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La rivoluzione tunisina e la questione religiosa

giu 30th, 2011 | Dal sito: www.islam-online.it

L’ingresso nel XXI secolo ha rappresentato una trasformazione a livello mondiale che ha portato con sé cambiamenti profondi, previsti dai ricercatori. Lo scrittore francese André Malraux aveva predetto fin dal 1955 che questo sarebbe stato il secolo per eccellenza del ritorno alla religione, in un momento in cui il tasso di adesione alla Chiesa era in declino e il secolarismo era penetrato nella società europea, alla fine del secolo scorso. Questo ritorno trae la sua importanza dalla rivivificazione dei simboli religiosi e dal recupero dei valori spirituali, dopo che per lungo tempo avevano prevalso i valori del consumismo e della produzione, i quali avevano sprofondato l’umanità nel baratro di crisi ininterrotte a livello finanziario, morale e ambientale, al punto da minacciare la vita umana sotto il profilo psicologico e spirituale. Perciò la religione e i suoi valori sono divenuti l’ultimo rifugio a cui l’uomo poteva ricorrere per salvarsi, e i simboli spirituali sono divenuti oggetto di contesa fra l’io e l’altro, e oggetto di riconciliazione o di antagonismo sia nelle guerre e nei conflitti che nei seminari e nelle conferenze sul dialogo fra le civiltà.

Bourguiba e la questione religiosa

La rivoluzione tunisina del gennaio 2011 ha rappresentato il recupero dei valori spirituali e dei simboli culturali che si erano indeboliti all’ombra dei valori individualistici e degli Stati repressivi – intendiamo in particolare i valori di libertà, dignità, giustizia, uguaglianza, del rispetto dei diritti umani, della lotta alla corruzione finanziaria e morale, e alla tirannia politica e sociale. La questione religiosa in Tunisia ha rappresentato una questione centrale e urgente fin dalla fondazione dello Stato indipendente, quando Habib Bourguiba si affrettò a chiudere la moschea al-Zaytuna, a sospendere l’istituzione delle fondazioni pie (awqaf), ed a marginalizzare le istituzioni religiose a vantaggio di quelle civili. Queste ultime hanno legiferato in base a un diritto civile positivo che ha adottato alcune interpretazioni giuridiche nell’ambito dello statuto personale. Ciò ha portato alla criminalizzazione della poligamia, al riconoscimento del principio di adozione, e all’assoggettamento del divorzio alla decisione del tribunale. Poi il “presidente zelante” – come amava definirsi – invitò a rompere il digiuno durante il mese di Ramadan per aumentare la produzione e far crescere l’economia, aggravando in questo modo la frattura tra l’appartenenza arabo-islamica del paese e la sua realtà laica modernista. Ciò produsse un movimento islamico che invocava il rispetto dell’identità arabo-islamica e l’islamizzazione della società, dopo che quest’ultima era diventata una “comunità” isolata dal contesto della propria civiltà. Non stupisce che questo baratro si sia allargato ulteriormente con la promulgazione di leggi e di decreti che compromisero la riconciliazione con l’identità culturale, attraverso l’adozione dei calcoli astronomici al posto della vista umana per determinare l’inizio dei mesi lunari, l’emissione di un decreto che impediva di indossare il velo nelle amministrazioni e nei luoghi pubblici considerandolo un costume settario contrario al modo di vestire locale, ed infine l’approvazione di una legge sulle moschee che vietava di tenere lezioni e discorsi a coloro che non erano affiliati all’autorità religiosa e non erano fedeli al partito di governo. Il movimento islamico si oppose a questa intransigenza con scontri diretti che gettarono molti dei suoi militanti dietro le sbarre. Ciò rafforzò ulteriormente l’assedio contro la religiosità popolare, al punto da generare un senso di ingiustizia e di oppressione che non è stato cancellato dalle concessioni puramente esteriori fatte dalle autorità.

