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www.ildialogo.org Lettera aperta in risposta a Ileana Montini,di Patrizia Khadija Dal Monte

Conoscere l'islam
Lettera aperta in risposta a Ileana Montini

di Patrizia Khadija Dal Monte

lug 2nd, 2010 | Di Patrizia Khadija Dal Monte | Categoria: Islam
Cara Ileana Montini, l’articolo che ha scritto ha suscitato la mia reazione in quanto ho immaginato la situazione: le ragazze musulmane che con entusiamo e innocenza cercavano di spiegare le loro ragioni e lei già armata di tutto il suo bagaglio di pregiudizi ad interpretare le loro parole. C’è sicuramente un lavoro e una fatica da compiere per le nuove generazioni nel porre la religione ereditata dai genitori a confronto con la modernità, e c’è incertezza, proprio perché c’è sincerità e voglia di trovare il loro modo di essere musulmane. Ma per poter capirle c’è una premessa indispensabile: il fenomeno religioso non si lascia riassumere in categorie psicologiche o sociologiche, ha una sua specificità, la religione si evolve certo dentro forme storiche e culturali, queste la influenzano, ma non la determinano completamente. Certamente i lavori di tipo psicologico o sociologico possono avere la loro utilità, ma l’ultima parola sul significato del velo e sugli altri elementi della religione stessa spetta ai credenti, alla umma musulmana.Vede si può essere dogmatici anche essendo laici, anzi forse questa è la forma più diffusa di dogmatismo ai nostri giorni (almeno nel mondo occidentale), quella che conduce a cogliere la realtà in modo binario: o si segue la pista occidentale, e per quanto riguarda la religione la storicizzazione totale dei testi, o si è integralisti. Rivolta a me questa accusa mi fa un po’ sorridere, perché sono una persona che ogni giorno della sua vita non hai cessato di interrogarsi, anche sulla religione, e il contesto riceve in me tutto il suo spessore.
C’è una terza via che passa tra gli atteggiamenti estremi menzionati, è quella che affiora nel cosidetto riformismo islamico, e per quanto riguarda le problematiche femminili nel femminismo islamico (quello più proprio, veda ad esempio Asma Lamrabet), i quali continuano a ritenere fondanti le Fonti e proprio attraverso ciò che viene detto in esse propongono una lettura che risponde alla coscienza attuale. Ci sono spazi interpretativi offerti dai versetti e dagli hadith stessi, non è necessario bypassarli. Ad esempio è possibile rintracciare un’uguaglianza mondana di uomini e donne ad esempio in quello che recita: “« I credenti e le credenti sono alleati gli uni degli altri ( Ba’duhum awliyâ’u ba’d) . Ordinano le buone consuetudini e proibiscono ciò che è riprovevole… » Certo è un lavoro più complesso.
Le riporto una citazione di Tariq Ramadan, autore nel quale mi riconosco: “Questa riflessione non è nuova e la ritroviamo in tutti i dibattiti che contrappongono gli ‘ulamâ’ del rinnovamento (al-mujaddidûn), fin dal XIV secolo, a quelli che venivano definiti gli imitatori (al-muqallidûn). Le critiche erano chiare: i primi rimproveravano ai secondi di ripetere semplicemente quello che alcuni sapienti avevano detto ed elaborato per la loro epoca, di limitarsi a una lettura letterale dei Testi o di impegnarsi in una sorta di sacralizzazione delle produzioni precedenti. Secondo i mujaddidûn, nell’ambito delle questioni sociali era necessario fare un continuo sforzo di rilettura, di contestualizzazione e di applicazione adeguata delle prescrizioni alla luce del senso globale dei Testi, della natura dell’ambiente e dell’epoca. È così che intendevano l’ijtihâd. Il dibattito è ancora attuale ed è una discussione sulla religione e sulla natura della relazione dei Testi prima ancora di valutare il rapporto con la cultura circostante. È necessario prendere molto sul serio questa dimensione e non minimizzare i dibattiti moderni sugli orientamenti d’interpretazione dei Testi. Abbiamo ripetuto molte volte che la discussione sullo status del Corano – che può piacere ad alcuni circoli accademici ed interreligiosi in Occidente – non avrà un grande effetto sul mondo islamico e sui musulmani: il riconoscimento del Corano come «parola rivelata da Dio», infatti, è uno dei pilastri della fede (rukn min arkân al-imân). Saranno invece determinanti la natura delle letture proposte, la legittimità religiosa degli interpreti e gli orizzonti aperti da queste interpretazioni (con i ragionamenti critici e autonomi – ijtihâd – che le