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www.ildialogo.org Le Indulgenze e la Riforma Protestante,di Perin Nadir Giuseppe

Giubileo(3)
Le Indulgenze e la Riforma Protestante

Il peccato, cos'è e chi può perdonare i peccati ?


di Perin Nadir Giuseppe

Le Indulgenze e la Riforma Protestante
Nel corso della storia della Chiesa, la concessione delle indulgenze è stata motivo di scandalo e di abusi da parte di chi ( il Papa) aveva il potere di concederle.
La Riforma Protestante è nata con la questione delle indulgenze, il cui commercio era già diffuso in tutta Europa occidentale.
Nel 1517 Papa Leone X promulgò un’indulgenza plenaria, cioè un riscatto della totalità delle pene temporali per tutti coloro che invece di recarsi in pellegrinaggio a Roma, avessero versato un obolo per la costruzione della Basilica di S. Pietro.
Interpretando questa iniziativa come un ennesimo abuso della Chiesa romana, Lutero protestò, dando così inizio alla riforma protestante, affermando che le opere, le azioni, i meriti personali non sono sufficienti per salvarsi.
La mancanza di fede in Dio o di coscienza personale del proprio limite, non può essere sostituita dall’attivismo con cui si vuole dimostrare a tutti i costi di essere santi, buoni e perfetti.
Lutero affermava che le indulgenze, così come i pellegrinaggi, i digiuni, i voti di castità, di povertà e di obbedienza, non servono a giustificare.
Per salvarsi occorrono due cose: la volontà di Dio e la fede dell’uomo.
L’uomo si giustifica per la fede e per la grazia.
Può fare delle buone azioni, ma a titolo personale e non perché obbligato da qualche legge o consuetudine.
Per Lutero, se le opere non servono a niente, in quanto basta la fede nella grazia di Dio e per conoscere questa grazia è sufficiente leggere la Bibbia.
I sacramenti hanno un valore simbolico, la tradizione della Chiesa ha un valore orientativo, il magistero ha un valore pratico.
Nessuno dei tre ha un valore salvifico.
Non c’è nulla che possa avere un potere vincolante per la coscienza del credente che è solo davanti a Dio, incerto sul suo destino. Se si salverà è perché era predestinato.

 
IL “PECCATO”: significato del termine
Che il “peccato” esista, nessuno lo mette in dubbio.
Ma il termine peccato viene usato con un grande numero di significati.
Per es. noi diciamo che una “giornata piovosa” è un peccato, oppure quando rompiamo un oggetto a noi caro o che ci serve ( come un piatto).
Usiamo la parola “peccato” per dare più peso a ciò che abbiamo detto o sentito “ è proprio un peccato!”
Questa inflazione di “peccato” e di “peccati” fa correre il rischio di perdere il vero significato del termine, perché quanto tutto è peccato, niente è peccato!
A)Nei libri dell’antico testamento non c’è nessuna parola che significhi “peccato” nel senso teologico in cui oggi lo s’intende.
I termini che si trovano nella Bibbia corrispondono a: INFEDELTA’ ( intesa come rottura di un patto); INIQUITA’, DEVIAZIONE, RIBELLIONE ( tutti intesi come infrazioni di un ordine sociale e religioso).
Una volta all’anno, il decimo giorno del settimo mese, chiamato il giorno dell’espiazione (ebr. Yom Kippur) – ancora oggi celebrato dagli Ebrei come il massimo giorno di penitenza e di severo digiuno – avveniva il perdono dei peccati.
Il sacerdote caricava tutte le colpe del popolo sulla testa di un capro – il capro espiatorio – che poi veniva spinto verso il deserto per portare al demonio AZAZEL le colpe del popolo ( cfr. Lv 16,10.22)
Poi con il fariseismo – corrente spirituale contemporanea a Gesù – si ebbe un’esasperazione del concetto di peccato.
I farisei, piissimi osservanti non solo dei comandamenti, ma anche di tutte le prescrizioni della Legge, stabilirono con una scrupolosa attenzione, in ben 613 precetti dati da Mosè (di cui 365 proibizioni e 248 obbligazioni), tutto quello che bisogna osservare, in modo particolare le norme riguardanti la purezza, l’osservanza del riposo in giorno di sabato e tutti i numerosi tabù riguardanti ogni aspetto della sfera sessuale.
Purtroppo, si deve a questo periodo e a questo movimento farisaico la nascita di alcuni concetti che s’infiltreranno, anche nella spiritualità cristiana, inquinandola.
Come l’immagine del Dio-contabile.
Un Dio-vendicativo che con estrema pignoleria, scrive tutte le azioni dell’uomo in un libro per poi enumerargliele al momento del giudizio.
