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www.ildialogo.org Anna Maria Musilli, Mamme italiane e bambini cinesi, CISU, Roma 2010.,di Rita Melillo

Recensione
Anna Maria Musilli, Mamme italiane e bambini cinesi, CISU, Roma 2010.

di Rita Melillo

Silenziosamente i Cinesi si appropriano di spazi sempre più ampi del nostro territorio, sparsi qua e là, dal nord al sud del Paese. Con la perseveranza e l’operosità che li caratterizza si sono, ormai da diversi anni, insediati nell’hinterland napoletano, in particolare a San Giuseppe Vesuviano, ma ormai si trovano anche a Ottaviano, a Poggiomarino, a Terzigno, perché qui vivono le mamme italiane accudienti. Una volta il comune di San Giuseppe Vesuviano era fiorente in quanto il territorio era disseminato di fabbriche tessili. «C’erano prima a San Giuseppe circa seicento negozi di grossisti soltanto, ora sono scomparsi quasi tutti […]. Veniva portata la stoffa in fabbrica, la tagliavano e la cucivano e parte di questa stoffa tagliata veniva data anche alle famiglie, che lavoravano in casa e guadagnavano parecchio. Ora tutto questo lavoro qua viene fatto dai cinesi. […]. Tutti qua lavoravano. A San Giuseppe c’era molta ricchezza, cosa che ora non c’è»(dall’intervista a A. C., pp. 27-28).
Appena i Cinesi sono arrivati qui tutto è cambiato! Naturalmente, hanno cominciato a lavorare come operai in queste fabbriche e, con i loro ineguagliabili ritmi di produzione, hanno poco per volta tolto il lavoro alle donne del luogo, che prima sostenevano questa attività produttiva. Di conseguenza, tutta la zona, che una volta era fiorente (addirittura con un altissimo tenore di vita tant’è che le prime Ferrari in Campania si trovavano lì), ha subìto in pochi anni un cambiamento radicale nell’economia e nei costumi. «A San Giuseppe i cinesi non rivendicano spazi propri, né in questa zona hanno creato una sorta di Chinatown, ossia una realtà ben differenziata da quella preesistente, uno spazio in cui mostrare la propria etnicità, modificando l’architettura della zona, ma sono stati capaci di penetrare in maniera silenziosa all’interno dell’economia sangiuseppese»(p. 25). Infatti, è successo che i Cinesi si sono impossessati delle fabbriche con il loro costo del lavoro molto basso e competitivo e hanno mandato a casa, praticamente, sia i proprietari che gli operai italiani.
Il profondo cambiamento è stato il seguente. Le donne campane senza lavoro si sono improvvisate accudienti dei bambini cinesi! I Cinesi, infatti, sostenendo turni continui di lavoro non possono curare i piccoli, che vengono affidati alle “mamme” napoletane: proprio così, queste donne si comportano come vere e proprie mamme: «Le mamme affidatarie solitamente adottano con i bambini cinesi le stesse modalità educazionali che hanno sperimentato nell’accudimento dei propri figli naturali. […]. Le donne italiane e quelle straniere insieme sono state in grado di costruire una inconsueta struttura familiare con ruoli non sovrapponibili che garantiscono una situazione di equilibrio nell’allevamento dei piccoli: l’atteggiamento della madre italiana che incute rispetto e timore è controbilanciato da quello della madre cinese che è affettuosa e dispensatrice di doni»(p. 48). Le mamme italiane si prendono persino a loro carico, cioè usano il loro sistema sanitario, la cura dei piccoli cinesi quando sono malati: «Le madri pro tempore si assumono anche il compito di gestire la salute dei bambini cinesi, affrontando diverse difficoltà, sia perché questi bambini non hanno una tessera sanitaria e quindi ogni prestazione medica dovrebbe essere a pagamento, sia perché non sempre i genitori naturali condividono le terapie mediche degli occidentali» (p. 76). Si comportano esattamente come hanno sempre fatto con i propri figli. E come tutti i figli, i cinesini imparano da quelle mamme la loro lingua, il napoletano, con la cultura locale: ne nasce un vissuto particolarmente interessante dal punto di vista dei rapporti interculturali.
Tale situazione è messa molto bene in rilievo dall’Autrice, che porta avanti un lungo lavoro di ricerca sul campo condotta in alcune scuole elementari dei paesi interessati dal fenomeno. Ella prende in esame il rapporto che si viene a creare tra i bambini cinesi e le mamme italiane, nonché tra i genitori adottivi e quelli cinesi, tra insegnanti e bambini: insomma è davvero una “finestra” aperta su una situazione effervescente non solo, ma anche in continua trasformazione. C’è uno scambio molto intenso, perché i
