale che il progetto dello “Stato Ebraico di Israele” possa eventualmente implodere, dovessero queste istituzioni esclusiviste essere messe troppo a dura prova dall’obbligo di concedere uguali diritti politici e confessionali per tutti i cittadini.
In breve, forse la ragione principale per cui non esiste uno Stato palestinese è duplice.
In primo luogo, che nei momenti decisionali chiave, gli Israeliani hanno collettivamente posto ostacoli davanti alla prospettiva di ricredersi sul sionismo – di fronte all’eventualità di risolvere il paradosso di fondo di cercare di mantenere un sistema di diritti e privilegi speciali, e nel contempo rivendicare una democrazia di stile occidentale.
In secondo luogo, un “sistema” politico che sembra offrire una “soluzione” a questo paradosso, ne ha introdotto un altro: sia questa strategia militare non ortodossa, che il sistema politico che ne deriva, hanno conferito legittimità a quei coloni che reclamano il loro sionismo fondamentalista come autentico, una necessità di difesa, e in diretta discendenza lineare con quello originale dei “pionieri” del sionismo.
Questo conferimento di legittimazione ideologica ai coloni da parte dello Stato di Israele, diretta conseguenza del mancato rispetto dello spazio e dei confini politici, colpisce profondamente ogni prospettiva per la dirigenza israeliana di affrontare “il sionismo colono”.
Sostenendo la legittimità della continuità lineare, i coloni sono riusciti in gran parte a fondere il loro progetto di insediamenti nella West Bank con quello della fondazione originale di Israele. Così, se si mette in dubbio l’uno (gli insediamenti in Cisgiordania), in effetti è come porre in dubbio l’altro (la fondazione di Israele). In questo modo, il sionismo colono è ampiamente riuscito a tenere tutti in ostaggio del sionismo, della sua definizione speciale di sionismo.
La prospettiva di una politica che si avvicini al cuore del dilemma posto dal sionismo, naturalmente, indebolisce ulteriormente ogni reale possibilità di risolvere il paradosso: verrebbero minacciate così le fondamenta dello stesso sionismo e accresciuti i timori che, se si tentasse di farlo, questo potrebbe portare ad una guerra civile interna.
Forse allora il problema di assicurare ad Israele la consegna della responsabilità palestinese della sicurezza è una sorta di specchietto per le allodole, dietro il quale si trova un ostacolo molto diverso, e finora insormontabile, alla creazione di uno Stato palestinese.
Se è così, questo comporta importanti implicazioni di approccio, e suggerisce che le recenti politiche dell’Europa e degli Stati Uniti nei confronti dell’Autorità Palestinese rispetto alle modalità essenziali di garantire la sicurezza sono state efficacemente sfruttate da questa “altra” concezione, quella di facilitare e potenziare un sistema di diritti particolari e differenziati per un gruppo di popolazione, a scapito di una popolazione subordinata.
Khan osserva che la leadership palestinese non aveva praticamente nessuna capacità di contrattare o di fare pressioni su Israele. Infatti, il presidente dell’OLP Yasser Arafat era entrato nel processo di Oslo solo dopo una serie di pesanti errori di valutazione: le azioni di Fatah in Giordania, che avevano provocato la sua espulsione; il suo coinvolgimento nella guerra civile libanese, che, ancora, aveva portato al ritiro di Fatah; inoltre l’appoggio di Arafat a Saddam Hussein nella Prima guerra del Golfo aveva indotto importanti sostenitori finanziari di Fatah a tagliare i contributi.
Dal 1987, inoltre, Fatah stava affrontando l’ascesa di Hamas a Gaza. Yasser Arafat era ansioso di tornare in Palestina per arginare il crescente dissenso sollevato da Hamas e da altri movimenti, e di liberarsi dalla sua preoccupazione, che Fatah stava perdendo il controllo della leadership risultato dalla prima Intifada.
Khan suggerisce che i negoziati di Oslo per i due Stati erano fondati su una ragguardevole considerazione: il potere di contrattazione dei Palestinesi era semplicemente irrilevante.
Khan spiega ulteriormente: “Tutti pensavano che l’esito finale della partita era evidente. Alla fine, la soluzione dei due Stati sarebbe emersa quando la potenza dominante ... l’avrebbe accettata, nel proprio interesse [...] e questa era l’unica via attraverso cui Israele avrebbe potuto garantire una base demografica per il sionismo .... Allora perché abbiamo il bisogno di preoccuparci di leggere i documenti? Noi li firmiamo subito ...”
