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www.ildialogo.org La guerra al velo aiuta l'Islam duro,di Ruba Salih

La guerra al velo aiuta l'Islam duro

di Ruba Salih

di Ruba Salih * | tutti gli articoli dell'autore

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Anche in Italia, dopo Olanda, Belgio e Francia, un disegno di legge che vieta di coprirsi il viso nei luoghi pubblici si appresta ad arrivare in parlamento, dopo che la commissione Affari costituzionali della Camera ha approvato qualche giorno fa il disegno di legge proposto dalla deputata del Pdl Souad Sbai.

Secondo Sbai, le donne che si coprono il viso sarebbero, «donne segregate, umiliate e oppresse che ogni giorno aiutiamo a risorgere dal proprio triste destino. Questa legge vuole anche rendere chiaro a tutti coloro che le vorrebbero segregate, che un burqa non è un diritto di libertà, ma solo e sempre un’aberrante imposizione».

Non occorre grande acume o conoscenze per demolire queste superficiali dichiarazioni a favore del divieto. Basterebbe leggere qualche studio, o più semplicemente, avere osservato le piazze e le strade di Sa’na, dove i visi coperti non hanno certo impedito alle donne di partecipare massicciamente alle grandi manifestazioni di piazza per la democratizzazione del loro paese.

Prima di analizzare l’incapacità di queste obsolete rappresentazioni di leggere le trasformazioni del presente, mi soffermerei sulle retoriche populiste del disegno di legge, retoriche che a mio parere non paiono affatto più legittime se proposte da una parlamentare di origine marocchina, una tra le tante imprenditrici politiche di cui pullulano i partiti delle destre, anche xenofobe, europee.

Queste ultime confondono volutamente il burqa, indumento diffuso tra l’etnia pashtun in Afghanistan e in altre regioni dell’Asia sud occidentale, che tradizionalmente smboleggia la rispettabilità e la modestia femminile - ma più recentemente associato nell’immaginario collettivo occidentale al repressivo regime talebano - con il diverso niqab, il velo facciale, che ha ben altre genealogie.

Ma stupisce anche l’incapacità di superare l’antica rappresentazione coloniale, che ha mostrato esiti fallimentari durante l’intervento occidentale in Afghanistan, secondo cui modernizzare significa per forza di cose “svelare” le donne. Si continua a proporre rappresentazioni dove il velarsi e lo svelarsi sono assunti come «barometri del cambiamento sociale nel mondo islamico», e la cui conseguenza è stata che l’Europa e l’Occidente sono divenuti modelli da emulare o da rifiutare a spese dei corpi e dei diritti delle donne. Questa logica, come è noto, ha finito spesso per offrire terreno alle forze più conservatrici delle società islamiche, che hanno trasformato il corpo delle donne velato in una bandiera di autenticità culturale contro la penetrazione economica e culturale occidentale.

Ma il punto principale su cui vorrei soffermarmi è che l’ostinazione delle destre, laiche e religiose, contro il velo facciale, il niqab, rappresenta oggi una grande contraddizione rispetto al principio della sacralità della libertà individuale, anche religiosa, che dovrebbe caratterizzare le culture liberali europee.

Il divieto del niqab parte dall’errata assunzione, smascherata da una pletora di studi socio-antropologici, secondo cui coprirsi il corpo, i capelli o il viso sarebbe simbolo di oppressione, specchio della incapacità di agire delle donne, e costituirebbe una limitazione della loro libertà individuale. Basta osservare le giovani donne per le strade di Londra, Roma, Istanbul, il Cairo o Sa’na per capire quanto sia arcaica questa associazione tra velo e oppressione comunitaria e religiosa e comprendere la molteplicipità di significati e pratiche che il velarsi assume oggi. L’uso del hijab, o del niqab, destabilizza e complica le idee che in Europa si hanno di emancipazione- oppressione, visibilità-invisibilità dei corpi femminili, laicità e religiosità, pubblico-privato, e soprattutto libertà di scelta e costrizione, autonomia personale e autorità religiosa. L’hijab, la pratica del coprirsi il capo, seppur estremamente eterogenea, serve in generale la funzione di disciplinare o modulare la soggettività della donna musulmana, senza impedirne la partecipazione alla sfera pubblica delle società contemporanee in cui vive. Ma si potrebbe dire che l’hijab è anche, e sempre più, espressione di una modernità halal, una moderna identità religiosa, dove si coniugano etica ed estetica, modernità e modestia, obbligo religioso e stile o addirittura fashion, separazione tra i generi e partecipazione.

Diversamente, il niqab nelle società europee è indossato da una esigua minoranza di donne, ed è, come dimostrano numerosi studi, frutto di una libera interpretazione su come aderire più fedelmente all’obbligo religioso di modestia e rispettabilità. Chi ha studiato i movimenti di proselitismo religioso o anche chi ha solo parlato con donne che indossano il niqab in Europa sa che esse rispondono contemporaneamente a un volere trascendente e a una scelta individuale che è indipendente dalle costrizioni e dalle tradizioni, anzi spesso si pone in contrasto con queste ultime. Queste donne rivendicano la propria volontà di scegliere come meglio assolvere all’obbligo religioso della modestia femminile e chiedono ai paesi europei, dove sono nate o emigrate, il diritto a esercitare non solo una scelta individuale, ma ciò che esse vedono come un obbligo.

La storia insegna che accanirsi nel divieto a simboli religiosi e culturali porta facilmente a stigmatizzare chi li indossa, a destabilizzarne e alterarne i significati, prestando il fianco a facili strumentalizzazioni, col rischio di contribuire a trasformare i corpi delle donne in bandiere, questa volta certamente inconsapevoli.
* antropologa

8 agosto 2011

Articolo tratto dal sito del quotidiano L'Unità



Venerd́ 19 Agosto,2011 Ore: 19:09
 
 
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