L’idea del Dio che già durante l’esistenza degli uomini, ricompensa i buoni secondo i loro meriti e punisce i malvagi per le loro colpe.
A questo principio si riferisce il detto rabbinico “ non c’è sofferenza senza peccato!” (Shab.55a).
Così, quando un ebreo incontrava un malato, benediceva il “Signore veritiero” che aveva punito il peccatore con quella malattia e come insegna il Talmud, “alla vista di un cieco, di un monco, di uno storpio, diceva : Benedetto sia il giudice di Verità” (Ber. 58b).
Poi, i farisei, quando si resero conto che i malanni, le disgrazie, non colpivano solo i cattivi, ma anche i buoni, elaborarono la dottrina dell’espiazione vicaria (= il principio che quando Dio manda una punizione per i peccati degli uomini, essa cade prima sui buoni).
Si legge, infatti nel Talmud : “Quando in una generazione vi sono dei giusti, i giusti sono puniti per i peccati di quella generazione; se non vi sono dei giusti, allora i bambini che vanno a scuola soffrono per il male del tempo” ( Shab.33b).
Aperta questa breccia, ogni interpretazione per spiegare il male che colpisce l’umanità diventa valida.
Dalle più spietate, tipo : “ chiunque presenta i sintomi della peste, deve considerarsi nient’altro che un altare di espiazione” ( Ber. 5a; Test. Gad. V,10.11), alle più umoristiche, come quando si giunse a credere che i disturbi intestinali conducevano ad una purificazione morale oltre che fisica.
Gli antichi pii, generalmente venivano colpiti dal mal di visceri circa 20 giorni prima di morire, per purificarli completamente, si che potessero giungere in stato di purezza nell’al di là” ( Semachotg III,10).
B) Nel Nuovo Testamento gli evangelisti si distaccano in maniera abbastanza netta sia dal senso di colpa dell’A.T. e da quello che contemporanei di Gesù, ritenevano fosse il peccato, cioè un’offesa contro Dio.
Per cogliere il significato di “peccato”, come lo intendevano gli evangelisti, bisogna esaminare i termini che essi hanno usato per indicarlo.
Il primo aspetto che colpisce nei vangeli è la piccola parte che vi hanno le considerazioni sul peccato e sulla sua natura.
Questo probabilmente perché Gesù, pur riconoscendone la realtà del peccato, non ha parlato del peccato.
Delle tante parole con cui la lingua greca, in uso all’epoca della stesura dei Vangeli, poteva indicare il termine peccato nelle sue varie sfumature, gli evangelisti, escludono dai loro scritti la parola INIQUITA’ ( l’azione di colui che agisce contro la Legge).
Questo è alquanto sorprendente se si considera che in quell’epoca, il peccato era considerato quasi esclusivamente come una trasgressione della Legge.
Nei vangeli, Il termine “iniquità” si trova presente solo 4 volte e tutte in Matteo, ed è applicato da Gesù : ai falsi profeti, agli scribi e ai farisei ipocriti (Mt 7,23; 13,41; 23,28;24,12).
Dal linguaggio degli evangelisti è ugualmente esclusa la parola DISUBBIEDIENZA ( intesa come trasgressione di un comandamento).
Per gli evangelisti : iniquità e disubbedienza non sono i significati principali del peccato, come lo erano per i Giudei: la Legge non è al centro della fede cristiana, come scrive Paolo nella lettera ai Romani : Voi non state ormai più sotto la Legge, ma sotto la grazia” ( Rm 6,14).
La norma di vita di un cristiano, non ha più la sua radice nella fedeltà ad un codice scritto, ma alla persona di Gesù, Figlio di Dio.
Il credente non è chiamato all’ubbidienza ad una Legge, ma alla somiglianza al Padre.
S. Tommaso, commentando il testo di S. Paolo : “la lettera uccide, ma lo Spirito dà la vita! ( 2Cor 3,6) afferma che “per lettera si deve intendere ogni legge esterna all’uomo, precetti della morale evangelica compresi, che possono uccidere se non esistesse nell’intimo la grazia sanante della fede” ( I 2a q. 106 art 2).
Dal linguaggio degli evangelisti è assente anche l’idea di peccato come mancanza ad un dovere e pure l’idea di peccato involontario.
A questo punto cosa rimane ?
Restano solo tre termini che gli evangelisti usano per indicare la realtà del peccato.
-HAMARTIA ( = mancare il bersaglio/ sbagliare direzione) e nei vangeli riguarda sempre il passato dell’uomo, prima del suo incontro con Gesù e con il suo messaggio.
E’ usato per indicare una vita contraria al progetto che Dio propone.
Un rifiuto del dono di vita che il Padre fa.
Una vita ingiusta e deviante.
