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www.ildialogo.org Perché Il VERBO si fece carne ?,di Perin Nadir Giuseppe

Giubileo (4a e ultima parte)
Perché Il VERBO si fece carne ?

di Perin Nadir Giuseppe

La missione della Chiesa. La redenzione dal peccato. Il Purgatorio


Perché Il VERBO si fece carne ?
La convinzione di Gesù era che la sua missione fosse quella di annunziare l’arrivo del regno di Dio.
E lo afferma in diversi momenti (Mc 1,14-15; Lc 4,43;Mt 4,23-25…).
Ma, Gesù, come annunciava la venuta del regno di Dio ?
Nella sinagoga di Nazareth, Gesù per presentarsi scelse il brano tratto da Isaia (61,1-2).
La sua missione in questo mondo consiste nel “portare il lieto annuncio, proclamare ai prigionieri la liberazione, ridare ai ciechi la vista e proclamare l’anno di grazia del Signore”.
In altre parole i destinatari della missione di Gesù sono i poveri, chi è privo della libertà, i ciechi, gli oppressi e tutti quelli che non dispongono dei benefici dell’anno giubilare ebraico ( cfr. Lv 25,10; Ger 34) che consiste nel risarcire il popolo per le sue sofferenze.
Gesù annuncia il regno di Dio alleviando la sofferenza della gente.
Quando Gesù manda gli apostoli alla missione cui sono destinati, dà loro il potere (exousia) (Mc 6,7) sugli spiriti impuri per scacciarli e guarire ogni malattia e ogni infermità ( Mt 10,1; Lc 9,1), aggiungendo subito dopo “strada facendo, predicate, dicendo che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demoni” ( Mt 10,7-8).
La missione dei discepoli e degli apostoli è stata pensata da Gesù come una missione terapeutica, curativa, destinata a dare vita, a rimediare alla sofferenza di tutti quelli che si sentivano limitati, minacciati, oppressi dal dolore, dalla malattia dal pericolo di morte e non come una missione dottrinale o religiosa, né una missione apologetica, cioè intesa a dimostrare con i loro miracoli la verità della dottrina che annunciavano.
Anche in questo caso la parola di Papa Francesco risuona chiara per tutto il Popolo di Dio.
Il Papa invita ogni cristiano a fare l’esperienza “di aprire il cuore a quanti vivono nelle più disparate periferie esistenziali che spesso il mondo moderno crea in maniera drammatica. Quante situazioni di precarietà e sofferenza sono presenti nel mondo di oggi!
Quante ferite impresse nella carne di tanti che non hanno più voce perché il loro grido si è affievolito e spento a causa dell’indifferenza dei popoli ricchi.
In questo Giubileo la Chiesa sarà chiamata a curare queste ferite, a lenirle con l’olio della consolazione, fasciarle con la misericordia e curarle con la solidarietà e l’attenzione dovuta.
Non cadiamo nell’indifferenza che umilia, nell’abitudinarietà che anestetizza l’animo e impedisce di scoprire la novità, nel cinismo che distrugge.
Apriamo i nostri occhi per guardare le miserie del mondo, le ferite di tanti fratelli e sorelle privati della dignità e sentiamoci provocati ad ascoltare il loro grido di aiuto”1
Anche Gesù non dice ai suoi discepoli di andare in cerca dei peccatori, per convertirli dai loro peccati, ma li mandò a cercare i malati, per guarirli dalle loro sofferenze.
E’ vero che Gesù risorto si conceda dai suoi discepoli inviandoli in tutto il mondo con questo incarico : “ Andate, dunque, e fate discepoli tutti i popoli… insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato” ( Mt 28,19-20) ma, il suo ordine era quello di andare nel mondo per “guarire ogni malattia ed ogni infermità” e mediante questo liberare dal peccato.
L’eliminazione del male morale (il peccato) e la liberazione dal male fisico ( la sofferenza) non sono due estremi di un dilemma, cioè o l’uno o l’altro, perché non si può rimediare a pene e dolori, senza preoccuparsi della responsabilità morale delle persone.
Nella Chiesa, invece, c’è chi calca talmente la mano sulla responsabilità morale delle coscienze, che le sofferenze umane finiscono per non destare grandi preoccupazioni.
Anzi ci sono alcuni chiamati a “curare le anime” che si lasciano trascinare da desideri di dominio e manipolano i sentimenti più intimi delle persone calcando in modo tale sulla responsabilità delle coscienze che si sono macchiate di “colpa”, di “peccato”, tanto da provocare un trauma, che molta gente si porta dentro poi, per tutta la vita, allontanando queste persone dalla vita sacramentale, specialmente dal sacramento della riconciliazione e della misericordia.
Il Papa Francesco lo espone molto bene nella “Misericordiae Vultus”.
I confessori siano un vero segno della misericordia del Padre…facendosi penitenti in cerca di perdono, per primi.
Ogni confessore dovrà accogliere i fedeli come il padre nella parabola del figliol prodigo : un padre che corre incontro al figlio, nonostante avesse dissipato i suoi beni.
I confessori sono chiamati a stringere a sé quel figlio pentito che ritorna a casa e ad esprimere la gioia per averlo ritrovato.
Non si stancheranno di andare anche verso l’altro figlio rimasto fuori ed incapace di gioire, per spiegargli che il suo giudizio severo è ingiusto e non ha senso dinanzi alla misericordia del Padre che non ha confini.
Non faranno domande impertinenti, ma come il padre della parabola interromperanno il discorso preparato dal figlio prodigo, perché sapranno cogliere nel cuore di ogni penitente l’invocazione di aiuto e la richiesta di perdono.
I confessori sono chiamati ad essere sempre, dovunque, in ogni situazione e nonostante tutto, il segno del primato della misericordia2.
Gesù manda i suoi messaggeri con istruzioni ben precise .
Non procuratevi né oro, né argento, né denaro nelle vostre cinture, né sacca da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone” ( Mt 10,9-10) perché la sofferenza umana non si allevia con il denaro, né con mezzi umani che in qualche modo hanno a che fare con il potere e l’ostentazione.
Per rimediare alla sofferenza umana e fare felici le persone, importante ed efficace non è quello che si ha o si indossa, ma quello che si è.
Solo così risulta possibile la libertà, la disponibilità, la capacità di amare per entrare in sintonia con coloro che si vedono privati di tutto e soli in questa vita.
Chi ha molti mezzi, ha per questo stesso motivo, molti legami, troppi compromessi e poche possibilità di identificarsi con chi non ha nulla.
Chi deve molti favori o è legato ad interessi di qualunque tipo, difficilmente sarà libero di dire quello che deve dire.
Chi prende sul serio l’impegno di combattere contro la sofferenza, prima o poi andrà incontro a contraddizioni, incomprensioni e persecuzioni.
Gesù, infatti, predice ai suoi discepoli che “saranno perseguitati, che verranno consegnati ai tribunali e alle sinagoghe” ( Mt 10,16-33).
Chi s’impegna a lottare veramente contro il dolore del mondo e le pene della gente entrerà in conflitto con le autorità civili ( sinedri) e religiose (sinagoghe), perché sono i poteri di questo mondo – civili o religiosi - a causare la maggior sofferenza alla povera gente.
Il peccato che Dio rifiuta è proprio il dolore, l’umiliazione e la sofferenza che noi essere umani causiamo gli uni agli altri e con questo e per questo, l’offesa che facciamo a Dio stesso.
Tutti sappiamo che la missione di Gesù è una missione salvifica e di conseguenza anche quella degli apostoli e della Chiesa che devono continuare la missione di Gesù.
Ma l’essere umano da che cosa doveva essere salvato ? E per quale finalità ?
Nel linguaggio ecclesiastico queste due domande hanno una risposta precisa : bisogna salvare l’essere umano dal peccato affinché possa avere la pienezza di vita ( la vita eterna).
Qui non si tratta di optare per l’una o per l’altra, ma di comprendere che “commette peccato” chiunque causa sofferenza all’essere umano o se ne disinteressa.
Il centro delle preoccupazioni di Gesù fu la sofferenza delle persone e la loro felicità o sventura.
Preoccuparsi di altre cose equivale ad utilizzare il tema del peccato ( e il problema del “bene” e del “male”) come un paravento per disinteressarsi del dolore del mondo.
Gesù, a causa di questo modo di intendere la sua missione, causò lo sconcerto, in quanti entrarono in relazione con LUI.
Confuse la sua famiglia che lo considerò pazzo ( Mc 3,21).
Suscitò stupore e scandalo tra la gente del suo villaggio ( Mc 6,1-5) fino al punto che lo volevano uccidere ( Lc 4,28-30).
I suoi discepoli non lo capirono ( Mt 16,23) tanto da avere timore a chiedergli determinate cose ( Mc 9,32).
Produsse sconcerto nello stesso Giovanni Battista, quando venne a sapere delle “opere di Gesù” ( Mt 11,2), dal momento che Giovanni Battista aveva annunciato il Messia come “giudice del fuoco” ( Mt 3,11), ossia giudice di minacce e castigo.
Gesù invece di minacciare e castigare tutta quella gentaglia, guariva i malati, mondava i lebbrosi, consolava quelli che stavano peggio.
Gesù si fece amico dei peccatori, frequentava i poveri, i mendicanti e persino le cattive compagnie, accoglieva quelli che ignoravano la legge e per questo erano maldetti ( Gv 7,49).
Per questo Giovanni mandò quei discepoli a chiedere a Gesù se era o non era lui il Messia atteso o se bisognava aspettarne un altro ( Mt 11,3).
Gesù non rispose né si, né no, ma si limitò a dire :” andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il vangelo ( Mt 11,4-5).
In fondo, le opere di Gesù avevano lo scopo di alleviare la sofferenza umana.
Colui che va per il mondo ad annunciare verità e difendere dottrine, senza muovere un dito per fare soffrire meno le persone, non è, né può essere l’inviato di Dio.
Gesù, nella risposta che dà a Giovanni Battista non fa alcun cenno ai “peccatori”, né al perdono dei peccati.
Per Gesù la questione del peccato e del perdono dei peccati non era segno della sua autenticità messianica.
Gesù avrebbe potuto dire che si dedicava a convertire e perdonare i peccatori.
La prova della autenticità messianica, almeno da questo brano evangelico, non stava nell’eliminazione del male morale ( il peccato), ma nella liberazione del male fisico (la sofferenza).
Gesù sa bene che tutto questo può suscitare “scandalo”, ma “beato colui che non trova in me motivo di scandalo” ( Mt 11,6).
Nella Chiesa ci sono stati e ci sono ancora, vescovi, sacerdoti, religiose e religiosi, laici che si sono dedicati e si dedicano ad alleviare il dolore dei più sventurati, fino a sacrificare perfino la propria vita.
Ma sta di fatto che molti uomini della religione si sono sempre dedicati alla religione sopra ogni altra cosa.
Si sono impegnati anima e corpo a difendere le verità religiose, ad adempiere alle leggi religiose e ad osservare i rituali religiosi e con una fedeltà tale che, in caso di necessità, hanno perfino abbandonato per strada un moribondo ( Lc 10,30-35).
Questo dimostra come la religione corre il rischio, molte volte, di indurire il cuore degli uomini e mette in evidenza, come i professionisti della religione, possono essere un modello finito e perfetto di mancanza di solidarietà.
Ciò che importa loro è la relazione con Dio, cioè il peccato, ignorando la sofferenza umana.
C’è un brano del Vangelo in cui Gesù parla del giudizio finale o giudizio delle nazioni ( Mt 25,31-46) o giudizio definitivo di Dio sulla storia umana.
In quel momento, quale criterio Dio seguirà per distinguere coloro che si salvano, da coloro, invece, che sono perduti ?
Non il criterio del peccato, ma la sofferenza.