Il professore Khan sottolinea come la presunta inevitabilità di uno Stato palestinese si rispecchiava nell’assetto di Oslo: il negoziato era strutturato interamente come un esercizio per costruire fiducia, piuttosto che come un negoziato serio basato sul potere di contrattazione.
“Ti siedi al tavolo, si inizia a fare conoscenza, [e] non devi preoccuparti troppo ... tanto, alla fine, loro [gli Israeliani] ti concederanno quello che ti serve.”
In realtà, spiega Khan, Oslo non ha prodotto un tale risultato: “Sappiamo che Oslo non ha funzionato sin dal primo giorno ....Dopo la firma del trattato di Oslo, Israele non se ne è andato dai Territori Palestinesi Occupati. Infatti, Israele ha portato avanti l’invasione in modo assai più significativo. Israele ha firmato trattato dopo trattato per ottenere il controllo sulle principali variabili economiche palestinesi : commercio estero, fiscalità, valuta, relazioni con il mondo del lavoro ....L’integrazione con Israele ha avuto questo strano carattere ... non era né integrazione né separazione, ma contenimento [asimmetrico], alle condizioni poste da Israele, ciò che significava la penetrazione di Israele nei Territori Palestinesi Occupati, con il conseguente controllo e repressione dall’interno. Ora, perché mai si sarebbe dovuto firmare, se si stava tentando di tornare ai confini del 1967? Dov’era la logica in tutto questo?”
Ciò che stava succedendo, infatti, era l’evoluzione di una logica diversa, quella che andava contro la congettura dell’inevitabilità di uno Stato palestinese, ed è sembrato agli Israeliani che si aprisse ai loro leader una finestra di opportunità politiche per rinviare o evitare l’enigma fondamentale per il sionismo: come conservare diritti discriminatori all’interno di un terreno fisico che include una vasta popolazione di Palestinesi. Fin dalle origini del sionismo, lo spettro di come includere politicamente popolazioni estranee (non-Ebrei) in uno Stato sionista ha ossessionato le istituzioni sioniste, e più tardi i governi successivi. 
Quello che il professor Khan faceva notare è come vi fossero segnali rivelatori dopo Oslo - ignorati in Occidente - che i leader israeliani credevano di essere vicini a trovare una soluzione all’enigma della gestione di diritti differenziali in uno Stato, a maggioranza sionista, comprendente sostanziali minoranze.
Nella concezione sionista, così come viene messa in pratica, Israele semplicemente non può essere uno Stato a parità confessionale e politica. Il sionismo fondamentalmente afferma diritti discriminatori per Ebrei e non-Ebrei, e concede priorità agli immigrati ebrei. Diritti differenziali influenzano tutto, in particolare l’accesso alla terra, l’abitazione, il lavoro, i sussidi, il matrimonio con stranieri, e la migrazione.
Pertanto, minoranze che rivendicano parità di diritti confessionali e politici all’interno di uno Stato sionista rappresentano una contraddizione interna - una minaccia per questo regime di diritti particolari.
Tzipi Livni, nel gennaio 2008, ha spiegato questo chiaramente ai negoziatori palestinesi: “Israele è stato creato per diventare un focolare nazionale per gli Ebrei di tutto il mondo. L’Ebreo ottiene la cittadinanza appena mette piede in Israele, qualsiasi cosa egli possa pensare sulla natura di questo Stato.... Il fondamento per cui è stato istituito lo Stato di Israele è che esso è stato creato per il popolo ebraico .... Israele è lo Stato del popolo ebraico - e mi piace sottolineare cosa si intende per “popolo”, è solo il popolo ebraico ....Il nostro Stato sarà la risposta a tutti i Palestinesi, compresi i rifugiati” (il corsivo dell’autore).
In breve, lo Stato sionista deve rimanere aperto a qualsiasi Ebreo che bussa alla porta, cercando di stabilirsi lì. Ma sostenere un tale diritto in un paese con un territorio molto limitato implica che la terra e l’acqua devono essere mantenute sotto controllo israeliano.