accompagnano). Prodotte dall’interno, difese e argomentate alla luce e nel rispetto dei Testi, saranno le sole a poter competere con l’«immediata» accettazione delle letture letterali che si impongono attraverso la legittimità religiosa degli ‘ulamâ’ che le promuovono e la semplice chiarezza delle interpretazioni e dei pareri che essi formulano. È necessario concentrarsi sulla cronologia e sull’evoluzione delle rivelazioni, sui diversi testi che riguardano un tema particolare, sulla gerarchia delle fonti, sulla considerazione dell’autenticità, sull’atteggiamento del Profeta in alcune situazioni (dato che è considerato un modello da tutti i musulmani), ecc. I sapienti dei Testi, uomini e donne, devono apportare i loro contributi specifici.” (T. Ramadan, La riforma radicale)
La religione islamica è certo simile per tanti versi a quella cristiana, ma presenta anche delle diversità sul piano dogmatico e culturale, come ha ben detto quella cristiana si sviluppa all’interno del pensiero greco e del conseguente dualismo anima e corpo, quella musulmana non conosce tale scissione, e in tutte le sue manifestazioni si può riconoscere tale unità. Unità di anima e corpo, ma anche di ragione e fede. Il coprirsi per favorire la castità non è affidato solo alle donne, ci sono norme di abbigliamento anche per gli uomini, e poi l’abbigliamento non rappresenta che un momento di questa ricerca di purezza. Se uno guarda alla sura “La luce” (XXIV) dove c’è uno dei versetti più conosciuti per quanto riguarda il velo, si può notare come il versetto inizi raccomandando agli uomini di abbassare agli occhi e prosegua con la stessa raccomandazione anche alle donne, poi fa cenno al vestire per esse… A me sembra che in ciò ci sia un riconoscimento delle dinamiche naturali dell’esser uomo e donna, l’uomo guarda e la donna oltre a guardare si offre allo sguardo maschile e ne può fare, se vuole, un mezzo di potere. Ciò è evidente in questa società, basta considerare l’uso e l’abuso che si fa del corpo femminile, esso è diventato un mezzo per far carriera e soldi. Così vestirsi ha spesso un significato diverso per uomini e donne. Sono d’accordo con lei che oggi si esageri nell’importanza data al velarsi, sembra che tutto l’essere musulmane si riassuma in ciò, credo che in gran parte sia una reazione ai continui e politicizzati attacchi a cui è sottoposto il velo. In fondo è lo stesso tipo di discorso che ritroviamo dalle due parti. Da un lato colui che vuole liberare le donne da quell’ islam che le opprime, che le  copre un po’ troppo, finendo egli stesso per rimanere ossessionato dal corpo della donna che vuole, in questo caso, assolutamente  scoprire . Dall’altro lato troviamo colui che focalizza l’essenziale del messaggio spirituale dell’islam intorno al corpo della donna che si dovrebbe invece  super coprire,  perché esso rappresenterebbe già da solo la visibilità dell’islam in quanto identità da preservare e il velo inoltre, sempre già da solo, riassumerebbe tutta la morale dell’islam… Nei due casi, con lievi differenze in fondo, siamo davanti ad una ideologia sessista che non tiene conto dell’intelligenza della donna, che elude il discorso della sua dignità di essere umano e della sua capacità personale di scegliere in nome delle proprie convinzioni.” (Asma Lamrabet)
Sono contenta che lei riconosca dei diritti ai musulmani, alcune cose che ha menzionate, sono secondo me superabili, per la piscina è invece logico che una persona velata non possa andare in costume in un ambiente misto e non vi vedo nulla di così catastrofico nel riconoscere tale possibilità. Ci vuole un po’ di elasticità da entrambe le parti. Nella tradizione musulmana la separazione tra uomini e donne ha una funzione prudenziale, ma certo nella società attuale si deve rafforzare il senso di responsabilità individuale e non richiedere separazioni là dove non è il caso. Del resto mi risulta che la stragrande magggioranza delle ragazze e dei ragazzi frequenti scuole con classi miste senza porsi questi problemi. Il cognome del marito, in generale, non si assume nella tradizione islamica perché prevale la linea di sangue, e concordo che sia necessario un recupero della realtà dell’uguaglianza nella coppia (ci sono versetti che danno all’uomo una funzione di preminenza, ma altri parlano di consultazione) è certamente da superare una concezione dell’autorità in senso totalitario, d’accordo nel condannare i delitti d’onore che hanno una matrice culturale.