Il testo infatti non dice: “ Andate maledetti, nel fuoco eterno, perché avete rubato, ucciso, mentito, fornicato…”.
Non si menziona la violazione di un solo comandamento, né l’inadempienza di una sola “norma”.
Non si parla di “macchie” o di “colpa”.
Né di offese a Dio.
Non si parla di fede, né di religione, ma di una sola cosa determinante : l’interesse o il disinteresse che ciascuno ha avuto nei confronti della sofferenza degli altri.
Gesù parla solo di fame, di sete, d’isolamento, di privazione totale di chi non ha che cosa mettersi, della malattia, della mancanza di libertà e degli oltraggi subiti dal prigioniero ( Mt 25,35-36.42-43).
Ciò che conta non è il comportamento dell’uomo verso Dio, ma il comportamento dell’uomo verso l’altro uomo.
Né contano la dignità o i diriti di Dio, ma i diritti e la dignità dell’essere umano.
Chi si disinteressa della sofferenza degli altri, pecca!
Tutti sappiamo molto bene che Il desiderio e il bisogno di ogni essere umano e quindi anche il nostro, è quello di “essere felici”.
Di conseguenza in ciascuno di noi c’è la paura e il rifiuto della sofferenza.
Questo è il problema fondamentale della vita per qualsiasi persona normale.
Gesù, però, non predica una specie di umanesimo ateo, perché precisa “ tutto quello che avete fatto a un o solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” ( Mt 25,40).
Dio si è identificato ed è diventato un tutt’uno con ciascun essere umano fino al punto che viene fatto o non fatto a qualsiasi persona è a Dio stesso che si fa o non si fa.
Il problema fondamentale della relazione dell’uomo con Dio sta proprio in questo, non nella fede, né nella religione e neppure nella osservanza delle norme o nel compimento di riti.
Il problema centrale è l’onestà, la sincerità, la trasparenza verso ogni persona e la vicinanza ad ogni essere umano.
A tutti quelli che soffrono, anche quando soffrono per causa propria ( come chi è in carcere) perché, persino in questi “indesiderabili” c’è Dio.
Tuttavia, Gesù non ha liquidato l’importanza del peccato, né le offese che vengono commesse contro Dio.
Gesù ha cambiato la nostra comprensione del peccato perché in definitiva ha cambiato la nostra comprensione di Dio.
Infatti, quando Gesù dice : “ tutto quello che avete fatto ad uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” ( cfr Mt 25,40-45) sta affermando che il Dio che annuncia è il Dio che si fonde e confonde con l’essere umano, fino al punto di identificarsi con ogni persona, chiunque essa sia e comunque si comporti.
Nei quattro Vangeli e in diversi modi, Gesù dice ripetutamente che chi “accoglie”, “disprezza” o “ascolta” un essere umano, anche se si tratta del più insignificante, in realtà accoglie, rifiuta o ascolta Gesù e quindi Dio stesso ( Mt 10,40;Mc 9,37; Mt 18,5;Lc 10,16; 9,48; Gv 13,20).
Questo si spiega a partire dal mistero dell’incarnazione di Dio in un uomo : Gesù di Nazareth.
L’incarnazione non significa soltanto o principalmente la divinizzazione dell’uomo, ma anche e contemporaneamente l’umanizzazione di Dio3.
In questo senso Gesù cambiò radicalmente la concezione di Dio.
L’identificazione di Dio con gli esseri umani non esiste nella tradizione religiosa del giudaismo.
Ma, nella tradizione cristiana sappiamo che la Parola che è Dio ( Gv 1,1) “si fece carne” ( Gv 1,14) cioè si è umanizzata, si è fusa con la debolezza dell’umano.
Si è identificata con ogni essere umano.
Se Dio si è assimilato all’umanità in questo modo, la conseguenza logica è che Dio lo si offende nell’essere umano.
Gesù ci sta dicendo che “offende Dio ciò che offende l’essere umano”.
A Dio fa male, ciò che fa male a qualsiasi persona.
Da quando Gesù ha modificato la nostra comprensione di Dio, ha modificato anche la nostra comprensione del peccato.
A Gesù interessa il tema del peccato, ma ci vuole far capire che il peccato contro Dio si identifica con il male e la sofferenza causata a qualsiasi essere umano.
In questo senso è giusto affermare che Dio non sopporta né i nostri mali, né le nostre sofferenze.
Ciò che fa soffrire le persone è ciò che costituisce il peccato che offende Dio.
In questo senso è giusto dire che Dio, nella sua divinità, non può soffrire il male, ma per lasciarsi coinvolgere dalla forza distruttrice del peccato, Dio deve assumere l’esistenza umana.
Vale a dire che per poterci guarire, Dio doveva prendere su di sé, per mezzo del suo Figlio incarnato, le conseguenze del peccato.
Solo così poteva esporsi agli effetti dei nostri peccati.
E’ l’incarnazione di Dio, l’umanizzazione di Dio che fa sì che noi possiamo parlare del peccato come di qualcosa che riguarda Dio e “offende” Dio.
Ecco perché quando il Nuovo Testamento cita il Decalogo, omette i comandamenti che stabiliscono una relazione diretta con Dio e si limita a ricordare i comandamenti che si riferiscono al “bene del prossimo” e alla dignità degli esseri umani.
Anche nella risposta che Gesù dà al giovane ricco ( Mt 19,18-18; cfr Es 20,12-16; Dt 5,16-20;24,14) e nei comandamenti elencati da Paolo nella lettera ai Romani ( Rm 13,9) si nota questo riferimento ai comandamenti che si riferiscono al bene del prossimo e alla dignità degli esseri umani.
Nel capitolo 13 della lettera ai Romani Paolo dice che l’amore è il pleroma della Legge religiosa, cioè la pienezza e lo stato completo di ogni cosa.
Trapela anche da Gc (2,11).
I testi del cristianesimo primitivo non presentano mai il Decalogo nella sua totalità, ma solo i comandamenti della seconda tavola.
Il che significa che l’amore per gli altri è il fine e la pienezza della legge religiosa, come afferma Paolo ( Gal 5,14).
Questo significa che una corretta relazione con gli altri è tutto ciò che l’essere umano deve mettere in pratica per essere in buona relazione con Dio.
In altre parole, noi esseri umani compiamo la volontà di Dio soltanto nella misura in cui facciamo quello che è in nostro potere perché gli altri siano felici, vivano meglio e soffrano il meno possibile.
Tuttavia, va precisato che non si può identificare immediatamente il bene con l’assenza di sofferenza, né si può identificare esclusivamente il male con la sofferenza.
Noi, basandoci su una teologia inadeguata, separiamo il divino dall’umano e contrapponiamo il divino all’umano.
Qui sta il problema !
Ad esempio : per giustificare la verginità o il celibato, si affermò che per avere un amore divino più pieno e puro, bisognava rinunciare ad ogni amore umano.
Oppure quando si dice che si ottengono, più gioie e grazie celesti, quante più pene e privazioni terrene si soffrono !
Questa mentalità ha in larga misura impregnato la teologia, la morale, la spiritualità e la vita cristiana in generale per molti secoli, compromettendo la coscienza di molti, perché ha presentato Dio e tutto quello che riguarda il divino, come un estraneo, persino rivale dell’uomo e di tutto l’ambiente umano.
La teologia più seria e documentata insegna, invece, che nell’uomo non si può in maniera ingenua e semplicistica, separare il naturale dal soprannaturale, cioè quello che appartiene alla natura dell’uomo da quello che va oltre ciò che è “unicamente umano”, perché “la natura pura”, come viene chiamata da S. Tommaso D’Aquino, non è mai esistita.
La natura pura è solo una speculazione dei teologi medievali per affermare l’assoluta trascendenza della “grazia divina”.
Fin da quando nel mondo esistono gli uomini, il naturale ed il soprannaturale si sono fusi, in ogni persona, in una unità inseparabile.
Nella teologia attuale questo si chiama il “mistero del soprannaturale” o anche “l’esistenziale soprannaturale”.
Questo significa che l’essere umano, qualunque essere umano, in tutta la sua vita e in tutto il suo agire, non opera mai in modo semplicemente e solamente “naturale” o puramente “umano”, ma ogni sua azione (come le faccende di casa, i doveri professionali…) è anche “soprannaturale” o “propriamente divina”, perché Dio opera assieme a lui.
LA MISSIONE DELLA CHIESA.
Se la missione di Gesù sia stata quella di alleviare la sofferenza dell’essere umano perché il peccato è costituito da azioni che procurano tale sofferenza all’essere umano, quale dovrebbe essere la missione della Chiesa, Popolo di Dio del Nuovo Testamento ?
Sappiamo pure che Dio con l’incarnazione ( Gv 1,1) “facendosi carne” si è identificato con ogni essere umano, per cui Dio lo si offende quando con il nostro comportamento offendiamo l’essere umano.
Quindi, il peccato contro Dio si identifica con il male e la sofferenza causata a qualsiasi essere umano, anche se la lotta contro il peccato o la liberazione dalla sofferenza non va intesa come un dilemma.
Nella storia della Chiesa, invece, si è potuto constatare come l’ago della bilancia ecclesiastica si sia piegato a favore della lotta contro il peccato, senza soffermarsi sulle sofferenze che per questo sono state causate, dimenticando che Gesù ha messo in gioco la propria vita per alleviare la sofferenza delle persone più sfortunate di questo mondo.
Qualcuno ha voluto trasformare questo comportamento di Gesù in un comportamento rivoluzionario politico e vedere nella Chiesa un’organizzazione di carattere sociale che lotta contro le ingiustizie e le sventure, dimenticando che tutto ciò che rappresenta un’aggressione contro gli esseri umani è un peccato che offende il Padre di ogni essere umano.
Molti uomini di Chiesa hanno considerato e considerano ancora oggi che la loro missione nel mondo sia quello di lottare contro il peccato, senza considerare il dolore, l’umiliazione e la morte che questa loro “convinzione” ha prodotto e produce nella vita della comunità cristiana, e nelle coscienze dei cristiani, ritenendo anzi che fosse e sia ancora necessario causare dolore, umiliazione e morte, proprio per sconfiggere il peccato e i peccatori.
In fin dei conti, il ruolo della religione è quello di vigilare sulle cose di Dio e poiché “il peccato per definizione è ciò che più offende Dio”, non ci si stupisce che essa sia interessata e si interessi soprattutto della difesa dell’onore di Dio, lottando contro chi lo lede.
Per questo molti i cristiani sono convinti che l’immagine di Dio che ci è stata rivelata in Gesù Cristo sia uno sviluppo del Dio dell’Antico Testamento, per cui l’atteggiamento di Gesù verso Dio avrebbe dovuto essere identico a quello che ogni israelita aveva verso YHWH, cioè l’atteggiamento di chi antepone l’onore e i diritti di Dio all’onore e i diritti di un qualsiasi essere umano.
D’altra parte la catechesi della Chiesa ha sempre sostenuto che Gesù è venuto in questo mondo per redimerci dal peccato e donarci così la salvezza.
Che senso ha, allora, chiederci se Gesù è venuto a salvarci dal peccato o dalla sofferenza, dal momento che Gesù stesso ha dovuto soffrire per liberarci dal peccato ?
Non si predica, forse, che “bisogna soffrire” se si vuole raggiungere la salvezza dell’anima ?
Nel Vangelo, traspare in modo chiaro ed inequivocabile come la preoccupazione di Giovanni Battista fosse quella di combattere contro il peccato, mentre la preoccupazione di Gesù era quella di liberare l’uomo dalla sofferenza.
Giovanni Battista minacciò aspramente i peccatori, mentre Gesù divenne loro amico.
Per questo, Giovanni Battista, mandò a chiedere a Gesù se fosse lui il Messia o bisognava aspettarne un altro ( Mt 11,3).