Ben Ali e l’eredità di Bourguiba

La situazione non migliorò nella “nuova era” iniziata nel 1987 con l’arrivo al potere di Ben Ali, quando le “soluzioni cosmetiche” adottate dalle autorità per riconciliarsi con l’identità culturale non furono sufficienti a convincere tutti del fatto che la religione avrebbe recuperato il suo ruolo culturale. Le espressioni pubbliche di questa riconciliazione andarono poco al di là di una forma priva di sostanza, come la trasmissione dell’appello alla preghiera sui mezzi di informazione , la decisione di affiancare la vista ai calcoli astronomici nella determinazione dell’inizio dei mesi lunari, il restauro di alcuni elementi del patrimonio culturale, e altre cose utili per la propaganda mediatica. Quando ebbe luogo lo scontro con il movimento islamico all’inizio degli anni ’90, a seguito della scoperta del peso reale dei sostenitori di tale movimento attraverso i risultati elettorali del 1989, tutte le espressioni della religiosità individuale e collettiva ne furono danneggiate, con l’emergere di manifestazioni inusitate di criminalità, di corruzione morale e di deviazione sociale che cominciarono a minacciare la sicurezza della società. Non è sorprendente che in questo clima venisse interrotto nel 2009 il pellegrinaggio in tutto il paese per timore del contagio dell’influenza suina – una cosa che fu considerata un’anomalia rispetto agli altri paesi del mondo islamico – e che si diffondessero strani gruppi non religiosi come quello degli adoratori del diavolo, o gruppi religiosi guidati da missionari cristiani. La cosa forse più sorprendente fu che una deputata del parlamento dichiarò che il rumore dell’appello alla preghiera arrecava fastidio, e chiese di diminuirne il volume per garantire il riposo dei cittadini. Il ministro degli affari religiosi si disse d’accordo sul fatto che l’appello alla preghiera annunciato con un volume alto andasse considerato come inquinamento acustico, suscitando reazioni furiose a livello popolare e da parte dei giovani di Facebook, i quali chiesero che il ministro si dimettesse e la deputata fosse chiamata a rendere conto delle sue affermazioni. L’accumularsi di questi episodi provocatori ha rafforzato in ciascuno il senso di oppressione indebolendo invece il senso di appartenenza, provocando una ferita profonda e difficile da guarire. La legge sul terrorismo del 10 dicembre 2003 è poi divenuta una spada di Damocle che incombe sulla testa di ciascuno, poiché tende a metterne a nudo la religiosità ed a cercare di cambiare la realtà non solo a livello delle azioni, ma a livello dei pensieri e delle intenzioni. La questione religiosa ha dunque rappresentato il cuore della crisi, e uno dei suoi aspetti più gravi – un aspetto che non ha però fatto passare in secondo piano la crisi economica e politica. L’insieme di questi aspetti ha messo a nudo la tirannia e la corruzione dello Stato.