Altrettanto importante, l’accaparramento e la conservazione del territorio hanno sostenuto la narrazione sionista del particolare legame ebraico alla terra (la Terra Promessa!), fattore che ha conferito un indiscutibile potere politico. Meno riconosciuta è la questione che anche l’ambiguità e la differenziazione territoriale sono servite per separare i Palestinesi dal loro specifico territorio, attraverso spazi delimitati. E questo ha incluso la separazione dall’acqua e da altre risorse – precisamente da quei punti di riferimento che servivano da collegamento per i Palestinesi al loro territorio naturale.
Questo calcolo politico di discriminazione e separazione elaborato tra i tanti che hanno sposato lo Stato sionista - contro i pochi che hanno sposato uno Stato israeliano con parità di diritti, in cui viene mantenuta una maggioranza ebraica - era ciò che stava dietro la risposta israeliana evidentemente contraria ad Oslo, che Khan ha sottolineato nel suo discorso.
Le implicazioni di questo ultimo punto, in gran parte assenti dai dibattiti sul conflitto israelo-palestinese, vanno al cuore del calcolo di Israele sulla convenienza di stabilire uno Stato palestinese con confini internazionalmente riconosciuti. Confini fissi, e ciò che questo comporta per la strategia di Israele, stanno al cuore del problema.
L’evoluzione della strategia militare, così come la sua conseguente visione politica, può essere fatta risalire ad Ariel Sharon, e al suo radicale rifiuto di una strategia militare convenzionale di difesa statica, lineare, delle frontiere di Israele (iniziando con l’opposizione polemica di Sharon alla Linea Bar-Lev situata in posizione adiacente al canale di Suez), e con il suo innovativo trattamento dello spazio fisico.
[N.d.tr.: La Linea Bar-Lev è stata una catena difensiva fortificata costruita da Israele lungo la sponda orientale del Canale di Suez dopo che la penisola del Sinai fu conquistata all’Egitto e occupata militarmente da Israele nel corso della Guerra dei sei giorni del 1967. La linea Bar-Lev fu progettata per difendersi infatti da ogni imponente assalto militare egiziano nella zona del Canale e ci si aspettava che essa potesse diventare in una simile ipotesi, come un “cimitero per le truppe egiziane”. Ariel Sharon, che era stato nominato nel 1969 al comando della frontiera meridionale, criticò la difesa statica della Linea Bar-Lev e propose invece una difesa agile e mobile.]
La deliberata “radicale mancanza di rispetto” da parte di Sharon per il formale spazio militare - trattandolo come elastico e nomadico, piuttosto che statico e sequenziale, al fine di ottenere sia una sorpresa dal punto di vista tattico che un disorientamento psicologicamente indotto negli avversari - è stata dimostrata da Eyal Weizman essere diventata la strategia degli odierni comandi militari per la gestione dei Territori Occupati - oltre a costituire la base per la difesa esterna di Israele.
La guerra dello Yom Kippur ha totalmente giustificato l’approccio di Sharon di una rete difensiva basata su una matrice di punti di forza sopraelevati diffusi su tutta la profondità del Sinai, che funzionava come un’estesa “trappola” spaziale, fornendo agli Israeliani un alto livello di mobilità, mentre paralizzava il nemico intrappolato in questa matrice di punti di forza interdipendenti.
Dopo la guerra, l’opinione pubblica israeliana non ha più creduto all’idea che i suoi confini fossero impermeabili dall’esterno. Il trauma della campagna del Canale di Suez del 1973 è rimasto profondamente inciso nella coscienza nazionale. Le strutture statiche della Linea Bar-Lev
(sull’esempio della Linea Maginot) hanno perso credito, e di conseguenza anche l’analogo progetto di difesa lineare ad Oriente, il Piano Allon.
Il ritorno di Sharon al potere politico, nel 1977, gli ha concesso l’opportunità di trasporre la medesima strategia nei confronti della Cisgiordania palestinese, come un cuneo profondo di difesa sul fronte orientale di Israele. Sharon considerava la profondità della Cisgiordania nella sua interezza come una “frontiera” estensiva, permeabile, e quindi si permetteva di ignorare qualsiasi linea tratteggiata sulle carte come confine politico.
Nel 1982, Sharon elaborava il suo piano “H”, matrice di insediamenti punti di forza per la Cisgiordania, rispecchiante la strategia del Sinai. La strategia difensiva a matrice di Sharon, tuttavia, prevedeva anche di permeare il “sionismo colono” con nuovi obiettivi e legittimità, al di là di riconfermare la narrativa sionista della connessione ebraica alla terra - un evento che doveva avere in seguito profonde conseguenze politiche.
