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www.ildialogo.org IL MEDIO ORIENTE,di Daniela Zini

CONSIDERAZIONI DI UNA VIAGGIATRICE EUROPEA
ALL’ALBA DI UN NUOVO MILLENNIO

IL MEDIO ORIENTE

di Daniela Zini

Vediamo, in questa breve sintesi, come si è creata negli anni la situazione politica e commerciale che provoca tanti disordini.


L’espressione Medio Oriente, coniata dal quartiere generale alleato, durante la seconda guerra mondiale, per indicare un teatro di operazioni, non ha nessun valore storico e geografico ma, ormai, libri e giornali usano Medio Oriente – o addirittura, per la solita mania delle sigle, M. O. – con tanta sicura tranquillità che, anche a noi, conviene accettarlo così com’è. Ma sarà bene cercare di stabilire, con qualche approssimazione, che cosa intendiamo dire con questo discutibile termine.
Un’occhiata alla cartina geografica: Turchia, Iran, Egitto con la sua appendice Sudan, tutto quello che vi è in mezzo è Medio Oriente.
Più di 7 milioni di chilometri quadrati – poco meno della superficie degli Stati Uniti – su cui vivono poco più di 350 milioni di persone, che si addensano nelle zone dove, oggi come nel passato, l’esistenza è stata possibile e, a volte, anche ricca: vale a dire sulla costa mediterranea e lungo i tre grandi fiumi, il Nilo, il Tigri e l’Eufrate. Lungo questi fiumi si sono formate almeno due civiltà; sulla costa mediterranea sono nate due grandi religioni, mentre la terza, la musulmana, sorta nel cuore della deserta penisola arabica, ha trovato modo di espandersi e di fruttificare per tutto il bacino Mediterraneo.       
1.    Gli Stretti
Nella geografia e, quindi, nella strategia del mondo moderno, questa immensa zona è importante perché domina gli accessi all’Oriente e sta sulla strada di espansione delle grandi potenze occidentali.
L’impero zarista che si affacciava sul Mar Nero non poteva non interessarsi a questa zona giacché una sua espansione non era possibile, altrove. I suoi grandi fiumi navigabili, il Dnieper, il Dniester e il Don, sfociavano nel Mar Nero e alla Russia occorreva uno sbocco mediterraneo.
Anche la Francia, che, con Napoleone sognò le ricchezze e le glorie delle Indie, portò la guerra sul suolo egiziano.
La Germania, nel massimo fiorire del suo impero, divisò la “spinta a Oriente”, meta Baghdad.
E, nel gioco delle quattro grandi potenze, si inserirono le più piccole, non esclusa l’Italia.
La cosiddetta Convenzione degli Stretti del 1841 ammetteva scopertamente che quella via d’acqua non era affare solamente turco, ma interessava, in pratica, tutte le maggiori potenze.
La fine della prima guerra mondiale parve aver risolto in problema.
L’impero ottomano, in declino da oltre duecento anni, cessava di esistere; la Germania, sconfitta, rinunciava alla “spinta a Oriente”; dalla competizione si ritirava anche la Russia della rivoluzione, perché aveva altro da pensare e la nuova situazione non permetteva di dedicarsi ad alcuna politica di espansione imperialistica.
Restavano Francia e Inghilterra, che, infatti, si divisero la torta. L’Inghilterra consolidava l’occupazione di Cipro e assumeva il mandato in Palestina, in Giordania e in Iraq. Alla Francia andava la Siria e un contentino – dodici isolette intorno a Rodi – toccava anche all’Italia.
Oggi gli aerei e i missili superano decisamente la strategia dei Dardanelli e la situazione si semplifica.
Ma, solo in apparenza.
2. Il Canale di Suez
L’opera, tecnicamente e politicamente, fu francese.
La Gran Bretagna non fu mai favorevole all’apertura del canale.
E, non a caso: avendo il predominio navale e commerciale della lunga via d’acqua che doppia Buona Speranza, controllando la via di terra per le Indie, perché avrebbe dovuto sollecitare l’apertura di una nuova strada, con il rischio che, nell’impresa e dopo, un’altra potenza le togliesse il controllo dei traffici?
Per il canale, dunque, si batterono i francesi.