Ma, Gesù per dimostrare la propria identità elenca tutto quello che aveva fatto per alleviare la sofferenza di ciechi, di lebbrosi, di sordi… di poveri… ( Mt 11,4-5), riferendo a se stesso le profezie che parlavano del lieto annunzio per i poveri e della liberazione degli schiavi e dei prigionieri ( Lc 4,18-21).
Si tratta di due progetti diversi: quello di Giovanni Battista era di porre rimedio a quello che offende Dio, mentre il progetto di Gesù era quello di porre rimedio a ciò che fa soffrire l’uomo.
Allora, la salvezza portata da Gesù al mondo, riguarda ciò che offende Dio o ciò che fa soffrire l’uomo ?
Ci dobbiamo convincere che se non lottiamo contro la sofferenza umana, non lottiamo nemmeno contro il peccato.
Noi lottiamo contro il peccato nella misura in cui orientiamo la nostra vita e ci impegniamo ad alleviare le sofferenze di questo mondo.
E’ vero che la “conversione dal peccato” rappresenta l’alternativa drastica di tutta la storia di Israele e passa poi al Nuovo Testamento come una delle chiavi di comprensione della salvezza che Dio ci concede in Gesù Cristo.
Ma è altrettanto vero che se il peccato è peccato perché si configura anche come un male causato all’uomo dalla violenza su un altro uomo, anche la sofferenza è male, per cui non si può parlare del male prescindendo dalla sofferenza umana che è il male che ogni persona sente come più immediato ed è quello che tutti temono di più.
Domandiamoci, allora, quando noi leggiamo, studiamo o meditiamo la Scrittura, il Vangelo: se il centro della nostra riflessione debba partire da ciò che fece e disse Giovanni il Battista…. cioè dal peccato di coloro che sono considerati “razza di vipere” …o da ciò che fece e disse Gesù, cioè dalla sofferenza degli infermi e degli esclusi, di tutti coloro che sono disprezzati dai potenti di questo mondo ?
La stragrande maggioranza dell’umanità ha più paura della sofferenza che del peccato.
Soprattutto la sofferenza subita dagli innocenti, dai dimenticati e dagli oppressi della storia, dai vinti e dalle vittime è sempre stata uno scandalo, tanto da definire la storia dell’uomo come la “storia della sofferenza”.
Anche su questo punto, Papa Francesco è chiaro.
Il mio invito alla conversione si rivolge con più insistenza verso quelle persone che si trovano lontane dalla grazia di Dio per la loro condotta di vita.
Penso in modo particolare agli uomini e alle donne che appartengono ad un gruppo criminale, qualunque esso sia….non cadete nella trappola di pensare che la vita dipenda dal denaro e che di fronte ad esso tutto il resto diventi privo di valore e di dignità.
La violenza usata per ammassare soldi che grondano sangue, non rende potenti, né immortali.
Lo stesso invito giunga anche alle persone fautrici o complici di corruzione. Questa piaga putrefatta della società è un grave peccato che grida vendetta al cospetto di Dio, perché mina fin dalle fondamenta la vita personale e sociale.
La corruzione impedisce di guardare al futuro con speranza, perché con la sua prepotenza e avidità distrugge i progetti dei deboli e schiaccia i più poveri.
E’ un male che si annida nei gesti quotidiani per estendersi poi agli scandali pubblici.
La corruzione è un accanimento nel peccato che intende sostituire Dio con l’illusione che il denaro come forma di potenza. E’ un’opera delle tenebre, sostenuta dal sospetto e dall’intrigo.
Per debellarla dalla vita personale e sociale sono necessarie prudenza, vigilanza, lealtà, trasparenza, unite al coraggio della denuncia.
Se non la si combatte apertamente, presto o tardi rende complici e distrugge l’esistenza.
Questo è il tempo di lasciarsi toccare il cuore. Davanti al male commesso, anche a crimini gravi, è il momento di ascoltare il pianto delle persone innocenti depredate dei beni della dignità, degli affetti, della stessa vita4.
Non dimentichiamo che il problema del peccato viene gestito mediante l’autorità, mentre il problema della sofferenza (della debolezza) viene gestito con la solidarietà.
Esiste una relazione tra il peccato e il potere e tra la sofferenza (debolezza) e la solidarietà?
Nella relazione tra peccato e potere bisogna considerare la risposta ( il castigo o il perdono) che viene data a chi commette il male, cioè il peccato.
Castigando il malvagio, il peccatore, si esercita la giustizia, invece perdonandolo si esercita la misericordia.
Per questo, le persone religiose di solito presentano Dio come “giudice” che premia i buoni e castiga i cattivi, oppure come Padre buono che perdona o ha compassione del figlio degenere.
Tanto il perdono che il castigo sono azioni ( castigare e perdonare) che può compiere chi detiene il potere di castigare e di perdonare, cioè liberare chi si sente colpevole del pericolo che lo minaccia o del sentimento doloroso che lo tormenta.
Quando Gesù dice al paralitico che gli sono perdonati i suoi peccati ( Mc 2,5) la reazione immediata degli scribi è pensare che Gesù sta “bestemmiato” (Mc 2,7), perché solo Dio può perdonare i peccati ( Mc 2,7).
Proprio pensando questo, gli scribi affermano la relazione tra peccato e potere, proprio quando è in gioco il potere e la misericordia.
E Gesù rettifica dicendo che egli ha il potere ( exousia) di perdonare i peccati ( Mc 2,10).
Mentre la gente che assiste, glorifica Dio che ha concesso agli uomini tale “potere” ( Mt 9,8).
Il potere di perdonare ( Mt 18,28-31) è come un potere di “vita e di morte”.
Questa relazione tra peccato e potere è uno degli insegnamenti più importanti affermati con forza nel mito del peccato di Adamo.
Il serpente dice ad Adamo ed a Eva che se avessero mangiato del frutto dell’albero proibito, cioè se avessero peccato, proprio per il fatto di aver peccato, sarebbero diventati come Dio, conoscendo il bene e il male ( Gn 3,5).
La caratteristica di Dio è proprio quella di conoscere, distinguere e definire dov’è il bene e dov’è il male, ciò che è buono e ciò che è cattivo.
La caratteristica di Dio e ciò che lo definisce è la conoscenza e la comprensione della totalità: il potere totale.
Il peccato viene così messo in relazione con “ i poteri divini”.
Il primo peccato è il modello esemplare di ogni peccato, cioè mette il relazione l’atto peccaminoso con il potere, o meglio con il desiderio di potere: “essere come Dio”, “avere lo stesso potere di Dio”.
La natura e l’essere del peccato non stanno nell’”allontanarsi da Dio e convertirsi alle creature”, non è avversione a Dio, ma un tale grado di adesione al divino, all’assoluto, all’onnipotente che tutto diventa pretesa “inconscia” perché l’uomo mortale arrivi ad essere come Dio.
Il potere più grande è dato non solo dalla capacità di distinguere il bene dal male, ma dal potere di determinare che cosa è bene e che cosa è male, il buono e il cattivo, il permesso e il proibito.
Ma, il potere è dato anche dalla capacità di “purificare la macchia” e di “liquidare la colpa”, come di affermare la colpevolezza e punire per l’infrazione.
Questo potere totale che solo Dio ha, tocca la coscienza, l’intimità più profonda dell’essere umano, là dove ciascuno vede se stesso come una brava persona o al contrario come un essere perduto e indesiderabile.
Non c’è potere più grande di quello di “piegare le coscienze”, di sviluppare e accrescere l’autostima o al contrario , il disprezzo di se stessi.
E’ il potere che equilibra e costruisce la persona o che, in senso opposto, la squilibra e la distrugge.
E’ il potere che divide e separa gli uomini in “buoni” e “cattivi”.
E’ il potere che salva o condanna, che dà speranza o fa sprofondare nella disperazione, che unisce le persone ed i popoli o, al contrario, li divide, li separa e li mette gli uni contro gli altri.
E’ il potere che genera l’amore e l’odio, la pace e la guerra.
Questo potere è tanto più decisivo sia nel bene che nel male, quanto più il motivo su cui si fonda è nobile, assoluto e totale.
Non c’è quindi soltanto una relazione tra peccato e potere, ma il peccato si gestisce mediante il potere.
Un potere che seduce, che aggancia, che allucina.
Perché è allucinante poter dire a qualcuno con autorità indiscutibile: “sei incorreggibile”, “sei perduto”, “sei condannato”, come potergli dire il contrario, cioè “sei perdonato”, “sei salvato”, “sei onesto e degno”, ”sei una brava persona”, “sei una persona esemplare”.
Chi ha tale potere decide della felicità e del senso della vita degli altri o della sventura e del non-senso della vita.
Si tratta di un potere forte, come quello che la religione esercita sulle coscienze.
Ma la fallibilità o la condizione peccaminosa dell’uomo ha la sua radice nel limite proprio e costituzionale dell’essere umano.
Proprio perché è debole, l’uomo ha sempre i suoi momenti, i suoi elementi di fragilità.
Ed è il punto di minor resistenza per il quale il male può penetrare nell’uomo.
Il peccato è possibile perché nell’uomo c’è una parte di debolezza e non tutto in lui è potere.
Quindi, il peccato ha anche una correlazione negativa con il potere.
Se non ci fosse potere, non ci sarebbe peccato.
Se non esistesse la “debolezza”, non sarebbe possibile, nemmeno, il peccato.
Ma per noi che abbiamo un credo religioso, il peccato esiste non solo perché esiste nell’uomo la debolezza, ma anche perché noi pensiamo che esista un potere ultimo e supremo che sentiamo come amorevole e propizio o al contrario, come offeso e minaccioso.
La simbologia del male si esprime in tre esperienze:
1) l’esperienza dell’impurità;
2) l’esperienza della colpa;
3) l’esperienza del peccato.
L’esperienza dell’impurità : è un sentimento che ha molto di irrazionale e che ci fa sentire “sporchi”, contagiati ed impuri.
E’ presente con linguaggi diversi in tutte le religioni e giustifica l’uso di riti di purificazione mediante l’acqua.
Si tratta di un’esperienza di paura, di vedersi in difficoltà davanti al misterioso potere che ci si impone e ci minaccia.
L’esperienza di colpa: si tratta di un sentimento esistente in ogni essere umano prima della proibizione della legge, prima di ogni conoscenza del bene e del male, prima che si abbia l’idea di che cos’è una trasgressione.
Il sentimento di colpa è qualcosa che ci accompagna tutta la vita, sin dalla nostra nascita, al suo primo stadio dell’esistenza, come pulsione di vita e di morte, davanti al seno materno come oggetto di amore e di odio.
Poi, in un secondo stadio, appare la legge come espressione della volontà paterna, il potere che ci si impone, ci domina, ci obbliga.
E’ allora che nasce in noi la paura del castigo e del rimorso.
L’esperienza del peccato che appare in noi come l’idea di una rottura di rapporto con “una persona”, con una presenza che è l’espressione di una volontà santa che s’impone e gli impartisce ordini o divieti.
Il peccato prima di essere la trasgressione di una norma astratta, è la rottura di un legame personale.
Il peccato, nelle religioni, appare sempre come un errore, una deviazione, uno smarrimento.
Il peccato in tutti i suoi aspetti ed esperienze possibili è relazione con un potere che ci supera, ci giudica e ci minaccia.
Una norma che ci si impone.
Una relazione che si rompe.
E questo implica sempre un riferimento ad un potere che ci obbliga, ci proibisce, ci giudica e ci può punire.
Ma il potere con cui ha a che fare il peccato non è solo quello di Dio, ma è anche il potere divino amministrato dal potere umano di un uomo : il sacerdote.
Si tratta del potere che è stato dato agli uomini, cioè ai sacerdoti di legare e sciogliere ( Mt 18,18) di perdonare e non perdonare ( Gv 20,23) i peccati (Cfr Concilio di Trento, ses. XXIII, can.1,DS 1771).