Quando Ariel Sharon “ha trascinato” più in là i margini effettivi della linea di confine di Israele e li ha fatti “cadere” su entrambi i lati della West Bank, al fine di allungare la sua matrice a rete di punti di forza, con l’obiettivo di creare per Israele una nuova “frontiera”, spazialmente più estesa, che attraversava tutta la West Bank, Sharon effettivamente stava ribadendo che le colonie in Cisgiordania costituivano la linea di frontiera estesa sul territorio pre 1967, tanto quanto su ogni territorio occupato dopo il 1967.
Questo era precisamente il suo punto di vista: a suo parere, non importa se Israele si estende su un territorio pre-o post 1967 - tutti i confini sono fluidi e mutevoli. Quello che importa è una difesa in profondità!
Secondo questo punto di vista, semplicemente è il “sionismo colono” la frontiera di Israele, dove è possibile dire dove si trovano le frontiere d’Israele – possono trovarsi più lontano o più vicino. Quindi, non è il solo “sionismo colono” a rivendicare la copertura della continuità lineare con i “Sionisti pionieri”: è lo Stato di Israele, che ha loro assegnato una continuità lineare con la fondazione di Israele, e ha fatto di loro una necessità strategica.
Così, la “frontiera” matrice-trappola di Sharon, estesa, elastica, permeabile, ha innescato il processo in ambito militare di rendere confusa la distinzione tra una politica interna ed esterna. Questo, e il principio di Sharon di spazio “da non rispettarsi”, hanno costituito la costante dottrina militare israeliana.
In un’intervistariguardante l’aggressione del 2002 condotta da Israele contro il campo profughi di Balata, il generale Aviv Kochavi (ora a capo del servizio segreto militare israeliano) ha spiegato che “il nemico [i Palestinesi] interpreta lo spazio in maniera tradizionale, classica.” Vale a dire, “il vicolo [in un campo palestinese] è un luogo interdetto al passaggio a piedi [dei soldati israeliani] per il pericolo di cecchini; e la porta è proibita all’attraversamento [per paura di trappole], ed è proibito guardare all’interno di una finestra [di una casa palestinese] ....Però, io non voglio obbedire a questa interpretazione [di spazio, ma anche del diritto internazionale] e cadere in queste trappole. Io desidero sorprendere il nemico. Questa è l’essenza della guerra. Io ho bisogno di vincere. Ho bisogno di balzare da posizioni inaspettate .... Questo è il motivo per cui abbiamo optato [invece] un metodo diverso di come muoversi attraverso i muri [delle case palestinesi a Balata ]. Siamo stati in grado di interpretare l’intero spazio in modo diverso.”
Shimon Naveh, ex direttore dell’Operational Theory Research Institute (OTRI), l’organizzazione che ha istruito tutti gli ufficiali israeliani di grado elevato nel “combattimento in centri abitati come problema territoriale”, ha commentato nel 2006 : “Noi vogliamo affrontare lo spazio striato dell’antiquata, tradizionale, pratica militare con una fluidità che consenta il movimento attraverso lo spazio senza tener conto di confini e barriere. Invece di contenere e organizzare le nostre forze in base alle frontiere esistenti, vogliamo attraversare i confini senza limitazioni.”
Uno degli scopi principali dell’OTRI era di liberare Israele dall’essere fisicamente presente nei Territori Occupati, mantenendo comunque il controllo sulla sicurezza. Il suo obiettivo era quello di sostituire il vecchio modo di dominio territoriale con una originale de-territorializzazione, che l’OTRI definiva “occupazione attraverso scomparsa.”
Fondamentalmente, l’indistinguibilità fra spazio stabilito e delimitato si è progressivamente travasata dall’esercito nella sfera politica israeliana. Inoltre, il principio di non distinguere ciò che è interno da ciò che è esterno è stato esteso dentro lo spazio politico e giuridico dei Territori Occupati. Questo ha permesso di modellare lo spazio a due strati, assoggettando Ebrei israeliani e Arabi a matrici diverse di mobilità e di trattamento amministrativo.