Il discorso cara Ileana è più complesso di quello che scaturisce da analisi sociologiche e psicologiche, va inquadrato in una Weltanshaung e va riconosciuta la possibilità di un metodo di confronto diverso tra religione e cultura, come ha detto Fatima Mernissi: “Il modello emancipatorio delle donne musulmane può non essere quello universalista della ideologia femminista occidentale. La rottura dell’ordine tradizionale, familiare e sociale, e del modello di relazioni di genere può determinarsi secondo percorsi di reinterpretazione e trasformazione dei valori delle società di origine, con traiettorie individuali e di gruppo diverse da quelle proposte dal modello occidentale…Sintetizza Fatima Mernissi che il binomio tradizione/modernità non deve essere utilizzato in maniera dicotomica, ma dialettica. Per realizzare la modernità, come sostiene la scrittrice, le donne possono usare elementi della tradizione, combinare valori e pratiche culturali, aprire piste emancipatorie del tutto inedite. Quello che è certo, è in ogni caso il fatto che il processo emancipatorio non avverrà solo ad opera dei modelli di vita offerti dalle società occidentali. Saranno comunque la socialità delle donne islamiche, le loro vaste reti di solidarietà, il loro protagonismo anche nella catena migratoria, a mettere in moto percorsi di mobilità sociale di cui è difficile oggi prevedere linearità e risultati.” (Carla Barbarella coordinatrice di Alisei).
Patrizia Khadija Dal Monte
2/07/2010
Lettera aperta a una giornalista di Islam-online
Le religioni si formano nel complicato intreccio delle storie locali 
di Ileana Montini 
Cara sig.Patrizia Khadija Dal Monte, le devo una risposta per la sua attenzione nei miei riguardi su “Islam-online” (Io sono l’Occidente). Lei si riferisce a un mio articolo apparso su “Il paese delle donne online” (Un pomeriggio in un centro culturale islamico).
 Lei , mi è parso leggendola, si è molto risentita tanto da concludere con un polemico: “ si riposi è stato un pomeriggio faticoso…”. Si vede che ha letto, dei numerosi articoli che ho scritto sull’argomento, soltanto questo che si riferisce a un’intervista a un gruppo di giovani donne. Lei è una nota leader italiana “ritornata” all’Islam che tanto scrive e spesso appare anche nelle Tv locali o nazionali. Ma proprio perché italiana di origine dovrebbe o potrebbe leggere secondo codici culturali e scientifici trasversali. Mi accusa di “grandi pregiudizi e sovrapposizione di categorie culturali “ perché interpreto la religione del Profeta secondo criteri sociologici. Lo stesso” trattamento” lo riservo più spesso alla Chiesa Cattolica. Ovviamente anche l’integralismo cattolico reagisce nello stesso modo. 
Sono una sociologa , ma anche una psicologa: mi è pertanto ben presente ciò che il velo “rappresenta per chi lo indossa”. Lei scrive: “Ancora il velo ad essere chiamato in causa ( e la foto per niente veritiera, ritrae donne con niqab ottimo e abbondante) e ancora una volta non ci riferisce a ciò che rappresenta per chi lo indossa, ma ad una propria concezione che ormai puzza di stantio, ma così difficile da abbandonare: il velo come segno di diseguaglianza e di sopraffazione, il velo come negazione della femminilità e della propria corporeità. Il velo come macigno che schiaccia la donna insomma.”.
 Le vorrei ricordare che non molti anni fa Leila Djitli , giornalista di origine algerina che vive a Parigi, pubblicò un libretto intitolato Lettera a mia figlia che vuole portare il velo (ed. Piemme, 2005). Scriveva “una lettera” alla figlia che le aveva detto, un giorno, all’improvviso che voleva portare il velo con queste parole: “ ‘E’ importante , mamma, è la mia religione. Sono musulmana e sono fiera di esserlo. E’ la mia identità, non posso più nasconderlo’.”. Leila vive proprio male la decisione della figlia e le dice :” Vuoi portare il velo. Il velo fa certamente parte della nostra storia. Io l’ho ereditato, nel modo che ti ho appena detto. Il mio, quello che a tua volta erediterai –devo trovarla quella scatola- è solo una parte, perché tu erediterai solo una parte di storia. A te spetta, partendo da quell’ultimo tratto, costruire la tua strada. E non ripercorrere quella già tracciata che, contrariamente a quello che credi, forse non ti appartiene. Tutto ciò mi fa pensare alla storia della messa in latino. Qualche anno fa, all’interno della Chiesa cattolica francese, la questione si è ripresentata. Quando il presente è difficile e il futuro fa paura, ci si aggrappa al passato. Ci si convince che è sicuro, solido. (….) Per me, il velo significa soltanto passato e reclusione. Un passato fatto di sofferenza o, peggio, di ipocrisia.”.