Francese l’azione diplomatica, francesi i tecnici, francese l’animatore dell’impresa: Ferdinand de Lesseps.
Il capitale fu, in parte francese, in parte egiziano.
Egiziana la manodopera, pagata miseramente.
Il Khedivè Ismail sborsò di tasca propria, il 44% dei capitali necessari, qualcosa come 100 milioni di franchi di allora. Una somma, per i tempi, favolosa.
Furono soldi spesi male.
Cosa poteva impedire all’Egitto di diventare padrone del canale – metà dei soldi erano suoi, sua per quattro quinti la manodopera – se non la sventatezza dei governanti, i quali si fecero derubare di tutto il pacchetto azionario? 
A fare il colpo fu il primo ministro britannico Benjamin Disraeli. L’Inghilterra si avvide (1875) che la via di Suez era troppo importante e occorreva non farsi sfuggire il controllo.
Il canale fu inaugurato, nel 1869, e se, nei primi anni, il traffico fu modestissimo – una vera delusione: poco più di 400 mila tonnellate di merce – dieci anni dopo il traffico era, già, decuplicato; alla fine del secolo sfiorava il 10 milioni di tonnellate e, cinquanta anni dopo, i 70 milioni, con 11.751 navi.
Un traffico gigantesco, che imponeva tasse per 100 milioni di sterline annue: tutti soldi che, detratte le spese, non indifferenti peraltro, di gestione e di manutenzione, finivano nelle casseforti della Compagnie Universelle du Canal Maritime de Suez.
Universale, certo di nome, ma con la direzione a Parigi e le azioni a Londra.     
3. Il Nazionalismo Arabo
Tra gli egiziani, liberatisi con la prima guerra mondiale dal dominio ottomano e, poi, via via sempre più indipendenti dal controllo inglese, cresceva il risentimento contro lo straniero, anche per la questione del canale.
Non era il canale frutto del lavoro indigeno?
E del capitale indigeno, poi sottratto con una abile manovra dai signori di Londra?
Perché il canale, si chiesero, non poteva essere controllato dagli egiziani?
Questo chiese Nasser alla folla scatenata del Cairo, all’indomani del tramonto del sogno di Assuan.
Ed ecco che nel Medio Oriente entrò in gioco una forza nuova, autonoma.
È un altro, importantissimo filo che occorre dipanare e seguire, se si vuole intendere l’attuale groviglio di interessi.
A prima vista sembra strano che, alla testa del nazionalismo arabo, si sia posto proprio l’Egitto, che è il meno arabo e il meno compatto dei paesi mediorientali. Unità economica e geografica, sicuramente: la valle del Nilo; ma non certo unità etnica e linguistica. La lingua ufficiale, fino al 1917, era il turco. Oggi è l’arabo.
Eppure, la bandiera del nazionalismo arabo ha sventolato proprio al Cairo.
Per quale motivo?
Il nazionalismo arabo ha un tono spiccatamente agonistico, come qualsiasi altro nazionalismo.
È contro qualcosa, prima di essere per qualcosa.
Nel nostro caso, era contro lo straniero.
L’Egitto ha conosciuto più di ogni altro paese mediorientale il peso della dominazione – politica, economica, finanziaria, militare – straniera. L’Egitto, inoltre, ha una più antica continuità politica e amministrativa. Le influenze straniere – francesi e inglesi – vi hanno portato fermenti rivoluzionari.
E come l’Egitto anche il resto del mondo arabo aveva motivo per rammaricarsi dell’atteggiamento occidentale.
Va ricordato che, durante la prima guerra mondiale, l’Inghilterra, per battere la Turchia, le aveva sollevato contro le popolazioni arabe e ne aveva organizzato gli eserciti: è l’epoca di Edmund Allenby e del leggendario Thomas Edward Lawrence. E dra riuscita a sollevarle solo promettendo, una volta caduto l’impero di Costantinopoli, la libertà e l’unità della nazione araba. Ma l’Inghilterra aveva fatto anche altre promesse: aveva assicurato alla Francia il controllo della Siria e al movimento sionista la “patria israeliana”.
Non si possono promettere troppe cose a troppe persone: alla resa dei conti qualcuno resta deluso.
Nel nostro caso, restarono delusi i paesi arabi.