Sappiamo che il peccatore che si pente dei suoi peccati è perdonato immediatamente da Dio.
Ma, la Chiesa insegna che, in circostanze normali, ossia escluso il caso eccezionale in cui non sia possibile accedere ad un sacerdote, non basta il solo perdono di Dio.
Ciò comporta nella disciplina ecclesiastica attuale, la confessione dei peccati ad un sacerdote, tenendo conto che la confessione è parte essenziale del Sacramento della Penitenza o Riconciliazione.
Il che significa che l’uomo peccatore oltre a chiedere perdono a Dio, deve chiedere perdono anche alla Chiesa.
Questa dottrina si è spesso tradotta nella pratica, nel perdono misericordioso e guaritore che ha alleviato l’angoscia di tanti, ha ridato pace e speranza a coloro che le avevano perdute, equilibrio e serenità alle persone tormentate da sentimenti di colpa e paura nei confronti della giustizia divina.
Ma questo potere sacerdotale, altre volte, invece racconta storie di abusi umilianti su chi deve sottomettersi a confessare in privato e nei dettagli i propri peccati.
Molte volte, nei discorsi sul peccato, si è ampliato le dimensioni del peccato rispetto al perdono, dando vita così ad una “pastorale della paura”, per cui la confessione dei peccati ad un sacerdote, da oltre trent’anni sta attraversando una crisi da cui non sappiamo se uscirà.
Ho sottolineato in precedenza come il peccato si può gestire soltanto mediante il potere, mentre la sofferenza umana si può alleviare o cancellare solo mediante la solidarietà.
Ma, mentre il problema del peccato si affronta sempre dall’alto, il problema della sofferenza, se c’è la chiara volontà di risolverlo, si può trattare soltanto alla pari.
Per qualsiasi tipo di sofferenza c’è bisogno di aiuto, ma non basta, perché la relazione di aiuto è sempre una relazione asimmetrica, per cui ci sono dei casi e situazioni in cui il solo aiuto provoca altra sofferenza.
Chi aiuta, anche se non se ne rende conto, in realtà si trova in una posizione che è al di sopra di chi è aiutato.
Questa forma di relazione è controllata da chi offre aiuto, che può offrire fin dove può o vuole e in qualunque momento può interrompere la relazione o limitarla secondo quello che gli conviene o le sue possibilità.
La relazione di aiuto si limita a dare quello di cui l’altro ha bisogno.
Chi aiuta dà qualcosa, ma non se stesso, cioè la relazione di aiuto non è la stessa cosa della relazione di affetto.
Siamo tutti disposti ad aiutare, a dare qualunque cosa, perché sappiamo che non ci impegna più di tanto e non ci complica la vita.
Invece, nella relazione di affetto, di amore verso chi ci chiede aiuto, nessuno sa a quali rinunce, impegni, esigenze lo può portare.
L’affetto ci fa paura, perché nell’amore noi impegniamo la nostra libertà.
Dobbiamo unire la nostra vita a quella dell’altro.
Parlare di solidarietà equivale parlare di amore, perché solo chi riceve affetto può parlare di un vincolo di autentica solidarietà tra esseri umani.
Solo chi da affetto e riceve affetto può rimediare alla sofferenza umana alle sue radici.
Alla sofferenza non si rimedia dall’alto, ma dal basso, dalla medesima posizione che occupa il bisognoso, dalla sua stessa situazione, identificandosi con l’altro, fondendosi con i suoi sentimenti, con il suo dolore, la sua umiliazione, il suo possibile oltraggio…
E’ quanto ha fatto Gesù per poter essere il sommo sacerdote che rimedia al male e alla sofferenza del mondo.
Gesù Cristo, il Signore si è reso in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e degno di fede nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo.
Infatti, proprio per essere stato messo alla prova ed avere sofferto personalmente, egli è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova ( Eb 2,17-18).
Nell’Antico Testamento, cioè nel giudaismo la condizione necessaria per diventare sacerdoti era la separazione.
I leviti furono separati dal resto del popolo.
Al sacerdozio avevano accesso solo coloro che provenivano dalla famiglia di Aronne, dalla stirpe di Sadoc ( Es 29,29-30; 40,15).
Nel caso di Gesù è l’opposto.
Quello che si richiede per essere sacerdote non è la separazione, ma l’assimilazione, cioè farsi uguale in tutto agli altri, cioè rinunciare ad ogni tipo di distinzione, di differenza di superiorità, di dignità, di separazione…
Per questo “svuotò se stesso… diventando simile agli uomini” ( cfr Fil 2,7).
Nella Chiesa, molte volte i ministri del Vangelo, danno l’impressione di assomigliare più ai sacerdoti giudei che a Gesù, perché danno più valore alla separazione, alla dignità, alla differenza, alla distinzione, giustificando tutto questo con argomenti di “alta spiritualità”.
Loro appartengono ad una categoria (i chierici), ad uno stato (clericale) a parte da quelli che appartengono allo stato laicale, per mostrarsi alla gente come persona “chiamata”, “eletta”, “preferita”, “scelta”, “importante”…
Il testo della lettera agli Ebrei, invece, mette in risalto come Gesù “proprio per essere stato messo alla prova ed avere sofferto personalmente… è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova” ( Eb 2,18).
Gesù venne in questo mondo per essere il “sommo sacerdote definitivo” e la finalità del sacerdozio di Cristo non fu quella di celebrare funzioni sacre nel Tempio, ma di rimediare alla sofferenza umana.
La sofferenza umana non trova rimedio dalla dignità e dalla superiorità, ossia dall’alto, ma può aiutare coloro che soffrono unicamente chi soffre il medesimo dolore di chi sta peggio nella vita.
Gesù fece proprio questo :”passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo” ( At 10,38).
Gesù disse chiaramente ai suoi Apostoli che “ chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti” ( Mc 10,43-44).
Non si tratta però di mettersi al servizio di una ideologia – come disse Papa Francesco – ma delle persone.
E Gesù ne ha dato l’esempio.
A Nazareth si limitò ad essere il “falegname” ( Mc 6,3) di un villaggio sperduto, nella Galilea dei poveri. Uno tra i tanti.
Quando si mise a predicare i suoi compaesani si meravigliarono ( Mc 6,2).
Quando cominciò ad annunciare la buona notizia ai poveri, a guarire gli ammalati, a purificare i lebbrosi, a risuscitare i morti, a scacciare i demoni e a liberare i prigionieri ( Mt 11,5; Lc 4,18), cioè quando si dedicò totalmente a rimediare alla sofferenza umana, lo fece in modo tale che lo considerarono un indemoniato ( Mc 3,22), un escluso da allontanare, come si faceva con i lebbrosi ( Mc 1,45), un peccatore ( Gv 9,16), un samaritano ( Gv 8,48), un pazzo ( Gv 8,48), un malfattore ( Gv 18,30), un sovversivo ( Lc 23,2), un blasfemo ( Mt 26,65).
Ma Gesù non si mise allo stesso livello degli altri, ma addirittura al di sotto di tutti (Cfr. il racconto della lavanda dei piedi Gv 13,1-17)
Il Signore, il Kyrios, Dio, per dare amore, per rimediare al dolore del mondo, dovette scendere ed abbassarsi, mettersi ai piedi di tutti e farsi servo.
Solo con l’assimilazione ai più umili di questo mondo si può rimediare al dolore del mondo.
Qui è in gioco la struttura fondamentale dell’amore che altro non è che la struttura fondamentale dell’umanità, la struttura dell’essere, fatto umanità.
La struttura dell’essere, nella quale anche l’ESSERE supremo si espresse e si rivelò: la “Parola fatta carne”.

 
LA REDENZIONE DAL PECCATO
Noi affermiamo che Cristo è venuto nel mondo per salvarci dai nostri peccati.con la sua morte
Il termine “redenzione” si trova ripetuta diverse volte nel Nuovo Testamento ( Lc 1,68; 2,38; Rm 3,24; 8,23; 1Cor 1,30; Ef 1,7; Eb 9,12;…)
Il termine ha origine nell’Antico Testamento e si riferisce prima di tutto alla liberazione del popolo ebreo dalla schiavitù dell’Egitto ( Es 6,6-7; Dt 7,8; 2Sam 4,9; 7,23; 1Mac 4,11).
Ma quando noi cristiani parliamo di redenzione operata da Gesù, ci dobbiamo chiedere da che cosa noi uomini, noi esseri umani, siamo stati liberati o riscattati?
La teologia cristiana ci dice che siamo stati liberati, riscattati, redenti dal peccato e con il peccato siamo stati redenti dalla morte, in quanto per la risurrezione di Gesù abbiamo la speranza di non essere condannati alla distruzione, ma possiamo godere di una vita definitiva ( Rm 6,10; 2Tm 1,10; Eb 2,14-15).
La teologia cristiana ha elaborato le sue idee sulla redenzione dal peccato, utilizzando tre concetti fondamentali :
1) il concetto di sacrificio;
2) il concetto di espiazione;
3) il concetto di soddisfazione.
La morte di Gesù in croce fu il sacrificio per i nostri peccati, cioè la “soddisfazione” , l’ “espiazione” che Gesù offrì a Dio per placarlo per le offese che noi mortali gli facciamo tutti i giorni.
Elaborando queste concezioni della redenzione i teologi hanno fatto si che il peccato occupasse, nel pensiero e nella vita dei cristiani, un posto centrale e determinante che, in realtà non ebbe nel pensiero e nella vita di Gesù.
Nel cristianesimo è successo che con la teologia della redenzione e del peccato, le preoccupazioni di Giovanni Battista diventassero più determinanti delle preoccupazioni di Gesù.
Per questo la morale cristiana è stata elaborata a partire dal peccato e in funzione del peccato e non a partire dalla sofferenza e per liberare le persone da tale sofferenza.
La Chiesa, come istituzione, considera se stessa allo stesso modo, cioè la sua missione è quella di lottare prima di tutto e principalmente contro il peccato, anche quando per farlo, causa sofferenze profonde alle persone o tace dinnanzi alle sofferenze delle vittime.
Così il peccato ha occupato il centro, come nel ministero di Giovanni Battista, mettendo in secondo piano la sofferenza che, invece, aveva occupato il centro nel ministero di Gesù.
Come è potuto succedere questo ?
I primi cristiani quando si misero a predicare che loro credevano in un “crocifisso” e che erano convinti che quell’uomo fosse il Figlio di Dio e il Signore, trovarono nella cultura del tempo delle difficoltà insormontabili.
Infatti, per la cultura del tempo, una persona che era stata condannata dalle autorità e messo in croce era considerato da tutti come qualcuno talmente inaccettabile e persino ripugnante che nessuno poteva credere che fosse il Figlio di Dio e il Signore, e neppure una persona degna di credito.
Nella cultura romana poi questo concetto era così forte che della croce e dei crocifissi non si poteva nemmeno parlare tra persone di buona educazione.
E Gesù fu crocifisso non semplicemente tra due “ladroni” o due “malfattori” ( come usualmente si dice) ma tra due “sovversivi” ( Mc 15,27), “ribelli politici”.
Per gli Ebrei era incredibile che una persona uccisa sulla croce potesse essere di rango divino.
Morire crocifisso era una maledizione divina (Dt 21,23,cfr Gal 3,13).
Il crocifisso era talmente maledetto da Dio stesso, che la sua sola presenza contaminava la terra che Dio dona a tutti noi essere umani, per cui chi è “stato appesa ad un albero”, non dovrà restarvi tutta la notte, ma deve essere seppellito in quello stesso giorno.
Per questo nei primi tre secoli della nostra era, i cristiani erano considerati “atei” che a quel tempo non significava “ senza Dio o non credenti in Dio”, ma coloro che attentavano contro l’ordine costituito, contro la “buona società”, la società in cui erano perfettamente integrati gli dei delle religioni, i loro templi e sacerdoti, incluso il culto all’imperatore.