 Ho l’età per raccontarle che queste ultime parole un po’ mi appartengono, perché il velo in chiesa l’ho portato anch’io. Come , ancora bambina e adolescente dell’Azione Cattolica ho diligentemente sempre evitato d’estate gli abiti senza maniche, perché le femmine non dovevano esporre i peli delle ascelle dimostrandosi così poco pudiche. Tutto ciò ci veniva proposto e imposto in nome di una lettura a-storica del Nuovo Testamento. Ma poi arrivò il Concilio Vaticano II mentre il movimento femminista si andava affermando tra le donne. E noi donne fummo protagoniste, nelle “comunità di base”, della ricerca teologica che proponeva una esegesi della sacra scrittura, Vecchio e Nuovo Testamento, non più in modo letterale, bensì in modo storico. E un superamento, per esempio, della interpretazione patristica della donna così tributaria della società giudaica e della società classica. Anche se, bisogna dirlo, la svalutazione del corpo, della fisicità e della sessualità che ha in Paolo uno dei responsabili , è figlia di un giudaismo minoritario. Ma la Chiesa ha fortemente risentito del dualismo platonico. Le religioni si formano così, nel complicato intreccio delle storie locali. Ben lo sanno le femministe musulmane che nei Paesi dove vige la Sharia propongono la storicizzazione del bagaglio culturale islamico dal Corano ai detti. Ma nell’emigrazione si ha invece, per tante ragioni, una deriva fondamentalista. “il velo – scrive ancora la giornalista algerina- anche se tu dici di no, parla per te. Tutti lo fanno parlare al posto tuo. E’ una realtà. Non c’è bisogno di fare del proselitismo. È sufficiente il velo! E questo mi dà sui nervi, ma soprattutto mi preoccupa. Che tu voglia portare il velo per esternare la tua rivolta, per il bisogno di affermare la tua identità, per mostrare la tua appartenenza religiosa, posso capirlo. Ma se il velo è uno strumento di oppressione, un emblema politico, mi oppongo.”.
Per chiarire ulteriormente il mio pensiero, ricorrerò di nuovo a un sociologo studioso dei processi religiosi e in particolare dell’Islam come è Renzo Guolo: “L’Islam è anche una cultura della socializzazione al controllo del corpo femminile, che permea il sociale del proibito, del tabù dell’impurità. Sebbene dal punto di vista religioso le donne siano ‘uguali agli uomini davanti a Dio’, esse non sono uguali all’uomo nell’ordine mondano. Le regole religiose codificano le relazioni tra genere maschile e femminile e quelle con le altre culture. Attraverso il controllo del corpo femminile si esprime il controllo della morale collettiva. La separazione tra sessi è considerata un fattore di regolazione sociale che garantisce la purezza dell’ordine comunitario me e la sua coesione.” .(Xenofobi e Xenofili, gli italiani e l’islam,Ed.Laterza,2003). .
Cara Sig.Patrizia , sono però disposta a scendere in piazza per difendere il vostro diritto a portare il velo, a ottenere ovunque, nei cimiteri , uno spazio riservato ai fedeli musulmani e a erigere moschee. Resto invece perplessa di fronte a richieste di spazi riservati alle donne, di orari della piscina ecc.., di esoneri per le ragazze alla ginnastica mista ,ecc.
Abbiamo faticato, tanto, davvero tanto, a superare le classi nelle scuole divise per sesso e ,per le credenti, ai banchi in chiesa separati in un’ala maschile e in una femminile. Abbiamo faticato tanto a ottenere un diritto di famiglia che non ci obbligasse ad assumere il cognome del marito, a seguirlo “ovunque egli ritenesse opportuno fissare la sua residenza”, a togliere l’attenuante per i delitti d’onore e il ruolo di “capo famiglia” per il congiunto, che, francamente, non sono disposta a “rispettare” su questi aspetti la “libertà religiosa” di qualunquereligione.
Ileana Montini


Marted́ 13 Luglio,2010 Ore: 15:16
 
 
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