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www.ildialogo.org Il pericolo di una democrazia made in Usa,di Mostafa El Ayoubi

Iran.
Il pericolo di una democrazia made in Usa

di Mostafa El Ayoubi

A un anno dalla rielezione del presidente Ahmadinejad, non si parla più delle  proteste di quella che è stata definita l’«onda verde». Il movimento è stato  indebolito anche da chi l’ha cavalcato in modo strumentale: soprattutto gli  Stati Uniti, per interessi strategici legati al controllo della regione del  Golfo Persico.
 È passato ormai un anno dalle tanto discusse elezioni presidenziali in Iran  che hanno riconfermato Ahmadinejad per un secondo e ultimo mandato. L’esito di  quella consultazione elettorale fu fortemente contestato da decine di migliaia  di cittadini scesi in piazza contro il regime accusato di brogli elettorali. Le  poche immagini che giungevano da Teheran, a causa della censura, mostravano le  strade della capitale colorate di verde, colore simbolo del movimento di  protesta battezzato «onda verde». I manifestanti speravano in una svolta  politica, dopo un trentennio di regime teocratico. Ma la rivoluzione «colorata»  non ha avuto l’esito sperato da molti iraniani – giovani soprattutto – che  rivendicavano libertà, diritti e democrazia. Oggi di quella «onda verde» non si  sente quasi più parlare. È stata indebolita da coloro che l’hanno  strumentalmente cavalcata: da un lato il regime, dall’altro lato le potenze  occidentali – Usa in testa – che da 31 anni tramano la destabilizzazione dell’ establishment sciita perchè non garantisce loro il controllo dell’Iran, paese  strategico nella regione del Golfo Persico. La strumentalizzazione dall’interno  rimanda all’eterno scontro politico in seno al potere clericale sciita. Uno  scontro iniziato dopo la scomparsa dell’imam Khomeini. Una spietata lotta per  il potere che regolarmente torna a galla in occasione delle consultazioni  elettorali. Le cicliche crisi politiche sono sintomi di fragilità, non del  sistema in quanto teocrazia. È una fragilità interna al sistema dovuta alla  lotta tra fazioni opposte per guidare la teocrazia stessa. Nelle elezioni  presidenziali del 1997, Nategh Nouri – candidato sostenuto dalla guida suprema  Ali Khamenei – fu sconfitto da Mohammed Khatami. Khamenei accettò il voto  popolare a favore del suo «avversario»; ma lo scontro intra-clericale fu solo  rimandato. Sul versante esterno, gli Usa consideravano Khatami il politico  «liberale» che avrebbe portato l’Iran su una posizione vicina ai loro  interessi. Ma non fu così; quindi bisognava cambiare strategia: intensificare  le attività dell’intelligence per destabilizzare l’intero regime degli  ayatollah.
 Bisogna ricordare che sin dall’avvento della rivoluzione islamica nel 1979, l’ Iran è sempre stato nel mirino della Casa Bianca. Nel 1980 Washington appoggiò  Saddam Hussein nella sua guerra contro l’Iran (già sotto sanzioni economiche).  Una guerra durata otto anni e vinta politicamente dagli iraniani. Da allora l’ influenza dell’Iran nel Golfo Persico e nel Medio Oriente è cresciuta  notevolmente. Ciò ovviamente è diventato un problema serio per gli Usa, per  Israele e per i governi arabi a stramaggioranza sunnita (che temono l’egemonia  degli eterni nemici sciiti). Come controllare allora il regime di Teheran? La  soluzione militare non è praticabile. L’Iran non è né l’Iraq né l’Afghanistan.  Una guerra sarebbe fatale per gli americani e i loro alleati. Allora bisogna  ricorrere al vecchio trucco: divide et impera. Lo strumento è quello della  cosiddetta «rivoluzione colorata», già sperimentata con successo in altri  contesti. Esso consiste nell’innescare dall’interno un meccanismo di  destabilizzazione del governo «nemico» sostenendo economicamente,  logisticamente e mediaticamente l’opposizione «amica», con il pretesto di  avviare un processo di democratizzazione del paese. Ma lo scopo vero è che l’ opposizione, destinata, attraverso tale «rivoluzione», a prendere possesso del  potere in veste di governo democratico, serve come cavallo di Troia per  impossessarsi del paese. Oltre alla Cia, vi sono organismi che sotto copertura  intervengono in questo tipo di operazione. La National endowment for democracy,  ong finanziata dal governo americano, si presenta come un’organizzazione di  «promozione della democrazia». Il suo ruolo è stato determinante nella  «rivoluzione dei tulipani» del 2005 in Kirghizistan, in quella «delle rose» in  Georgia nel 2003 e così via. Con l’Iran, però, il trucco non ha funzionato.  Hillary Clinton ha dichiarato, l’estate scorsa, che «gli Usa hanno sostenuto l’ opposizione iraniana» durante le elezioni e «continueranno a farlo nel futuro  per rovesciare Ahmadinejad». Ci sono certamente milioni di iraniani che  reclamano uno stato democratico; dopo quelle elezioni di giugno, molti di loro  sono genuinamente scesi in piazza – con la fascia verde in testa – per  rivendicare il loro diritto alla libertà e alla giustizia economica e sociale.  Essi però di sicuro non fanno parte di quell’opposizione che gli Usa e altri  paesi occidentali sostengono, ovvero una piccola minoranza, espressione della  borghesia «liberale». Una minoranza attraverso la quale gli americani sperano  di riportare l’Iran nella loro orbita come ai tempi dello scià. Una prospettiva  disastrosa per il popolo iraniano nella sua maggioranza. E le drammatiche  esperienze dell’Iraq e dell’Afghanistan insegnano: attenzione alla democrazia  «made in Usa»!  

Mostafa El Ayoubi

(L'autore è Caporedattore della rivista Confronti www.confronti.net  )



Marted́ 15 Giugno,2010 Ore: 15:26
 
 
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