Un certo numero di accademici israeliani, come Adi Ophir e Ariella Azoulay, hanno delineato le modalità con cui i Palestinesi dei Territori Occupati sono arrivati ad essere considerati da Israele come un “nemico”, a tal punto che questa “ostilità” deve configurarsi come la qualità peculiare della stessa società palestinese, quindi si esclude che i Palestinesi possano essere considerati degni di essere trattati seriamente, come “esseri” politici, in quanto certamente privi dei requisiti per quei diritti - sia giuridici che politici - che Israele conferisce regolarmente ai propri cittadini.
I Palestinesi, etichettati come una intrinseca, irredimibile minaccia alla sicurezza, vengono spogliati di ogni visibilità politica: le azioni dei Palestinesi sono lette, invece, come espressioni brucianti di ostilità innata e di sentimenti di inimicizia, per cui ogni attribuzione di diritti politici sarebbe una risposta inappropriata. La conseguenza politica decisiva, all’opposto di quella militare, è stata la messa a punto e poi l’indistinzione della differenza tra la politica all’interno di Israele e gli aspetti politico-giuridici al suo esterno- proprio come le barriere fisiche stabiliscono una separazione fisica, ma poi viene reso indistinto il loro senso politico mantenendo queste barriere provvisorie e nomadiche.
Eyal Weizman sostiene che la costruzione da parte di Sharon di una barriera di sicurezza in Cisgiordania non contravviene alla visione di Sharon, ma piuttosto la conferma. La barriera non è una frontiera, nemmeno è permanente. Nel corso degli anni, Israele è stato restio a definire il preciso posizionamento della barriera e ha cercato di mascherare il suo significato politico. La barriera costituisce piuttosto un ulteriore ostacolo e uno strumento di separazione simile ad un check-point a larga estensione, ma ovviamente posizionata all’estremità dello spettro di ostacoli più immobili che i Palestinesi devono affrontare.
Così, lo spazio discriminato giuridicamente e amministrativamente ha consolidato anche il principio politico sionista di diritti politici differenziati. Questo sistema a due livelli prevede l’esclusione politica dei Palestinesi, ma mantiene la dipendenza e l’integrazione giuridica dei Palestinesi sotto l’apparato di controllo di Israele. Il sistema è essenzialmente un problema di eccezione di sovranità, che filosofi come Carl Schmitt e Giorgio Agamben hanno affrontato.
[N.d.tr.: Come giurista e studioso Carl Schmitt è uno dei più noti e studiati teorici tedeschi di diritto pubblico e internazionale. Le sue idee hanno attratto e continuano ad attrarre l’attenzione di molti filosofi e studiosi di politica, tra cui Walter Benjamin, Leo Strauss, Jacques Derrida, Gianfranco Miglio, Giorgio Agamben. Il suo pensiero ha ruotato attorno alle questioni del potere, della violenza e dell’attuazione del diritto. Tra i concetti chiave, nella loro lapidaria formulazione, si devono mettere in piena luce lo “stato d’eccezione”, la “dittatura”, la “sovranità” e il “grande spazio”, e le definizioni da lui coniate, come “teologia politica”, “custode della costituzione”, “compromesso di formula dilatorio”, “la realtà della costituzione”, o formule dualistiche come “legalità e legittimità” “legge e decreto”, “amico e nemico” e “decisionismo”.
Un testo fondamentale di Giorgio Agamben “Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita”, si inscrive nelle tematiche e nel dibattito sollevati dalle ricerche intorno al biopotere, indagando sul rapporto fra diritto e vita, e sulle dinamiche dei modelli di sovranità.]
In buona sostanza, i Territori Occupati assumono una dimensione di eccezionalità temporale e spaziale, come qualcosa al di fuori, de-vincolata dal corpo politico all’interno della Linea Verde, ma anche parte di esso. Si tratta di una geografia mutevole, in cui è sospeso lo stato di diritto, comunque sotto la copertura della legge.
Pertanto, oltre a costituire una strategia militare, il principio di Sharon “interno-esterno” si riflette ora in un sistema politico discriminatorio.
L’introduzione sistematica militare di frontiere elastiche e l’uso calcolato di livelli oscillanti di violenza militare sono destinati a consegnare ai Palestinesi un’esistenza vulnerabile e - in un certo qual modo, da profughi nel loro stesso territorio – mentre la conseguente incertezza psicologica prodotta mediante la manipolazione dello spazio politico (nessun posizionamento di confini definitivi), è destinata a tenere i Palestinesi quiescenti e soggetti, un effetto su un collettivo di persone non molto dissimile a quello del disorientamento provocato dagli inquisitori nel corso dei loro interrogatori.