Questo peccato può essere cancellato mediante la conversione e l’adesione a Gesù ( attraverso la fede).
Avere fede in Gesù, significa “accoglierlo” nella propria vita e di conseguenza “accogliere anche il suo messaggio”.
Questa decisione di “accogliere” sia Gesù che il suo messaggio, cancella il passato peccatore dell’uomo.
Gesù, vista la loro fede, disse al paralitico: Figliolo ti sono cancellati i tuoi peccati”( Mc 2,5).
-AZIONE INGIUSTA (disonestà) e CADUTA (mancanza) che riguardano il presente dell’uomo dopo l’incontro con Gesù e sono usati per indicare le mancanze commesse nei confronti delle persone, del prossimo1.
Queste colpe vengono cancellate, perdonando le mancanze altrui secondo l’insegnamento di Gesù : “Se, voi, infatti, perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi” ( Mt 6,14).
Gli evangelisti indicano il peccato (ciò che incrina o può far rompere il rapporto con Dio) esclusivamente come atteggiamento ingiusto e dannoso verso il prossimo, una rottura della relazione con gli altri uomini e mai verso Dio.
Nei Vangeli non vengono prese in considerazione le mancanze cultuali o rituali, ma esclusivamente atteggiamenti che possono portare danno all’altro.
Infatti, è condannato l’adirarsi contro il proprio fratello e la riconciliazione diviene più importante dell’atto cultuale.
E’ condannato criticare e giudicare e tutta la Legge viene condensata non in atti cultuali, ma in quello che si fa agli altri.
Tutte le cose, dunque, che voi volete che gli uomini vi facciano, fatele anche voi a loro; perché questa è la Legge e i profeti” ( (Mt 7,12).
Gesù insiste sulla preminenza della misericordia verso gli uomini e non sul sacrificio a Dio.
Il bene e la felicità degli uomini prevalgono sulla osservanza della Legge.
Gesù sostiene con forza che ciò che rende impuro l’uomo e che pertanto rompe il contatto con Dio, sono gli atteggiamenti ingiusti verso il prossimo: “cattivi pensieri,, prostituzioni, furti, omicidi, adulteri, cupidigie, malvagità, frode, lascivia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza” (Mc 7,21-22) e non la trasgressione di determinati riti o la non osservanza di precetti religiosi.
Il Signore dichiara “ i precettidi provenienza umana”, invenzione degli uomini ( Mc 7,7.8.13) e non di provenienza divina, come scribi e farisei volevano far credere.
Essenziali per ottenere la vita eterna si indicano solo quei comandamenti e precetti che riguardano i doveri verso gli uomini : “non ucciderai, non commetterai adulterio, non ruberai, non testimonierai falsamente, onora il padre e la madre, e amerai il prossimo tuo come te stesso” ( Mt 19,18-19), omettendo quelli, considerati importantissimi e che riguardano gli obblighi verso Dio.
L’atteggiamento di quei pii e devoti che preferiscono rifugiarsi nel culto verso Dio a scapito del bene concreto al prossimo, viene denunciato come falso e sterile.
Nel giudizio dei pagani non verrà chiesto alcun conto della loro fede, bensì di quei elementari atteggiamenti di solidarietà tenuti verso l’altro, quali dar da mangiare, da bere, vestire, ospitare, assistere gli infermi e i carcerati ( Mt 25,31-46).
Dall’esame dei Vangeli, il peccato si delinea come quell’atteggiamento volontario, dettato dall’egoismo, con il quale l’uomo ignora l’esistenza degli altri uomini, se non per usarli per il propri interesse.
Peccato è non dare nulla e pretendere tutto.
Atteggiamento che finisce con il ritorcersi contro la persona stessa, in quanto ostacola il dinamismo della vita, che permette all’uomo di crescere solo nella misura in cui si dona all’altro.
Il peccato è il cosciente rifiuto da parte dell’individuo, irrimediabilmente centrato su se stesso, di accogliere il dono vitale che il Padre gli offre.
Dato che l’anelito della vita appartiene all’essere dell’uomo, reprimerlo significa andare contro la propria natura, frustrare il proprio sviluppo e disperdere il progetto di Dio a causa della miope visione di una vita dove l’orizzonte viene limitato al proprio egoistico presente.
Questo è il peccato dell’umanità, l’ostacolo alla realizzazione della volontà di Dio, che il Concilio definisce “ una diminuzione per l’uomo stesso, impedendogli di conseguire la propria pienezza” ( Gs 1,13).
La saggezza popolare ha formulato questo concetto con l’espressione : “brutto come il peccato”.
Il peccato è brutto, perché rende brutti.
