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www.ildialogo.org L’ESPORTAZIONE DEL LAVORO: CAUSA PRIMARIA DELLA CRISI,di Giovanni Dotti

Lettera
L’ESPORTAZIONE DEL LAVORO: CAUSA PRIMARIA DELLA CRISI

di Giovanni Dotti

Egregio Direttore,

è inutile che politici, economisti, giornalisti ed opinionisti nostrani girino attorno a questo problema su cui invece io insisto da tempo, e su cui ha posto recentemente l’accento anche il Presidente degli U.S.A. Obama dicendo che è inconcepibile che le aziende vadano a produrre all’estero quando manca il lavoro in patria.

Evidentemente tale odioso fenomeno, accettato finora come inevitabile conseguenza della globalizzazione e del neo-liberismo sfrenato e senza regole, colpisce ora pesantemente le economie di quegli stessi paesi capitalisti che la “deregulation” hanno promossa e sostenuta nell’interesse unicamente di quelle classi agiate che detengono i capitali e/o i mezzi di produzione.

Questo l’ha ben capito Obama, mi chiedo perché non lo vogliono capire anche i nostri governanti (italiani ed europei) e cercare di porvi rimedio con provvedimenti legislativi adeguati. Perché se l’espansione del libero mercato a tutto il mondo (globalizzazione) può essere sembrata vantaggiosa nel breve periodo per le economie capitalistiche, nel lungo periodo si è rivelata essere un boomerang per tutti i nostri Stati occidentali che oggi devono fare i conti con la disoccupazione crescente, il ristagno dell’economia e la conseguente recessione.

Il Governo Monti, così come gli altri governi dei paesi capitalisti devono convincersi che non è coi marchingegni escogitati finora che si può andare lontano, che l’emergenza occupazionale non può essere risolta solo estendendo il “terziario” (servizi e turismo) con le “liberalizzazioni”. Le quali sono pure utili e necessarie per modernizzare un paese come l’Italia sclerotizzato da consorterie e antichi privilegi che sarebbe più che giusto smantellare, ma che da sole non sono certo in grado di risolvere il problema dell’occupazione, della crescita e dello sviluppo economico del paese. Perché se pure concorrono ad aumentare le opportunità di accesso al lavoro di migliaia di cittadini (per questo ben vengano!) e quindi a favorire una migliore ridistribuzione interna del reddito e della ricchezza, non certo serviranno ad aumentarla se langue la produzione dei beni primari, cioè l’industria, l’artigianato e l’agricoltura. Ed il P.I.L. tanto caro agli economisti non si smuoverà di una virgola, anzi continuerà a calare (come del resto è già nelle previsioni!).

Se dunque le “liberalizzazioni” non devono essere ritenute misure “anticrisi”, ben altri provvedimenti andrebbero adottati per far fronte alla “crisi di sistema” che attanaglia le economie occidentali, prima fra tutte una “regolamentazione” del libero mercato e della finanza internazionale, in modo che essa torni ad essere subalterna agli Stati nazionali ed a soggiacere alle regole dettate dai loro Governi democraticamente eletti.

Ma per tornare al tema iniziale dell’esportazione del lavoro, cioè della “delocalizzazione” di molte imprese in paesi esteri ove il costo di produzione (soprattutto della mano d’opera) è minore, vorrei rilevare come di questo fenomeno si siano avvantaggiati in particolare quegli imprenditori che producono merci di bassa o media tecnologia (vedi abbigliamento) che non richiedono né innovazione (costi di ricerca zero) né tecnologie avanzate, e che si servono di macchinari piuttosto elementari (tanto che spesso li trasferiscono nel giro di una notte o durante il weekend), eccezion fatta ovviamente per certe produzioni più complesse di alcune “multinazionali”.

Per questi imprenditori che “delocalizzano” per aumentare i loro profitti (anche se talvolta per non soccombere) perché il Governo non studia un qualche provvedimento (aumento della tassazione? tasse d’importazione sui prodotti fabbricati all’estero? ecc.) che li allinei in qualche modo ai costi (assai più onerosi) sostenuti da quegli imprenditori che hanno mantenuto le loro produzioni in Italia?? Invece di sgravare (di poco) le imprese che operano sul territorio nazionale non sarebbe il caso di aumentare (di molto) la tassazione, diretta o indiretta, su quelle imprese italiane che hanno trasferito all’estero le loro produzioni?? In tal modo si potrebbero prendere due piccioni con una fava: 1- aumentare le entrate statali, e 2- cercare di invertire la rotta, favorendo il mantenimento o il ritorno in patria di molte imprese che ora operano all’estero perché più conveniente.

Questo nell’immediato, nella speranza che in un prossimo futuro si possa addivenire a delle regole comuni atte ad attenuare questo modello di Capitalismo internazionale disumano e perverso, vero mostro divorato dal “morbo dell’accumulo” di denaro fine a se stesso, che ha plagiato le masse riducendole a semplici mezzi di produzione e di consumo, senza alcun rispetto della persona umana.

Varese, 26 gennaio 2012

Giovanni Dotti



Giovedě 26 Gennaio,2012 Ore: 13:43
 
 
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