Questa forma di esclusione-inclusione colpisce anche i Palestinesi cittadini di Israele. Essi sono concepiti come una classe di esclusi, sulla base di una loro sospetta carenza di fedeltà nei confronti dello Stato, che continuamente viene messa alla prova di smentita.
Questa categoria di pensiero ora è penetrata in Europa. Per esempio, David Cameron ha recentemente messo in campo argomenti analoghi di eccezionalità e di carenza di lealtà nel conto dei Musulmani che vivono in Gran Bretagna - una mossa che probabilmente rafforzerà ancora questo assunto concettuale in Israele.
Instabilità ed incertezza per i cittadini palestinesi all’interno della Linea Verde non derivano tanto da uno stato di eccezione al sistema giuridico, ma soprattutto da un’autentica ambiguità e dallo stato di eccezionalità implicito nelle minacce di deportazione della popolazione esternate da alcuni diridenti israeliani. La paura di essere deportati e di diventare vittime di antagonismo e di pregiudizio di Stato diventa così una fonte ulteriore di quiescenza politica.
Allora, qual è la logica in tutto questo? La direzione di questo pensiero, abbastanza chiaramente, è quella di rendere indistinti i confini dello Stato di Israele, piuttosto che a ben definirli. In una tale sistemazione geografica, i Palestinesi sono allo stesso tempo all’interno e all’esterno, collocati in una serie di sacche instabili perforate da una matrice di punti di forza e completamente accerchiate da Israele, ma restano estranei alla prospettiva del sistema statuale israeliano.
Questa è la temporalità stessa dello spazio delimitato che permette di continuare l’occupazione in modo permanente. Tale logica di esclusione-inclusione risolve anche il dilemma di come conservare le risorse chiave e la narrazione sionista del vincolo personale ai luoghi storici e religiosi, evitando il rischio potenziale di una guerra civile interna fra Ebrei, se il “sionismo colono” dovesse essere definito come entità isolata potenzialmente dannosa alla dirigenza sionista.
Solo attraverso tale ridefinizione radicale del sionismo moderno, che disaccoppia il “sionismo colono” dalla sua pretesa di continuità lineare con la tradizione sionista, è possibile porre in essere una soluzione a due Stati contraddistinti dalla parità di diritti per la minoranza palestinese.
E perché mai Israele dovrebbe voler continuare l’occupazione in questo modo?
Khan ancora: “Una volta che si rende esplicito l’obiettivo di preservare il sionismo all’interno dello Stato a maggioranza ebraica ... tutto quello che Israele sta facendo assume un senso.”
Naturalmente, la paura è che, se dovesse Israele divenire uno Stato a maggioranza ebraica con confini fissi, la domanda inesorabile per la piena parità di diritti per le minoranze interne preannuncerebbe la fine dei diritti speciali e del sionismo - Israele cesserebbe di essere uno stato sionista.
Una soluzione a due Stati, quindi, non facilita il problema di come conservare il sionismo; anzi rischia di indebolirlo. La dimensione del gruppo degli “esclusi” può essere ridotta dal 40-50 per cento al 20 per cento rispetto alla popolazione dominante ebraica, ma la contraddizione intrinseca di un gruppo di esclusi non-ebreo rimane irrisolta in entrambi gli esiti.
Quindi, non è sorprendente che sia prevalso l’argomento sionista di mantenere i confini non definiti, lasciando i Palestinesi in una condizione di incertezza sistematica, mantenendoli dipendenti dalla benevolenza israeliana, mentre vengono intensificati gli strumenti di controllo sui Palestinesi, sulle risorse idriche e sulla terra.
Il problema è che la coalizione a sostegno della soluzione dei due Stati collassa sempre ad un certo punto perché, come Mushtaq Khan ha sottolineato, se si intendono adottare diritti differenziali per un 15 o 20 per cento della popolazione, perché non imporre diritti differenziali per un 35 o 40 per cento della popolazione e conservare intatta la visione sionista, tenendo ancora e sempre sotto controllo la West Bank o ampi tratti di essa? Qui è dove il sistema politico di Sharon si impone: questo sistema sembra offrire il modo in cui questo può essere fatto, senza mettere a repentaglio, anche pesantemente, la sicurezza di Israele.