La speranza dell’unità rinacque durante e dopo la seconda guerra mondiale: proprio allora (1944), sotto la pressione delle ostilità in corso e gli auspici inglesi, Siria, Giordania, Arabia Saudita, Libano, Yemen fondarono la Lega Araba, una unione secolare, non religiosa (tra l’altro, il Libano era prevalentemente cristiano), cui, più tardi, aderiva la Libia. 
La Lega Araba si dimostrò un organismo astratto, inefficiente, nato gracile e destinato a perire.
4. Lo Stato di Israele
Attraverso i secoli, gli ebrei non hanno mai rinunciato al ritorno nella “terra dove scorre il latte e il miele”, come disse Giosuè al suo popolo, quando lo guidò dalle desolate lande del Sinai. Per questo popolo sparso in tutto il mondo, ma mai dimentico della comune origine, restava vivo l’appello della terra promessa, né in Palestina erano mai scomparse del tutto le piccole comunità ebraiche.
Verso la fine del XIX secolo, Theodor Herzl tracciò l’idelogia del moderno popolo di Israele e, in quegli anni, vi furono le prime immigrazioni verso la Palestina.
Durante la prima guerra mondiale, Chaim Weizmann – divenuto, poi, primo presidente dello Stato israeliano – e Walter Rothschild, il più ricco banchiere del mondo - che avevano concesso un cospicuo prestito al governo inglese – ottennero da Lord Arthur James Balfour una dichiarazione favorevole al futuro Stato di Israele. La dichiarazione, forse, intenzionalmente, era assai vaga.
Diceva:
“Il governo di Sua Maestà vede con favore la fondazione in Palestina di una Patria Nazionale del Popolo Ebraico, e contribuirà con ogni suo mezzo al raggiungimento di questo fine…”
Dopo la guerra, tra il 1922 e il 1938, l’immigrazione degli ebrei si fece intensissima: in Palestina raddoppiò la popolazione ebraica, che, provenendo dai più evoluti paesi d’Occidente, sapeva scegliere e mettere a frutto le terre migliori. Il risentimento degli arabi – non si dimentichi che, anche a loro, era stata promessa la nazione – si manifestò quasi subito e non giovarono a placare i dissensi gli ambigui interventi inglesi. 
La seconda guerra mondiale non migliorò la situazione.
30 mila soldati israeliani militarono, con la stella di David, nell’esercito britannico.
E anche in Italia: furono ottimi soldati.
Intanto la follia criminale di Adolf Hitler e di Heinrich Himmler stava distruggendo sistematicamente la popolazione ebraica di tutta l’Europa.
Finita la guerra vi furono motivi a sufficienza per chiedere ancora la patria in Palestina e le Nazioni Unite cercarono di eludere il problema, proponendo la divisione di due zone etniche, una araba e l’altra israeliana.
Nessuno accettò e iniziarono gli scontri armati.
L’Inghilterra non trovò di meglio che rinunciare per sempre al mandato.
Era il 15 maggio 1948.
Lo stesso giorno era proclamato lo Stato di Israele: Russia e Stati Uniti lo riconobbero subito, mentre la Lega Araba aprì le ostilità.
Gli israeliani si difesero con coraggio e avvedutezza incredibili: avevano un esercito deciso, soldati pronti a tutto, che avevano conosciuto gli orrori della guerra in Europa e i rischi dell’immigrazione clandestina.
Combatterono anche le donne.
Il 3 aprile 1949, la Giordania chiese la pace e la guerra aperta finì, ma le ostilità continuarono allo stato freddo, esplodendo, di tanto in tanto, in piccole scaramucce di frontiera.
Lo Stato di Israele, ormai, esisteva, anzi cresceva perché l’afflusso immigratorio continuava. Questa volta, tuttavia, era un’immigrazione di tipo meno qualificato: gente che veniva dall’est, più spesso dall’Iraq, da dove la colonia ebraica, spossessata di ogni bene, aveva avuto “il permesso di emigrare”.
La popolazione stava salendo verso i 2 milioni e le risorse del paese erano quelle che erano: la vita non era facile anche a causa della pervicace ostilità dei popoli arabi e, soprattutto, dell’Egitto.
E il petrolio?
Durante la seconda guerra mondiale, l’Iraq aveva pensato bene di chiudere l’oleodotto che da Kirkuk faceva capo al porto di Haifa.