Il movimento islamico e la rivoluzione tunisina

L’interrogativo scottante che ha accompagnato e seguito la rivoluzione, e che gli osservatori occidentali hanno insistentemente ripetuto, riguarda la posizione degli islamici rispetto a questi avvenimenti, i motivi dell’assenza di slogan islamici nella rivoluzione, e il peso del movimento islamico dopo il lungo periodo di emarginazione, di esclusione, di persecuzione e di arresti. Prima della rivoluzione non era facile rispondere, ma la rivelazione dei rapporti degli apparati di sicurezza, del numero delle direttive e delle azioni repressive dei servizi segreti volte a perseguitare gli islamici, hanno fornito un utile materiale statistico che riflette le dimensioni dell’assedio e della persecuzione, una persecuzione finalizzata a rivelare gli esponenti simbolo e gli individui appartenenti al movimento islamico, ed a facilitare la prevenzione di qualsiasi tentativo di protesta e di opposizione popolare da parte sua. Ci è stato fornito abbondante materiale sugli esponenti salafiti nella zona di sicurezza di Menzel Bourguiba, nel nord della Tunisia. Questo materiale ha rivelato la schedatura, da parte dell’intelligence, di 107 individui, la classificazione professionale di 184 esponenti in gran parte appartenenti ai giovani disoccupati, ricercati e sospettati, e di 144 detenuti appartenenti al movimento “Nahda”, in gran parte uomini di mezza età. Gli esponenti anziani della sinistra non superano invece le 45 persone, in gran parte provenienti dal settore dell’istruzione. Questo campione dimostrativo ci fornisce uno spaccato delle operazioni compiute dai servizi di intelligence dello Stato, che hanno infiltrato informatori nelle moschee e nei luoghi pubblici, a centinaia, per controllare gli oppositori, impedire loro di comunicare e di organizzare le loro file. Nessun settore era esente dall’azione polarizzatrice degli informatori e dal loro reclutamento – dalle moschee ai sindacati, dai partiti alle associazioni ed alle organizzazioni della società civile. Ma ciò non ha impedito agli islamici di impegnarsi nel movimento rivoluzionario, sia a livello della leadership che dei semplici cittadini. Molte delle famiglie di coloro che sono caduti a Sidi Bouzid e nelle altre province sono famiglie devote, e molti di coloro che hanno preso parte alla rivoluzione sono giovani devoti che hanno contribuito alle richieste collettive, le quali vanno al di là di qualsiasi appartenenza ideologica o di partito. La questione religiosa non è stata soltanto antecedente alla rivoluzione; è stata uno dei primi focolai di contrasto che l’ha accompagnata, quando è stato sollevato l’interrogativo circa il giudizio islamico sull’auto-immolazione (tra suicidio e martirio). Poi, durante la rivoluzione, una campagna mediatica ha preso di mira il movimento islamico rievocando le questioni di sicurezza del passato e le accuse prefabbricate del regime, il quale ha condannato gli islamici per le violenze verificatesi, e questo solo perché i giovani islamici si erano organizzati per proteggere le città e i quartieri assieme agli altri cittadini, mostrando le loro capacità organizzative e un coraggio che le giovani generazioni non conoscevano. Da qui è nato lo spauracchio del terrorismo, l’intimidazione riguardo all’Islam e gli islamici, e si sono levate le voci dei laici che si opponevano al ritorno in Tunisia dei leader islamici in esilio e che chiedevano di modificare il primo articolo della Costituzione che afferma che la Tunisia è uno Stato indipendente la cui lingua è l’arabo e la cui religione è l’Islam. L’ondata di islamofobia è cresciuta ulteriormente con il lancio di accuse gratuite, che hanno mostrato all’opinione pubblica le loro palesi distorsioni, quando in questo clima teso è avvenuto l’assassinio di un prete polacco in uno dei sobborghi della capitale. In quest’occasione si sono levate le invettive contro gli islamici, accusati di voler scatenare una guerra religiosa contro i non musulmani. Ma ben presto dalle indagini è emerso che si trattava di un episodio criminale che non aveva niente a che fare con la religione e con la politica. Accuse sono state rivolte anche contro i giovani salafiti, ritenuti responsabili di voler creare un emirato islamico al confine con la Libia in cui sarebbe stata proibita l’arte e sarebbe stato imposto il niqab (il velo che copre il volto (N.d.T.) ) alle donne. La politica dell’intimidazione attraverso l’agitazione dello spauracchio del “progetto islamico”, l’invocazione di uno Stato laico, le dichiarazioni di ateismo, e la dichiarata ostilità ai principi dell’Islam e della sharia, rappresentano una mobilitazione quotidiana dopo la rivoluzione, che incarna la polarizzazione politica e la contesa ideologica tra due scelte contrapposte. Gli aspetti della disputa tra le due parti appaiono evidenti: la polarizzazione laica continua a oscillare tra l’infondere timori riguardo alle conquiste della donna e l’infondere timori riguardo alle conquiste moderniste della società laica in generale, che possono essere riassunte nella legge sullo statuto personale e nelle altre legislazioni civili dello Stato; mentre invece il discorso islamico si riduce alla difesa del principio dell’identità arabo-islamica e delle libertà pubbliche, nel contesto di uno Stato civile che non rinuncia alla modernità e non sacrifica i principi. E’ necessario perciò avviare questa disputa tra le due parti verso il superamento di una giurisprudenza dei testi, dai quali entrambe traggono origine, in direzione di una giurisprudenza della rivoluzione, che è tuttora un progetto i cui termini ed i cui concetti non si sono affermati, ma che è una giurisprudenza che trae la propria legittimazione da una visione lungimirante e consensuale che anticipa gli eventi prima che accadano. E’ necessario perciò che essa si basi sul principio del pensiero strategico, sul principio del pensiero consensuale, storico, centrista e interpretativo, in modo tale da spingere all’unificazione, e non alla divisione e alla frammentazione.