Un sovversivo giustiziato su una croce non poteva essere presentato come “DIO” in una cultura simile.
Allora la soluzione fu di presentare la morte di Gesù in croce come qualcosa di predisposto e voluto da Dio, qualcosa che rispondeva al piano divino della salvezza
Quando parliamo della morte di Gesù in croce e del suo significato salvifico bisogna distinguere tra ciò che accadde ( la storia della morte di Gesù) e l’interpretazione (teologica) che si diede di ciò che successe, cioè l’interpretazione teologica della morte di Gesù.
Per spiegarla gli autori del Nuovo Testamento ricorsero a due concetti fondamentali nella tradizioni del popolo di Israele : il concetto di sacrificio e quello di espiazione.
In seguito- a partire dal III sec - si aggiunse la teoria della soddisfazione, sviluppata poi ampiamente da Anselmo da Canterbury, nell’XI sec.
In riferimento alla storia di ciò che avvenne noi sappiamo che Gesù fu assassinato perché i capi del popolo, in particolare i sommi sacerdoti, si sentirono profondamente turbati e videro messa in discussione la propria autorità e il modo di guidare il popolo.
Di fatto la predicazione di Gesù, a favore di tutti coloro che erano disprezzati da quel clero e da quei capi, fu una costante denuncia dei torbidi interessi dei sacerdoti e dei funzionari del Tempio.
“”Allora i sommi sacerdoti e i farisei riunirono il sinedrio e dicevano “che cosa facciamo ? Quest’uomo compie molti segni. Se lo lasciamo continuare così, tutti crederanno in lui, verranno i Romani e distruggeranno il nostro Tempio e la nostra nazione. Ma uno di loro di nome Caifa che era sommo sacerdote quell’anno, disse loro : “ Voi non capite nulla! Non vi rendete conto che è conveniente per voi che un solo uomo muoia per iol popolo e non vada in rovina la nazione intera. Questo però non lo diceva da se stesso, ma essendo sommo sacerdote profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione; e non soltanto per la nazione, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi. Da quel giorno dunque decisero di ucciderlo” ( Gv 11,47-53)
Per questo i Giudei cercavano ancor più di ucciderlo, perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava Dio suo padre, facendosi uguale a Dio” ( Gv 5,18).
Mancavano due giorni alla festa della Pasqua e degli Azzimi e i capi dei sacerdoti e gli scribi cercavano il modo di impadronirsi di lui con inganno per farlo morire. Dicevano, infatti, non durante la festa, perché non vi sia una rivolta di popolo ( Mc 14,1-2)
Lo udirono i capi dei sacerdoti e gli scribi e cercavano il modo di farlo morire. Avevano, infatti paura di lui, perché tutta la folla era stupita del suo insegnamento” ( Mc 11,18)
“…E i farisei uscirono subito con gli erodiani e tennero consiglio contro di lui, in che modo farlo morire” ( Mc 3,6)
Per il resto, il responsabile ultimo della condanna a morte di Gesù fu il governatore romano Ponzio Pilato, perché solo lui poteva emettere una sentenza di morte.
Tanto più una sentenza di morte in croce.
Per quanto riguarda l’interpretazione di ciò che avvenne, questa interpretazione si concretizzò nei concetti di “sacrificio” ed “espiazione” che più tardi si completarono con la teologia della “soddisfazione”.
A partire da questo gli autori del Nuovo Testamento e i teologi, elaborarono la teologia della salvezza e della redenzione dal peccato che in tal modo venne ad occupare il centro nelle idee teologiche e nelle preoccupazioni spirituali della Chiesa e dei cristiani, mettendo da un lato l’importanza che la sofferenza aveva avuto negli insegnamenti e nella vita di Gesù.
La sofferenza non solo venne “spostata”, ma subordinata al tema del peccato e alla lotta contro di esso.
Eliminare il peccato è lo scopo principale anche se per farlo bisogna soffrire e imporre sofferenze, morte inclusa.
San Paolo dà molta importanza al tema del peccato e i predicatori basandosi sulla teologia paolina hanno predicato che “Cristo è morto per i nostri peccati”, che ha “sofferto a causa dei nostri peccati”, anzi che siamo stati noi peccatori, con i nostri peccati, ad uccidere Gesù.
Paolo sviluppa teologicamente il tema del peccato e il termine “peccato” ( amartia) è usato fondamentalmente al singolare.(Cfr. lettera ai Romani dal cap. 5 al cap. 8).
Paolo radicalizza il termine “peccato” e non lo riferisce ai peccati particolari, ma lo considera come “una forza” che entra nel mondo con il peccato di Adamo e da allora tiene l’umanità sottomessa in schiavitù ( Rm 5,12; 6, 6-7.14.16.20; 7,14).
In tal modo Adamo, disobbedendo al precetto impostogli da Dio, attrasse su di sé e sulla propria discendenza il peccato e la morte.
In questo senso il peccato è l’origine del male e del male più pericoloso per l’uomo, perché a causa di tale forza o peccato l’uomo è rimasto sottomesso, come uno schiavo ( Rm 6,16) e dominato ( Rm 6,14) dal potere di questa condizione peccaminosa.
Per Paolo, il peccato fa sì che l’uomo sia sottomesso alla morte ( Rm 5,12.13-14,21) e viva da schiavo ( Rm 6,6.7;7,14), incapace di comportarsi onestamente e con rettitudine ( Rm 6,20).
Parlando in questi termini, Paolo esprime quello che è la condizione umana, la condizione dell’uomo in questa vita, cioè l’insieme di limitazioni e cattive inclinazioni che esistono in ciascuno di noi.
Da questa condizione ci ha liberato Gesù, il Messia ( Rm 8,2).
Nella mentalità di Paolo, come il mito di Adamo rappresenta tutto il male e il negativo che c’è nella vita, così la morte di Cristo rappresenta tutto quello che c’è in noi di onestà, generosità, libertà e speranza.
La bontà di Dio che realizza in noi questa profonda liberazione, Paolo la chiama “giustificazione”, intendendo con questa parola un giudizio misericordioso, perché Dio, grazie alla sofferenza e alla morte di Cristo, salverà gli uomini e non li castigherà.
Questa teologia paolina del peccato si riferisce solo all’altra vita o anche a questa vita ?
Paolo parla di questa vita, ma con la speranza riposta anche nella vita definitiva ed ultima, purché non si escluda la vita presente.
E’ infatti attraverso la fede, che viene vissuta nelle condizioni di questo mondo che la liberazione totale diventa possibile.
Nella teologia del peccato di Paolo c’è una relazione tra il peccato e la sofferenza umana, perché se in questo mondo ci sono le sofferenze e la morte, queste esistono a causa del peccato.
Quindi non si può pensare di dominare e vincere il peccato, disinteressandosi delle sofferenze dell’essere umano, né col pretesto di combattere il peccato causare altre sofferenze all’essere umano e anche la morte.
Nelle lettere agli Efesini e ai Colossesi, Paolo parla del peccato solo dal punto di vista del perdono e della inesauribile generosità che Dio, per mezzo di Gesù Cristo ci ha dimostrato ( Ef 1,4-7), strappandoci dal potere delle tenebre, perché in Cristo abbiamo la redenzione, il perdono dei peccati ( Col 1,13-14).
Certo la redenzione e il perdono dei peccati è essenziale, ma non possiamo incentrare la nostra attenzione unicamente sul perdono dei peccati, per non rischiare di dimenticare l’esperienza umana o di causare danno ed umiliazione agli altri, con la falsa giustificazione di sconfiggere così il peccato nel mondo.
Il peccato non si può interpretare come offesa o come disobbedienza, MA COME DANNO CHE ARRECCHIAMO A NOI STESSI E AGLI ALTRI, perché solo questo può offendere Dio e in tal senso può essere definito peccato.
Ciò che Dio detesta e lo offende è che noi esseri umani ci arrechiamo del male e ci causiamo sofferenza gli uni agli altri.
Questo modo di intendere il peccato è esattamente quello che Dio proibisce con i comandamenti del Decalogo.
Nella tradizione dei Vangeli sinottici (Mc 10,19) e nella lettera ai Romani (13,9) Dio proibisce di compiere quelle azioni che arrecano danno e causano sofferenza agli altri, in conformità all’etica dell’amore verso gli altri.
Tutti i comandamenti della Legge si riassumono nella Regola aurea “ Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”.
E Paolo ricorda l’amore per gli altri, non l’amore per Dio, perché tutta la Legge si riduce all’amore per gli altri.
Questa scissione tra peccato ( relazione con Dio) e sofferenza (relazione con l’essere umano) non aveva trovato posto nella mente di Gesù, né in quella di Paolo.
La chiave del peccato(amartia) sta nel desiderio (epithymia).
Per Paolo la chiave del peccato sta nel desiderio ( Rm 7,7), per cui tra peccato e desiderio non esiste differenza, perché il peccato consiste in qualsiasi attrazione (desiderio) per il male, qualunque sia la natura di questa attrazione: il desiderio indicato nel Decalogo (Es 20,17; Dt 5,21) o il desiderio di cui si parla nella lettera ai Corinzi (10,6) che rimanda alla proibizione di Numeri (11,4.34).
Il desiderio che viene proibito in questi passi non si riduce ai “cattivi desideri”, cioè propri della sessualità umana.
Ciò che il libro dell’Esodo afferma è molto più ampio: “Non desidererai la casa del tuo prossimo; non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo” ( Es 20,17).
Si tratta della proibizione del desiderio o dell’avidità che sono la radice e la fonte da cui scaturisce ogni aggressione, ogni violenza.
Sono all’origine del danno e della sofferenza che noi essere umani causiamo agli altri.
Ma qualunque siano le cause o i motivi che possono aggravare o condizionare le nostre reciproche aggressioni, esiste un meccanismo interno che è alla base delle nostre rivalità ed offese, delle nostre mancanze di rispetto e dei nostri conflitti : il modello dei nostri desideri è chi sta intorno a noi e questa imitazione del desiderio del prossimo crea la rivalità che a sua volta origina e fomenta l’imitazione.
Si crea così un circolo diabolico di imitazione e di desiderio che si traduce nel fatto che io desidero quello che l’altro desidera.
Questa è l’imitazione che produce rivalità e il conseguente conflitto che si può tradurre in invidia, disprezzo, mancanza di rispetto, aggressione, violenza.
L’oggetto che io desidero, seguendo il modello del mio prossimo, che ha tutte le intenzioni di conservarlo, di tenerlo per sé e non se lo lascerà strappare, non può che creare lotta, conflitto, scontro e violenza.
Ecco perché Paolo stabilisce una relazione profonda tra “peccato” e “desiderio”.
Ciò vuol dire che c’è peccato dove c’è violenza contro qualcuno.
E c’è violenza contro qualcuno quando uno desidera quello che l’altro desidera, diventando così il modello del mio desiderio5.
PURGATORIO6.
Nel contesto dei temi trattati, riguardanti il giubileo, le indulgenze, il peccato, il perdono dei peccati, la redenzione, credo che concludere questo excursus con una riflessione sul Purgatorio, possa avere qualche utilità.
Parlando del “peccato” per indicare un’azione che ha rotto il nostro rapporto con Dio, ho sottolineato nella riflessione sulle indulgenze, come venga usato un linguaggio prettamente giuridico.
Il peccato, in quanto concepito come un’azione peccaminosa, causante un danno al nostro prossimo, dispiace a Dio che con l’incarnazione si è fatto “ uomo” e costituisce una COLPA (offesa di Dio) che può essere grave (peccato mortale) o leggera (peccato veniale) alla quale segue una PENA, come “riparazione” del danno causato. Tale pena può essere eterna o temporale.