Sarebbe questo tipo di pensiero sionista a desiderare strategicamente di avere un confine rigido in riferimento ai Palestinesi dei Territori Occupati o all’interno della Linea Verde?
La risposta di Khan è negativa. “Cosa guadagnerebbe Israele, cedendo territorio ... quando alla fine della giornata, Israele avrebbe ancora il problema di giustificare al mondo perché assegna diritti differenziali per un numero significativo di suoi cittadini?”
Alcuni Israeliani sosterranno che il problema delle minoranze non ebraiche all’interno di uno Stato a maggioranza ebraica sarebbe gestibile tramite la concessione di diritti quasi uguali a tali gruppi. Ma per la maggior parte degli Israeliani, a quanto pare, questo rappresenterebbe la punta sottile del cuneo che porta alla fine del sionismo. Anche la maggior parte degli appartenenti alla sinistra israeliana ormai non nasconde le proprie aspirazioni per un sionismo che trionfi per una piena uguaglianza democratica.
In buona sostanza, la posizione negoziale di Israele in realtà declina davanti all’eventualità della creazione di uno Stato palestinese sovrano per i Palestinesi presenti sia all’interno della Linea Verde, nonché per i profughi della diaspora. La gestione di Israele di questi altri due gruppi di esclusi, i profughi e i Palestinesi all’interno della Linea Verde, si basa soprattutto sulla sua capacità di continuare a controllare i Territori Occupati.
Mantenere il controllo anche a distanza dei Territori Occupati tiene aperta ad Israele la possibilità di spostare cittadini palestinesi di Israele nei Territori Occupati mediante scambi limitati di territorio. Inoltre assicura ad Israele di conservare la capacità di dare esecuzione al futuro ritorno dei profughi palestinesi a stabilirsi nella loro patria, mentre se esistesse uno Stato palestinese sovrano, quest’ultimo potrebbe rifiutare di accettare i rifugiati, lasciando la patata bollente della risoluzione del problema dei profughi ancora sulle mani di Israele.
Khan sostiene che sarebbe sbagliato immaginare che Israele consideri questi filoni apparentemente distinti - i rifugiati, i Palestinesi che vivono in Israele e i Palestinesi che vivono nei Territori Occupati – come questioni politiche separate e distinte. Dal punto di vista sionista, queste sono intimamente interconnesse e dipendenti dal fatto che Israele non perda il controllo sul territorio e le frontiere.
Se uno Stato palestinese minaccia di indebolire il sionismo in questi modi, non è sorprendente che non venga proposto. Semplicemente, è privo di plausibilità aspettarsi che avvenga attraverso negoziati con i Palestinesi privi di qualsiasi potere contrattuale - perché per creare uno stato sovrano e legittimo ci sarebbe bisogno che i Palestinesi costringessero Israele a concedere qualcosa che molti Israeliani vedono non essere nel loro interesse concedere: la rinuncia al sionismo!
Qualunque concessione in questo settore (del sionismo) apre inevitabilmente un vaso di Pandora e il rischio di innescare una guerra civile tra i vari filoni del sionismo.
Per Israele è più soddisfacente  avere uno “Stato” palestinese senza frontiere, in modo da poter condurre di continuo negoziati sul tema dei confini e contare sulla incertezza indotta, per mantenere in condizione di quiescenza i Palestinesi e l’opinione internazionale.
Il vice premier israeliano Moshe Ya'alon si dimostrava franco quando in un’intervista dello scorso anno gli veniva richiesto: “Perché tutti questi giochi di finzione nei negoziati?”
Egli rispondeva: “Perché…vengono fatte pressioni. Da Peace Now all’interno, e da altre organizzazioni all’esterno. Quindi dobbiamo destreggiarci .... destreggiarci con gli Americani e gli Europei, che si nutrono di elementi israeliani che creano l’illusione che un accordo possa essere raggiunto ....Io ribadisco che il tempo lavora per coloro che sanno come fare uso di esso. I fondatori del sionismo sapevano ... e noi del governo sappiamo come fare uso del tempo.”