Riconciliare la società con la religione

La giurisprudenza della rivoluzione è una giurisprudenza civile che trae ispirazione dalla matrice dei comuni valori umani. Essa mira a dare alla rivoluzione, intesa come un evento che non ha modelli di metodo, un orientamento innovativo. Questa rivoluzione non è un successo di partito, né un successo dovuto a una determinata leadership ideologica. Dunque le passioni e gli interessi ristretti non possono frammentarla, nella misura in cui riconosciamo che il suo interesse sta nell’accordo e nell’unità attorno a un comun denominatore valoriale ed umano. La rivoluzione non è dunque un evento virtuale, ma una realtà che è giunta a cambiare il presente di frammentazione popolare e ad unificare i ranghi, accelerando la costruzione di un nuovo Stato in grado di accogliere tutti, senza includere le ragioni di contrasto e di conflitto se non nella misura in cui ciò viene richiesto da una competizione leale attraverso le elezioni, nelle quali si confrontano i programmi, e non le persone o le intenzioni. Le scommesse che oggi si pongono di fronte al movimento islamico sono senza dubbio scommesse di programma e di visione. L’esperimento è cominciato sotto il profilo dell’informazione, con la pubblicazione di siti web, di pagine su Facebook, e di settimanali. Ciò è necessario per calibrare i programmi e le opere teoriche che chiariscono la visione economica, politica e sociale alla luce dei cambiamenti culturali e dei riferimenti islamici. Non c’è dubbio che l’esperienza della finanza islamica, della solidarietà sociale e dell’assistenza umanitaria, delle alleanze politiche e dei raggruppamenti fra partiti, sia importante nell’apprestare una strategia che esponga l’orizzonte del rapporto con l’altro nella cornice dello Stato promesso, lontano da timori di esclusione, privazione, e limitazione delle libertà pubbliche e private. La questione religiosa oggi è candidata a definire una “specificità tunisina”, che si sviluppa con il pensiero islamico e con il modello dello Stato civile proposto dagli islamici – uno sviluppo che supera gli stereotipi tradizionali in direzione di nuovi modelli consensuali in cui venga confermata la validità dell’Islam nello spazio e nel tempo, così come l’allargamento dell’orizzonte islamico in modo da accogliere tutti attraverso il rispetto dei comuni valori umani al di là delle differenze religiose e ideologiche. L’opportunità di una riconciliazione della società con la religione, e la possibilità di definire un’esperienza sociale condivisa con tutti, non è un sogno lontano nella misura in cui essa è alla portata delle elezioni che esprimeranno il migliore sulla base della credibilità dei programmi e delle alternative, e non sulla base di slogan e sogni immaginari, i quali non rispondono più ai bisogni dei popoli che si sono sollevati per riappropriarsi del proprio diritto di scegliere e di autodeterminarsi. Jamel Bouajaja è un ricercatore universitario tunisino

by Jamel Bouajaja
Published in Il ruolo dell’Islam politico nella Primavera Araba,Italiano,  on 29/06/2011
Website: al-Jazeera

(Traduzione di Roberto Iannuzzi)



Sabato 02 Luglio,2011 Ore: 21:08
 
 
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