La pena eterna è l’inferno per chi commette un peccato mortale, perdendo così la “ comunione con Dio”, cioè lo stato di grazia soprannaturale” e muore senza essersi pentito.
La pena eterna dell’inferno, per i peccati mortali, viene cancellata ogni qualvolta la persona si accosta “fruttuosamente” al Sacramento della Riconciliazione, venendo così ammessa nuovamente alla comunione con Dio, cioè nello stato di grazia soprannaturale.
La pena temporale, invece, è legata ai peccati veniali.
Nonostante il perdono delle colpe (gravi o leggere) ottenuto mediante il sacramento della riconciliazione, la pena temporale deve essere scontata o quaggiù, sulla terra, mediante la preghiera e le varie pratiche di penitenza, proporzionate alle colpe confessate, le opere di misericordia e di carità, di pietà, di mortificazione, spogliandosi così completamente dell’ “uomo vecchio”, per “rivestirsi dell’uomo nuovo”, oppure nel Purgatorio, perché sia il peccato mortale, come il peccato veniale, anche se perdonati nel Sacramento della Riconciliazione, lasciano delle tracce negative nell’anima delle persone.
L’insegnamento della Chiesa7 sul Purgatorio viene proposto ai cattolici come verità di fede.
Però non è dogma di fede quello che, lungo i secoli, hanno detto sul tema, i Padri della Chiesa e poi i teologi dal Medioevo ad oggi.
Quello che dicono, invece, le credenze popolari sul purgatorio, fa parte, soltanto, dell’“immaginario” popolare8.
La Chiesa ha definito l’esistenza del purgatorio in base ad alcuni testi della Sacra Scrittura, anche se da un punto di vista esegetico non sono del tutto pertinenti, fatta eccezione per quanto è detto nel secondo Libro dei Maccabei [12, 40-45 ] 9.
I Padri e i Dottori della Chiesa, i teologi, hanno sempre insegnato la dottrina sul Purgatorio.
Nella Chiesa c’è sempre stata una prassi antichissima e costante di pregare per i defunti, in modo particolare nella celebrazione eucaristica.
Questa pratica si trova in tutte le chiese dell’Oriente e dell’Occidente ed ha una sua trascrizione epigrafica nelle iscrizioni poste sulle tombe dei defunti, in cui si chiedono preghiere10.
L’insegnamento della Chiesa sul Purgatorio è contenuto nelle definizioni di tre Concili : di Lione II , di Firenze e di Trento che evidenziano :
*L’esistenza del purgatorio, inteso come “uno stato di purificazione intermedio”, tra lo stato di dannazione [l’inferno] e lo stato di beatitudine nella visione di Dio [il Paradiso] .
*La persona umana morta in grazia di Dio, senza alcun peccato mortale sulla sua coscienza, al momento sua morte, se non ha soddisfatto con frutti degni di penitenza i suoi peccati durante la vita, deve essere purificata con pene purificatrici, per potere essere in piena comunione con Dio.
*Le anime in stato di purificazione possono essere aiutate a purificarsi e così essere sollevate da tali pene, dai suffragi dei cristiani viventi, consistenti nell’applicazione ai defunti di messe, preghiere, opere buone e opere di carità; specialmente con la celebrazione dell’Eucaristia.
*Terminata la purificazione, la persona é ammesse subito in Paradiso, dove gode della visione beatifica di Dio Uno e Trino, senza aspettare il giudizio finale11.
Ma per poter fare un discorso sul Purgatorio che è fuori dalla nostra portata e dalla nostra esperienza, a che cosa ci dobbiamo riferire ?
Su quello che dice la Parola di Dio, cioè la Sacra Scrittura ?
Ma, esistono in essa dei testi che possono fondare con solidità teologica, la dottrina sul purgatorio ?
Sono realmente probativi, ciascuno per la dottrina cui sembra riferirsi ?
Antico Testamento : Nm 12,14 s; 20,12; 2Sam 11 s; 2Mac 12,39-46;
Nuovo Testamento : Mt 5,25 s; 12,32; 1Cor 3,12-15.
Ci sono dei teologi che ritengono validi questi testi, ma a condizione che non si cerchino in essi se non le idee fondamentali della nostra dottrina attuale, ormai sviluppata su questo argomento12.
Altri, invece, pensano che nei testi delle Sacre Scritturale esistono idee, intuizioni, suggerimenti che possono essere considerati il nucleo germinale di questa verità cristiana.
Mentre per altri non ci sono dei testi nei quali cercare in maniera esplicita la verità sul Purgatorio13.
Il Purgatorio – come il Paradiso e l’inferno - indica una “relazione” della persona che coscientemente muore in grazia di Dio, cioè senza alcun peccato mortale, quindi in stato di grazia, cioè nell’amore di Dio.
Il Purgatorio non è un luogo intermedio tra il Paradiso e l’Inferno, ma è il proseguimento dell’attività purificatrice, che è una componente immancabile della vita ecclesiale, qui sulla terra”14.
Nel riflettere su questo “stato di purificazione” che ci permette di poter “vivere per sempre, in piena comunione con Dio”, dobbiamo tener presente che è costante persuasione che solo un’assoluta “purezza” è degna di essere ammessa alla visione di Dio.
Per comprendere la ragionevolezza dell’esistenza del Purgatorio, di questo “stato” di purificazione dei giusti, dopo la morte, è necessario rifarsi al carattere dell’esperienza biblico-cristiana di Dio.
L’esperienza dell’incontro dell’uomo con Dio, riflessa in molte immagini della Sacra Scrittura, è una “cosa spaventevole”.
E’ una cosa spaventevole cadere nelle mani del Dio vivente” [cfr. Ebr 10,31] .
Quando la realtà di Dio afferra l’uomo, questi ne resta profondamente atterrito; diventa consapevole della sua caducità.
Avverte la sua incapacità di dare a se stesso un fondamento sicuro.
La sua indegnità, la sua oscurità e la sua peccaminosità gli appaiono in misura umiliante.
Egli fa esperienza che il fuoco divorante dell’amore di Dio, al quale non si può resistere, lo penetra, lo mette in questione e lo purifica.
Questa esperienza di Dio viene poi proiettata nella situazione dell’uomo che muore e che attraverso la morte giunge all’incontro con Dio.
Quello che nell’esperienza di Dio è vero, già fin d’ora, nell’oscurità della fede, a maggior ragione, varrà in quel momento nel quale, dopo la nostra morte, siamo posti di fronte a Dio, alla sua santità, al suo amore, consapevoli della nostra malvagità, della nostra debolezza, della nostra incapacità di amare fin nelle profondità estreme del nostro intimo.
Anche l’uomo che ha vissuto nella fede in Dio, che si è convertito a Dio dal suo peccato, non è in regola, perché le sedimentazioni, le incrostazioni e i residui del peccato, le negligenze e gli errori della sua storia precedente, non sono completamente cancellati.
Questi residui di peccato, lo fanno “permanere” ancora nel suo stato di imperfezione che gli impedisce di essere ciò che dovrebbe essere.
Leggendo la Sacra Scrittura, noi possiamo constatare come queste idee ci fossero anche nel Popolo ebreo, prima della venuta di Cristo.
Il complicato cerimoniale del culto israelitico tendeva ad impedire che comparissero davanti a Jahwè gli impuri, anche se si trattava di impurità legali.
Il terrore di vedere Dio ( Es 20,18-19), tanto comune nel popolo, scaturiva dalla viva coscienza di indegnità e impreparazione.
Il profeta Isaia parla dell’impossibilità in cui si trovano coloro che non sono totalmente puri di passare alla Gerusalemme scatologica ( Is 35,8; 52,1).
Diversi passi, poi, del Nuovo Testamento ratificano questa esigenza di totale purezza per partecipare alla vita eterna.
“ Beati i puri di cuore perché essi vedranno Dio” ( Mt 5,8).
L’espressione “puri di cuore” si rifà al senso figurato di “cuore” nella cultura ebraica.
Il cuore indica l’interiorità dell’uomo, sede del pensiero, della volontà, delle funzioni intellettive e per questo viene spesso tradotto con mente.
La purezza di cuore si situa pertanto nella sfera più intima della persona, la coscienza, conosciuta soltanto da Dio, là dove nascono le intenzioni e i progetti che delineano il comportamento dell’uomo
Nella cultura occidentale, la “purezza di cuore” viene espressa nell’immagine della coscienza pulita che rende un uomo limpido e trasparente nei rapporti con Dio e con il prossimo15.
Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” ( Mt 5,48).
Nulla d’impuro entrerà in essa ( nella Nuova Gerusalemme) (Ap 21,27)…
ll secondo punto è quello della responsabilità umana nel processo di giustificazione che implica la necessità di una partecipazione personale alla riconciliazione con Dio e l’accettazione delle conseguenze penali che derivano dai propri peccati.
In 2Sam 12 si ha un caso tipico di separabilità tra la colpa e la pena: il perdono di Dio, non esime Davide dal subire il castigo per il suo peccato.
Questo doppio insegnamento sulla purezza integrale per “vedere” il Signore e sulla responsabilità dell’uomo rispetto alle sue azioni, rivela la possibilità che un giusto muoia senza aver raggiunto il grado di maturità spirituale richiesta per vivere nella comunione immediata con Dio.
Il che comporterebbe di conseguenza, un supplemento di purificazione ultraterrena.
L’uomo, usando la sua libertà, non è solo capace di scegliere il positivo o il negativo in sommo grado, senza riserve, senza resistenze, ma è anche capace di consegnarsi a Dio, mantenendo qualche angolo della sua anima per sé, senza tirare tutte le conseguenze di una revisione di vita.
Senza impegnare tutta la volontà nel rispondere alla chiamata di grazia, concedendosi ancora in parte, alle propensioni cattive.
Si tratta di un rinnovarsi, ma non lasciando che Dio ci chieda tutto.
Un liberarsi dal male, ma desiderandolo ancora un poco…
Un decidersi per Dio, ma quasi chiedendo a Dio che non ci prenda sulla parola e interamente.
Uno scegliere la luce, ma con il persistere di un morboso fascino del chiaroscuro.
Sono situazioni che comprendiamo benissimo, perché le sperimentiamo ogni giorno.
La fede chiama queste piccole vigliaccherie, peccati veniali : come la mancanza di vigore nella carità; il dare tutto, tranne qualcosa; il salire sulla Croce, ma con una mano o con un piede solo.
Dio verso questa “persona”, che rappresenta ciascuno di noi, usa misericordia, cioè inventa la possibilità di una riparazione anche oltre i limiti scaduti16.
In realtà il Purgatorio è voluto dall’Amore di Dio che desidera purificare l’uomo per renderlo degno di partecipare alla sua gioia e dall’amore che l’uomo ha per Dio.
E’ la nostra riflessione razionale sull’esperienza umana, che ci fa prendere coscienza della possibilità dell’esistenza “necessaria” di uno stato di purificazione ( = il Purgatorio) prima di poter essere ammessi alla “piena comunione con Dio.
Perché Dio-Trinità è santità e purezza infinita e di conseguenza, soltanto un essere santo e puro può essere ammesso a vedere Dio, a entrare in intimità profonda con Lui, simile a quella che il figlio ha con il padre.
Per essere ammessi, allora, alla visione beatifica di Dio Uno e Trino, la persona umana che muore e si “presenta davanti a Dio” deve essere perfettamente pura, cioè libera da ogni forma di amor proprio e di egoismo, da ogni cattiva inclinazione e tendenza al male, da ogni attaccamento disordinato alle creature e da ogni macchia di peccato.
Ora, la persona umana, anche se muore nella grazia di Dio (senza alcuna colpa grave nella sua coscienza) nella fede, nella speranza e nella carità e quindi nella comunione con Cristo e nell’amore del Padre, porta con sé ancora residui e macchie che il “peccato” ha lasciato in essa, anche quando è stato perdonato mediante il sacramento della penitenza.