Il 25 gennaio scorso, Sever Plocker, il vice caporedattore di “Yediot Aharonot” ha scritto che il recente piano del ministro degli Esteri israeliano Avigdor Lieberman per uno Stato palestinese senza confini su metà della Giudea e Samaria, sulla base di precedenti analisi, corrispondeva più o meno al piano del Primo ministro israeliano Netanyahu.
Allora, “Netanyahu aveva affermato che l’attuale situazione sul terreno in Giudea e Samaria è stabile e sicura, e costituisce, a tutti gli effetti, una soluzione al conflitto. I Palestinesi hanno già per tre quarti uno Stato. .. hanno una bandiera, un prefisso internazionale telefonico... Tutto quello che rimarrà al governo di fare, Netanyahu ha accennato, è solo accettare un cambiamento di ragione sociale dell’entità, da ‘autorità’ a ‘Stato’ e lanciare qualche osso in più, pochi segnali di sovranità, come ad esempio il diritto di coniare la propria moneta. - e la pace regnerà per 70 anni a venire.”
A partire da quel editoriale, molti in Israele, tra cui il ministro degli Esteri e l’Istituto Reut (un centro studi politico-strategici con sede a Tel Aviv), hanno appoggiato il concetto di uno Stato palestinese entro confini provvisori.
Ma può questa inclusione, che favorisce l’esclusione, veramente succedere?
Da un lato, questo sistema politico tecno-spaziale, nonostante la sua pretesa di legittimità filosofica, sta alla radice di null’altro che di una evoluzione del paradigma chiave elaborato dallo stratega sionista, Vladimir Jabotinsky: “Un modo diverso di fare scomparire i Palestinesi”.
Ma d’altro canto, l’evidente successo militare delle Forze di Difesa di Israele nel controllare i Territori Occupati, utilizzando questo radicale approccio allo spazio, ha convinto molti Israeliani, tra cui la maggior parte della dirigenza israeliana, che anche questo offra al contempo la prospettiva di successo politico.
Tuttavia, il loro disprezzo radicale per le norme del diritto e delle convenzioni internazionali è al contempo per Israele innovazione e il tallone d’Achille. I diritti speciali per alcuni, e l’esclusione-inclusione radicale per la minoranza, in uno spazio politico a due livelli, segnano una chiara contraddizione con la narrazione dei valori occidentali - e, come tali, mettono in discussione la legittimità di Israele a presentarsi come il faro della civiltà occidentale in Medio Oriente, così minacciando a più lungo andare la stessa legittimità di Israele.
Immediata è l’intuizione. Finché la maggioranza degli Israeliani crede in questo sistema politico di esclusione-inclusione, la politica europea e degli Stati Uniti relativa a due Stati con parità di diritti è solo un agitarsi nel buio. Questo non porterà mai ad uno Stato palestinese autenticamente sovrano. Coloro che in Occidente decidono le politiche non si accorgono proprio di tutto questo?
Tutti i loro progetti sono così perfettamente compatibili con la strategia dell’Operational Theory Research Institute (OTRI) di “occupazione attraverso scomparsa”, con le elaborazioni occidentali tutte vincolate alla realizzazione di un’efficace collaborazione palestinese sulla sicurezza all’interno di una matrice globale di controllo israeliano.
Tutto sembra troppo perfetto, troppo strategico per essere accidentale. Davvero non si rendono conto di questo? Forse se ne rendono conto, ma semplicemente non possono sfuggire alla loro premessa, che però presenta incrinature, di un Israele costretto dalla propria necessità a concedere uno Stato ai Palestinesi, ignorando del tutto l’evidenza della logica “altra”. Oppure, in alternativa, alcuni Europei e Statunitensi dotati di senso realistico sono giunti alla conclusione che l’acquiescenza palestinese deve essere imposta?
Forse solo per tale acquiescenza Israele può ignorare le contraddizioni interne alla propria ideologia sionista. Queste contraddizioni, se non risolte, potrebbero mettere a rischio la sopravvivenza definitiva di Israele nella regione. Cioè, i leader degli Stati Uniti ed europei comprendono che per Israele esiste l’impossibilità politica di rinunciare al suo credo sionista, e che solo tenendo tranquilli i Palestinesi all’interno di una attenuata “occupazione attraverso scomparsa”, spacciandola come “Stato”, Israele ha la possibilità di salvarsi?


Lunedì 23 Maggio,2011 Ore: 15:12
 
 
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