bambini cinesi sono doppiamente interessati dal contagio culturale: infatti, fino ai due anni, vengono affidati alle mamme italiane, poi vengono portati in Cina dai nonni per apprendere la loro cultura di provenienza; poi di nuovo nelle famiglie italiane appena tornano dal loro Paese. «I genitori cinesi, quando si rendono conto che i propri figli si stanno affezionando ai genitori italiani più di quanto essi ritengono necessario, li allontanano dalle famiglie accudienti: la cesura tra adulti italiani e bambini cinesi è netta, nel senso che i piccoli da un giorno all’altro, e solitamente senza preavviso, sono prelevati dalle famiglie italiane, perché per i cinesi questo sistema è il più rapido per riappropriarsi dei loro figli. Gli italiani non afferrano la logica sottesa a questa scelta […] le spiegazioni *addotte dagli Italiani+ non risultano assolutamente esaustive, in quanto non forniscono elementi validi per comprendere le ragioni profonde che rendono possibile l’attuazione di questo percorso, che si snoda attraverso più fasi. La prima è propedeutica alla separazione e si attua mediante l’acquisizione dei primi rudimenti della lingua cinese, appresi in Italia; la seconda consiste nella separazione dalla famiglia italiana e nel viaggio in Cina; la terza è data dal soggiorno che rende possibile l’immersione in una cultura “altra”; la quarta prevede il rientro in Italia. Questa sorta di rito di passaggio produce nei bambini una corazza che li rende invulnerabili a tal punto da esser in grado di gestire sin da piccoli l’accettazione di quattro genitori (due italiani e due cinesi) e di due case» (p. 77). Quella che nella citazione viene definita cultura “altra” normalmente sarebbe la “loro” cultura, quella che dovrebbe assicurare la loro identità nel panorama etnico mondiale: i bambini cinesi che vivono questa esperienza del tutto speciale subiscono un doppio processo di inculturazione, che l’A. mette in luce molto chiaramente attraverso lo strumento dell’intervista, come abbiamo visto.
E voglio riportare ancora un brano da un’altra intervista (n. 5) per rendere ragione della complessità di rapporti che si sono venuti a determinare nel vissuto di questi Cinesi a San Giuseppe Vesuviano: «R. Sì, quando parla con noi parla in italiano, quando parla con la mamma di là parla in cinese. Una cosa che mi sorprese molto è che quando io domandai al papà dopo sei-sette mesi che lei stava in Cina e lui è venuto da Roma a Poggiomarino e io gli ho chiesto: “Come sta F.?”. Lui mi ha risposto: “Adesso è cinese. Adesso capisco pure quando parla”. […]. Non riesco a capire. Quando stai qua perdi la tua cultura. Loro invece sono un gruppo chiuso» (p. 109). Come si può notare agevolmente, c’è un intreccio di esperienze forse unico nel suo genere e proprio in questo, a mio parere, è il pregio del libro, perché l’A. con la sua perseveranza è riuscita in un’operazione se non impossibile per lo meno molto ardua, cioè quella di render conto di come questo popolo conquista i territori non solo con le strategie di mercato, ma anche con il doppio canale aperto tra il Paese ospite e quello di provenienza.
Da alcuni anni l’attenzione di tutti gli operatori di economia è focalizzata sull’ascesa dei Cinesi sulla scena del mercato mondiale. Non è l’unico prodigio verificatosi, perché essi condividono quest’esperienza con l’India e numerose sono le pubblicazioni che ne danno informazione e spiegazione. Il libro qui preso in esame, però, è del tutto speciale, non solo perché scritto da una studiosa seriamente impegnata nella ricerca antropologica, ma anche perché con gli strumenti tipici dell’indagine sul campo ella ha sapientemente fatto emergere, con empatia e dolcezza, la straordinaria ricchezza che il contatto con culture “altre” rispetto alla propria può offrire alle nuove generazioni. È straordinario, ma ogni volta che culture diverse si intrecciano tra di loro si verifica qualcosa di prodigioso: la creatività aumenta, c’è più apertura e più tolleranza verso l’altro.
Rita Melillo



Giovedì 31 Marzo,2011 Ore: 11:29
 
 
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