In realtà, ogni uomo e quindi anche il cristiano che vive abitualmente nella grazia di Dio, commette nella sua vita molti peccati veniali, che – come ho specificato sopra -hanno la loro sorgente nell’egoismo, cioè nella ricerca di sé, dei propri comodi, dei propri interessi; nella pigrizia nel compimento perfetto dei propri doveri; nella vanità e nel desiderio di apparire, di dominare, di primeggiare; nell’incapacità di amare gli altri e di porsi al loro servizio; nell’orgoglio e nella durezza di cuore nel giudicare gli altri; nella mancanza di comprensione e di compassione per le loro sofferenze e i loro bisogni; nell’attaccamento smodato ai beni della terra e ai piaceri e alle gioie che essi ci procurano e nell’incapacità di rinunciarvi, anche quando la rinuncia è necessaria per l’amore ed il servizio di Dio e per il bene degli altri; nella tiepidezza abituale con cui si vive la vita cristiana le cui pratiche sono compiute senza slancio e senza impegno, più per abitudine e per convenienza che per vero e profondo amore al Signore.
Certamente un atto di amore perfetto potrebbe cancellare il tutto.
Ma, chi è capace di un tale atto se non chi nella vita è vissuto nella carità, cioè nel dono costante e totale di se stesso a Dio e ai fratelli, nella sofferenza accettata eroicamente, nel sacrificio di se stesso spinto fino al martirio ?
Da qui la necessità che la persona umana che muore, prima di essere ammessa alla visione di Dio, sia sottoposta ad una purificazione intensa e profonda, ad uno stato di purificazione17, cioè il Purgatorio18, anche se non conosciamo esattamente come questa purificazione avvenga.
Nella luce della santità divina riusciremo a “comprenderci” come coloro che, ancora, non hanno l’identità di “figli di Dio” anche se abbiamo cercato di essere delle persone che hanno creduto, sperato ed amato, alle quali la colpa è stata perdonata
Allora, l’incontro con Dio nella morte, l’essere posti di fronte al suo giudizio, sarà come un fuoco ardente, che ci toccherà così dolorosamente che l’incontro stesso con Dio, sarà il purgatorio, cioè quel momento di purificazione dell’ “uomo incompiuto” e che, pur essendo stato creato ad immagine e somiglianza di Dio, non ha ancora raggiunto la maturità dell’amore con il Dio santo, infinito e misericordioso.
Tale incontro sarà un incontro purificatore.
La pena del Purgatorio consiste nella dilazione della visione divina, ma avvertendo che l’amore, che si vede ritardato il possesso della persona amata (Dio Uno e Trino) soffre e molto e, soffrendo, si purifica.
La pena principale del Purgatorio che è uno stato di santità, è dunque la purificazione dell’amore che matura per diventare degno del possesso divino.
L’altra pena (o sofferenza purificatrice) che la persona morta in grazia di Dio, cioè senza alcun peccato mortale sulla coscienza, può provare in questo stato di purificazione, cioè di Purgatorio, può essere quella di “vedere”, alla luce di Dio, l’ evidenza dei torti, delle pigrizie, delle infedeltà, delle ostinazioni, degli errori commessi durante la vita terrena.
Quanto di vano è stato detto, fatto, pensato, le viltà anche piccole perpetrate o tollerate, perché tutte queste situazioni vissute durante il tempo della vita terrena, saranno per noi sorgente di dolore tanto più cocente quanto più ci saremo affinati spiritualmente19, comprendendo come Dio-Amore e misericordia sia tutto per noi, figli suoi amatissimi.
Solo Dio che è Padre-Amore e Misericordia conosce come questa purificazione avvenga.
Per noi, invece, “la grossa inquietudine della nostra vita sarà di capire chi siamo e cosa abbiamo fatto del tempo che Dio ci ha dato”.
Non è oggetto di fede cattolica:
-che il purgatorio sia un luogo, collocato in qualche parte, tra l’inferno e il Paradiso, come immagina Dante nella Divina Commedia.
-Né che la purificazione avvenga attraverso il “fuoco” o altro agente, anche se i Padri della Chiesa e alcuni grandi teologi, come S. Tommaso D’Aquino, lo hanno pensato.
-Né possiamo dire nulla circa la “durata” dello stato di purificazione, dal momento che con la morte cessa l’unità di misura “tempo” che, rispetto all’azione che il soggetto fa o subisce è composto da tanti prima, durante e dopo.
Infatti, noi non riusciamo a capire, né ad esprimere con parole, che si riferiscono sempre alle categorie dello spazio (“dove”) e del tempo (“quando”) e come sia possibile un “periodo di attesa” per purificarsi, prima di poter entrare in Paradiso, dal momento che l’eternità non contiene “un prima ed un dopo”, ma è l’ “eterno presente”.
Suffragi per i defunti : indulgenze, preghiera e meditazione.
In occasione dei Giubilei si parla molto delle indulgenze e del fatto che l’indulgenza giubilare si può applicare anche ai defunti ancora in stato di purificazione.
Il tema del Purgatorio, in occasione dei Giubilei, sembra diventare di attualità.
Non sappiamo, però, con quale modalità i suffragi dei cristiani viventi possano aiutare i defunti a purificarsi dai residui e dalle macchie che i peccati hanno lasciato in loro.
Sappiamo, soltanto, che Dio, nella sua infinita misericordia, si serve delle opere buone dei vivi per aiutare i defunti.
Infatti, tutti i battezzati, formano un solo corpo in Cristo, chiamato il “Corpo mistico di Cristo”.
In virtù di questa “comunione dei santi”, composta dalle persone ancora in vita, su questa terra, che formano la Chiesa militante e dalle persone defunte che formano la Chiesa trionfante - i beati che già godono della visione beatifica di Dio - e la Chiesa purgante - i giusti in stato di purificazione - dal momento che tutti siamo uniti a Cristo, come il tralcio alla vite, possiamo aiutarci gli uni e gli altri, con la preghiera e la celebrazione eucaristica.
L’uomo che incontra Dio nella morte è accompagnato dalla preghiera d’intercessione della chiesa, che lo sostiene proprio nel momento in cui egli non è più in grado di dare a se stesso alcun appoggio.
Una preghiera che gli assicura di non sentirsi perduto di fronte a Dio, perché Gesù, con la sua passione, morte e risurrezione, ha dato soddisfazione per i peccati di tutti gli uomini e vuole che ciascuno sia accolto, assieme a lui, nella sua comunione con Dio.
La preghiera di intercessione della chiesa, mette in risalto, anche, come Dio sia il “Dio degli uomini”, per redimere i quali, spinto da un amore infinito per la sua creatura, non ha risparmiato il suo Unigenito Figlio.
La preghiera ci ricorda che non possiamo salvarci senza gli altri, perché Cristo ci ha uniti a sé gli uni e gli altri.
L’incontro dell’uomo con Dio, alla sua morte, non è dunque un evento privato, ma un evento che si svolge nella chiesa, nell’ambito del corpo mistico di Cristo, sostenuto dall’intercessione dei credenti e dei santi e che si manifesta nella preghiera e nella speranza.
La preghiera è un’esperienza antropologica generale.
L’orazione e l’invocazione al pari della ritualità fanno parte del patrimonio storico-esistenziale dell’uomo.
E’ facile vedere che tali manifestazioni sono connesse con l’immagine complessiva del cosmo e della vita, in particolare con la sua fede in esseri superiori, dai quali in vari modo dipende.
Anche le persone che si dichiarano non credenti qualche volta pregano.
Come l’uomo ha bisogno di immaginarsi una “realtà ultima e prima” che ne racchiuda l’orizzonte, così spontaneamente cerca un cammino per raggiungerla in qualche modo.
Il cammino dell’uomo verso la Realtà ultima e prima, il suo rapporto con Dio o l’Assoluto, si esprimono nelle religioni in due grandi forme: la preghiera e la meditazione.
La preghiera domina, come effusione e colloquio, nelle religioni monoteistiche dove ci si rivolge ad un Dio personale, ma ricorre anche nell’ambito delle religioni cosmiche, dove la Realtà ultima non ha tratti personali: sia perché l’anima religiosa spontaneamente si rivolge al Mistero come ad un tu, sia perché tali religioni producono un pantheon di figure divine, ciascuna delle quali riflette un aspetto o una funzione della Realtà suprema20.
Nel Cristianesimo, la preghiera è l’atteggiamento spontaneo dei figli di Dio che si intrattengono affettuosamente con il Padre celeste.
Quando pregate – dice Gesù – non fate come gli ipocriti che amano mettersi in piedi nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze per essere veduti dagli uomini… quando preghi entra nella tua stanza e, chiusa la porta, prega il Padre tuo di nascosto, e il Padre tuo che vede di nascosto ti darà ciò che chiedi” [ Mt 6,5-6] .
Nell’insegnamento di Gesù e degli Apostoli la preghiera, presenza affettuosa dell’uomo a Dio Padre, è una componente essenziale dell’essere cristiano.
Dato il carattere vitale, la preghiera cristiana deve essere breve, spontanea, personale [cfr. Mt 6,7-8]; deve essere nello Spirito [Gv 4,23-24], filiale, fiduciosa, senza ostentazione, come nel “Padre nostro” [ Mt 6, 7-13]
Si deve pregare nel nome di Gesù, il che significa in unione con lui, in modo che lui stesso e lo Spirito pregano in noi [Gv 14,13; Rm 8,26] .
La preghiera è frutto dello Spirito Santo che parla a Dio dal cuore degli uomini “con gemiti indicibili” [cfr. Rm 8,26 ]21.
Anche la preghiera per i morti, dunque, ha un senso perché attraverso essa, le persone defunte, ma unite a Cristo, come lo sono i vivi, non vengono escluse dalla solidarietà dei credenti.
Essa è una forma, anzi una proclamazione dell’amore e della solidarietà davanti a Dio.
Infatti, proprio in virtù della “comunione dei santi” quando, nella morte, il defunto incontra Dio, non lo incontra come individuo isolato, ma come membro della chiesa, come fratello e sorella in Cristo con tutti gli altri.
Ma, la solidarietà della preghiera per i morti sarebbe falsa e priva di conseguenza, se intervenisse solo dopo la morte, assumendo una specie di “funzione riparatrice”, un valore di risarcimento per l’amore negato o tralasciato nel tempo della vita.
La preghiera comunitaria per i defunti è veritiera solo come conseguenza della comunità e della solidarietà, vissute ora nella fede, nell’amore e nella speranza comune.
Per quanto tempo si deve pregare per i defunti?
Non è possibile dare una risposta a questa domanda, perché tempo ed eternità sono due categorie diverse che noi non possiamo misurare.
Si potrebbe dire che, invece di pregare per determinati defunti, ritenendo che, forse, potrebbero averne bisogno, potremmo rivolgere le nostre preghiere ai defunti, e pregare con i defunti cioè con i fratelli e le sorelle che vivono in Dio per chiedere, come Gesù ci ha insegnato, nella preghiera del Padre nostro che “ sia santificato il nome di Dio sulla terra, che sia fatta la sua volontà, come in cielo così in terra, che venga il suo Regno nel cuore di ogni uomo”.
La posizione delle chiese ortodosse sul Purgatorio22.
Per gli ortodossi, il Purgatorio non è un dogma, dal momento che i dogmi possono essere definiti solo da un Concilio ecumenico e l’ultimo Concilio ecumenico per gli ortodossi è stato il II Concilio di Nicea [ 787 ] .
Si tratta di una questione discussa e discutibile tra le varie chiese e i vari teologi, senza che l’ortodossia abbia, sul Purgatorio, una visione comune23.
Tuttavia, le definizioni conciliari sul Purgatorio non sono una novità apparsa nel Medioevo, ma la definizione dogmatica di insegnamenti patristici e di prassi liturgiche che rimontano ai primi secoli cristiani.