Ironia della politica internazionale: lo Stato di Israele, che aveva il petrolio a poche centinaia di miglia, doveva farselo venire dal Venezuela.
Ecco, dunque, a complicare la situazione, un altro elemento che completa il quadro mediorientale.  
5. Il Petrolio
La civiltà moderna vive sul petrolio.
In pace e – lo si tenga bene a mente – più ancora in guerra, non è possibile muoversi senza una larga disponibilità di petrolio e dei suoi derivati.
La zona attorno alla foce dei due grandi fiumi – forse, nell’antichità geologica fu un mare di acque poco profonde – conteneva i più grandi giacimenti e offriva quasi tutte le condizioni richieste per lo sfruttamento. Infatti, il petrolio era abbondante e i giacimenti concentrati. Da un punto di vista geologico le condizioni erano perfette, basti pensare che il primo petrolio iraniano scaturì, nel 1908, da una profondità di 350 metri. Né esistevano complicazioni giuridico-politiche: proprietario del suolo, quasi sempre, era il sovrano locale, un re, un sultano, uno sceicco; si doveva discutere solo con lui e non era difficile trovare l’accordo.
La manodopera era sufficiente e a buon prezzo.
Assai meno facili le condizioni ambientali; in molti casi bisognava inventare un habitat tollerabile, provvedere a tutto, a iniziare dall’acqua potabile.
La prima nazione interessata allo sfruttamento dei giacimenti mediorientali fu la Gran Bretagna.
Winston Churchill, Primo Lord dell’Ammiragliato, nel 1913, poté sostituire il petrolio al carbone, per far viaggiare le navi da guerra.
L’anno prima era sorta la raffineria di Abadan, sul Golfo Persico.
Collegata ai pozzi da opportuni oleodotti, Abadan offriva tutto il petrolio che occorreva alle navi che vi facevano scalo. La società che se ne occupava era la Anglo-Iranian Oil Company, a fortissima partecipazione statale.
Nel 1919, erano 8 milioni e mezzo i fusti di petrolio estratto; nel 1950, oltre 242 milioni. L’anno dopo l’Iran di Mohammad Mossadeq nazionalizzò ogni cosa e si impadronì degli impianti:
Occorse cercare il petrolio altrove.
Ve ne era in abbondanza a Kirkuk, nell’Iraq, un immenso giacimento lungo 60 miglia e largo 2; nel 1952 se ne estrassero 141 milioni di fusti.
Petrolio si trovava nelle isole Bahrein e, poi, negli anni tra il 1932 e il 1936, sulla costa araba antistante a Damman, a esempio: l’Arabia Saudita entrò nel grande gioco del petrolio. Nel 1953, se ne estrassero 308 milioni di fusti.
Ancora più smaccata, quasi paradossale, la situazione del Kuwait, un sultanato indipendente tutelato dagli inglesi. Il Kuwait – grande quanto l’Abruzzo e con appena 200 mila abitanti – produceva quasi 55 milioni di tonnellate di petrolio l’anno. Lo estraeva la Kuwait Oil Company, la quale pagava allo sceicco 10 milioni di sterline al mese.
Questa era la situazione.
Gli Stati del Medio Oriente non potevano negare il petrolio all’Europa, per il semplice motivo che quella era la loro unica risorsa e che la loro economia era complementare rispetto all’economia europea.
Potevano, tuttavia, farselo pagare quanto volevano, potevano chiedere dollari, anziché sterline o franchi o marchi o lire, alterando in tal modo la bilancia finanziaria dei paesi interessati.
Potevano – lo avevano fatto – interrompere le forniture in caso di guerra, perché il petrolio acquistava importanza essenziale: un’industria poteva funzionare anche a carbone, un treno viaggiare anche con l’elettricità, ma un carro armato o un aereo, no di certo.
In caso di guerra il Medio Oriente era in grado di immobilizzare tutta l’Europa occidentale.
Questo è il motivo fondamentale degli avvenimenti cui abbiamo assistito e assistiamo con tanta trepidazione; tutte le nazioni del mondo sono interessate e l’avvenire è quanto mai incerto e tenebroso.
Daniela Zini
Copyright © 10 ottobre 2010 ADZ


Lunedì 11 Ottobre,2010 Ore: 15:30
 
 
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