Gli ortodossi non ammettono l’esistenza di un Purgatorio, cioè di uno stato di purificazione che si attua mediante “pene purgatorie”, pur ammettendo che i defunti nell’Ade possono giovarsi delle preghiere dei fedeli viventi e in modo particolare della celebrazione dell’Eucaristia.
Il giovamento che ne ricevono non consiste nel fatto che le loro pene sono alleviate o diminuite, ma nel fatto che si prega Dio per loro, affinché essi abbiano pace e refrigerio e siano preservati dalla dannazione eterna nel giudizio finale.
Secondo le chiese ortodosse, le anime dei fedeli defunti, dopo la morte, si trovano in uno stato intermedio.
Fatta eccezione per i martiri ed i santi, che sono ammessi subito in Paradiso, le anime degli altri defunti dimorano nell’Ade, in attesa del giudizio finale che segnerà il loro destino eterno, nell’Inferno o nel Paradiso.
L’Ade è diviso in due parti :
La prima è il Paradiso terrestre, da cui fu cacciato Adamo e che Gesù dalla Croce promise al ladrone pentito.
Esso è il “seno di Abramo”, luogo di luce e di consolazione e di pace per i defunti giusti, morti nella fede, ma non è il Paradiso propriamente detto.
L’altra parte dell’Ade è l’ “abisso”, il “luogo delle tenebre esteriori”, il carcere infernale, ma non è l’inferno.
Così le anime rinchiuse nell’Ade, nell’attesa del giudizio finale, provano un anticipo della loro sorte futura: per i giusti la felicità eterna, per i peccatori la dannazione eterna.
In questo stato intermedio, le anime che sono partite da questa vita senza aver fatto penitenza delle loro colpe possono ottenere illuminazione, refrigerio ed anche la completa liberazione dalle loro pene, unicamente per la misericordia di Dio e non perché sono purificate con le pene da esse sofferte.
A questa misericordia i fedeli viventi fanno appello nella loro preghiera per i morti e fa appello la Chiesa nella celebrazione dell’Eucaristia, chiedendo che Dio le strappi da ogni pena e da tutti i tormenti dell’Ade, che dia loro riposo eterno nel seno di Abramo, nel luogo del refrigerio, dove non c’è più dolore e gemito.
La Chiesa prega, anche, perché i dormienti possano incontrarsi in letizia con Cristo, quando verrà “a giudicare i vivi ed i morti” e possano essere preservati dal fuoco della Geenna.
La posizione protestante sul Purgatorio.
E’ molto diversa da quella delle chiese ortodosse e della Chiesa cattolica.
Soltanto nel 1530, M. Lutero in una lettera a Zelantone e poi negli articoli di Smalcalda [1537-38] affermò che il Purgatorio e tutte le solennità che vi si riferiscono sono “una mera maschera del diavolo
Costituiscono “una contraddizione solenne con il primo articolo, il quale insegna che la liberazione delle anime è soltanto in Cristo e non nelle opere degli uomini.
Inoltre circa i morti niente ci è stato comandato da Dio.
Quindi tutte queste pratiche, anche se non si mescolasse in esse nulla di erroneo, o di idolatrico, potrebbero essere omesse”24.
Lutero parla del Purgatorio in senso ironico, prendendosi gioco del Papa che, secondo lui, per denaro vende le messe, le vigilie e le indulgenze in favore delle anime del Purgatorio che egli non conosce25.
Calvino, invece, si oppose a coloro che, per amore di pace, avrebbero voluto tacere sul Purgatorio.
Bisogna, invece, gridare a voce alta che il Purgatorio è una finzione perniciosa di Satana, la quale fa una vergogna molto grande alla misericordia di Dio, rende vana la croce di Cristo, dissipa e sovverte la nostra fede […].
Ora se da ciò che abbiamo detto prima, è più che manifesto che il sangue di Cristo è la sola purificazione, oblazione e soddisfazione per i peccati dei fedeli, che resta di più, se non che il purgatorio sia una pura e orribile bestemmia contro Gesù Cristo”?26.
La gioia della vita eterna con il Signore e l’umile preghiera di ogni credente di essere salvato, è stata espressa da un poeta in questo modo:
Restami accanto, Signore, quando il cuore domanderà, confidando, se, nell’attimo bianco della fine del pianto, tu gli sarai fratello:
Se il manto sereno del tuo amore l’avvolgerà nell’ultimo tremore del suo inverno.
Guidami, Signore, nel profondo, perché a dir l’ultima sillaba non sia satana :
e non mi sfilacci la mente e non mi costringa a rimpiangere il sole polveroso
della vita.

 

NOTE
1 Papa Francesco, Misericordiae Vultus, n. 15
2 Papa Francesco, Misericordiae Vultus, n.17
3 Josè Maria Castillo, L’Umanità di Dio, Edizioni la Meridiana, Molfetta (BA)2014.
4 Papa Francesco, Misericordiae Vultus, n.19.
5 José Maria Castillo, Vittime del peccato; Fazi Editore, Roma 2012
6 Con la localizzazione delle “pene purificatrici“ ( poene purgatoriae), l’aggettivo “purgatorius” diventa il sostantivo Purgatorium (Purgatorio), cioè il luogo in cui avviene la purificazione mediante il “fuoco purificatore
7 Nei Concili di Lione (II) e di Firenze, la Chiesa insegnò che le anime in stato di purificazione potevano giovarsi dei suffragi dei defunti.
Nel 1343 Clemente VI nella Bolla “Unigenitus Dei Filius” formulò per la prima volta la dottrina dell’indulgenza (Cfr. Denz-Schönm., 1025-1027) che poi nel 1476, Sisto IV estese anche ai defunti in stato di purificazione, “come suffragio” (Cfr. Denz-Schönm.,1398).
La dottrina cattolica sul Purgatorio, insegnata definitivamente dal Concilio di Trento venne respinta, in seguito, dalla Chiese Ortodosse e dai Protestanti luterani e calvinisti
8 Nel sec. XII si sviluppò il Purgatorio “immaginario” che attraversando i secoli giunse fino a noi.
Per tutto quel secolo si susseguirono “viaggi immaginari” nell’aldilà, di persone vive, che in sogno lasciavano il corpo per visitare l’aldilà, facendo nuovamente ritorno sulla terra.
Si narrarono storie di apparizioni di defunti mentre subivano le”pene purgatorie” e che chiedevano suffragi ai vivi per essere liberate, oppure li invitavano a cambiare vita e ad emendarsi per evitare di subire anch’essi le stesse pene.
J. Le Goff, nel suo volume, La nascita del Purgatorio,Torino, Einaudi 1982, riporta quattro racconti di viaggi nell’aldilà, di cui il più famoso è il quarto, “Il Purgatorio di San Patrizio”.
Questi viaggi immaginari compiuti in sogno ebbero una vasta diffusione e contribuirono a fissare i caratteri “popolari” del Purgatorio e la sua “geografia” .
La purificazione delle anime si compie in un luogo sottoterra che sta tra l’Inferno e il Paradiso, a poca distanza dall’Inferno e avviene mediante il fuoco.
Questa idea del fuoco era comune anche ai Padri della Chiesa ( S. Agostino e S. Gregorio Magno) come ai teologi scolastici in base all’interpretazione di un testo della prima lettera di S. Paolo ai Corinzi, in cui si dice che la solidarietà dell’opera apostolica sarà provata “col fuoco” ( Cfr. 1Cor 3,12-25).
Tuttavia, la fantasia popolare fece di questo fuoco purificatore un fuoco quasi infernale ed immaginò il Purgatorio un luogo in cui si soffrivano i più orribili tormenti, causati dalla presenza dei demoni, facendo del Purgatorio una specie di Inferno “temporaneo”.
9 Cfr. C. Spicq, “Purgatoire”, in Dictionnaire de la Bible, Supplément, IX, 555-565
10 Cfr. H. Leclerq, “Défunts ». in Dictionnaire d’Archéologie chrétienne et de Liturgie IV, 447 s.
11 Nei documenti della Chiesa che definiscono la dottrina cattolica non si parla di Purgatorio, ma di “pene purgatorie”.
Così nei due Concili ecumenici di Lione (1274) e di Firenze (1439).
Nel primo si dice che “ le anime di coloro che sono morti pentiti e in grazia di Dio, prima di aver soddisfatto con degni frutti di penitenza i peccati commessi e le omissioni, sono purificate dopo la morte con pene purificatrici e che a “sollevarle da tali pene giovano loro i suffragi dei fedeli viventi”( Cfr. Denz-Schönm, 856)
Nel secondo si ripetono le stesse parole, senza che si nomini il purgatorio ( cfr. Denz-Schönm 1304).
Soltanto nel Concilio di Trento si usa il termine “Purgatorio”: per la prima volta nel canone 30 della VI Sessione (1547) in cui si lancia l’anatema contro chi dice che “ dopo aver ricevuto la grazia della giustificazione, al peccatore pentito è cancellata la colpa e il reato della pena eterna, in tal modo che non resti nessun reato di pena temporale, da scontarsi sia in questo mondo, sia nel futuro in Purgatorio, prima che possa accedere al regno dei cieli” (Cfr. Denz-Schönm, 1580).
Una seconda volta, il termine Purgatorio è usato nel “Decreto pastorale sul Purgatorio” ( 3 dicembre 1593). Dopo aver brevemente ricordato la dottrina cattolica sul Purgatorio, rispondendo in tal modo ai Protestanti che rigettavano tale dottrina, comanda ai vescovi che “la sana dottrina del Purgatorio, tramandata dai santi Padri e dai sacri Concili, sia creduta dai fedeli e sia insegnata e predicata diligentemente”, ordinando che dalle predicazioni siano escluse le questioni più difficili e sottili; proibendo quanto è di scandalo per i fedeli, tutto ciò che sa di curiosità, di superstizione e di turpe guadagno ( Cfr. Denz-Schönm, 1820).
 
12 C.Pozo,Teologia dell’al di là, Ed Paoline, Roma 1972, 324.
13 A.Rudoni, Escatologia, Marietti, Torino 1972,183 s.
14 G. Biffi, Linee di escatologia cristiana, Jaca Book, Milano 1984,101.
15 P. Alberto Maggi, Padre dei poveri, 1 Le Beatitudini, Cittadella Editrice, Assisi, 2004 ( 3a Ed) p. 123
16 SD. Maggiolini, I Novissimi, Piemme,Casale Monferrato ( AL) 1989,46-48.
17 Come avvenga questo stato di purificazione non lo sappiamo. Il II Concilio di Lione e quello di Firenze parlano di “pene purificatrici” che i suffragi dei fedeli viventi possono alleviare, ma non dicono in che cosa consistano tali “pene”. Il Concilio Vaticano II dice soltanto che alcuni fedeli defunti stanno purificandosi e che la Chiesa offre “per loro, suffragi” ( Lumen Gentium, nn. 49-50).
18 Cfr. La Civiltà Cattolica 2000 II 352-365; quaderno 3598 ( 20 maggio 2000).
19 G. Biffi,Linee di escatologia cristiana, cit.,107.
20 Cfr. Pietro Rossano, I perché dell’uomo e le risposte delle grandi Religioni, Ed. Paoline 1988, p. 105.
21 Cfr. Pietro Rossano, op. cit. p.118.
22 Cfr. Denz-Schönm., 1304 -1306;1580;1820. [Cfr. La Civiltà Cattolica 2000 II 352-365; quaderno 3598 ( 20 maggio 2000)].
23 Cfr. La Civiltà Cattolica 2000 II, p. 361; quaderno 3598 (20 maggio 2000)
24 De Missa, p. II, a. 2
25 De Paenitentia, p. III, a.3
26 G. Calvino, Institution de la religion chrétienne, III, 5, 6.



Venerdì 05 Febbraio,2016 Ore: 15:12
 
 
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