Gesù ha affermato che : “La lampada del tuo corpo è l’occhio. Se i tuo occhio è buono, tutto il tuo corpo sarà luminoso; ma se il tuo occhio è cattivo, tutto il tuo corpo sarà tenebroso” ( Mt 6,22-23).
L’occhio cattivo è una espressione biblica con la quale si indica l’avarizia, la taccagneria ( Dt 15,9).
Mentre l’amore, espresso attraverso il generoso dono di sé, rende la persona splendida.
Il peccato, invece, espressione del proprio egoismo, chiude la persona in se stessa, la ottenebra e la rende brutta.
Allora, peccare non è tanto trasgredire questo o quell’altro comandamento o precetto, ma è il non accogliere il dono della vita per portarlo al suo compimento.
Così si comprende il severo monito che il Signore rivolge alla comunità cristiana nel libro dell’Apocalisse: “ Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari se tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca” ( Ap. 3,14-16).
La strada imboccata da questa comunità assomiglia tanto a quella presa dalla maggior parte dei cristiani: quella della via di mezzo che sembra essere la migliore : ”Non sono né santo, né peccatore, non rubo, non ammazzo… per il resto… sa com’è!”.
La via di mezzo, quella della mediocrità o della tiepidezza è più pericolosa, agli occhi del Signore, di quella del peccato.
Il peccatore, può trovare il desiderio di conversione, proprio dall’amarezza e dall’inquietudine che nasce dalla sua triste situazione:
Può incontrare il Signore, perché “dove il peccato è abbondato, la grazia è sovrabbondata” ( Rm 5,20).
Ma, per la persona tiepida e che per di più si sente a posto col Signore e coi fratelli, non c’è più nessun rimedio perché il Signore non è venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori ( Mt 9,13)
Per i peccatori, invece, c’è sempre speranza, grazie a quel Dio che “ha rinchiuso tutti nella disubbidienza per fare misericordia a tutti” ( Rm 11,32).

 
IL PECCATO: che cos’ è ?
Nel Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 1440, il peccato viene definito, anzitutto, come un’offesa a Dio, rottura della comunione con Lui.
Nello stesso tempo il peccato attenta alla comunione con la Chiesa.
Per questo motivo, la conversione arreca ad un tempo il perdono di Dio e la riconciliazione con la Chiesa, ciò che il Sacramento della Penitenza e della Riconciliazione esprime e realizza liturgicamente2.
L’idea di peccato presente nell’Antico Testamento ( nella Legge e i Profeti) non è la stessa di quella che emerge nella vita e nell’insegnamento di Gesù.
Nell’AT i vari peccati sono considerati sempre come “azioni contro Dio”.
Nel tardo giudaismo l’idea di peccato è in stretta relazione con l’idea della legge.
Il peccato si concepisce come violazione dei mandati e delle proibizioni divine e, quindi, come deviazione dal retto e buon cammino.
Il peccato viene pensato, anche, come uno “stato d’impurità”, con la conseguente necessità di “purificazionemediante offerte e sacrifici rituali.
Giovanni Battista che visse e fu educato nel tardo giudaismo presenta il peccato come violazione della Legge; come comportamento che causa l’ira di Dio e il suo castigo imminente; come qualcosa che rende impuri; una macchia che necessita della dovuta “purificazione”.
Le preoccupazioni del Battista si centrarono sul peccato che offende Dio, perché per Giovanni Battista al primo posto venivano l’onore da tributare a Dio, il suo culto e i diritti di Dio.
Gesù quando parla del peccato non ha le stesse idee di Giovanni Battista.
Per Gesù al primo posto c’erano l’onore, la dignità e i diritti dell’essere umano, ma non perché l’essere umano venisse prima di Dio, ma perché si rese conto che Dio e l’essere umano sono fusi in maniera tale che l’unico modo di credere in Dio e compiere la sua volontà è quello di rendere felici gli esseri umani.
Per questo, Gesù si preoccupò, soprattutto, della sofferenza che piaga, umilia e offende la persona umana.
Queste due visioni determinano due modi di intendere ciò che offende Dio e quindi due modi di intendere il peccato.
Anzitutto va sottolineato che Gesù non parla mai del peccato come di un’azione che provoca l’ira divina o merita un castigo da parte di Dio, irritato dall’offesa che il peccatore commette contro il suo Signore.
Gesù utilizza spesso il verbo “peccare” (amartànein) per esprimere un’azione che offende un altro essere umano, non Dio.
Mt 18,15: “Se tuo fratello commetterà una colpa contro di te….”
Mt 18,21: “Allora Pietro si avvicinò e gli disse: “Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me….”.
Lc 15,18 “…ritornerò da mio padre e gli dirò: Padre ho peccato contro il Cielo e contro di te…”
Lc 17,3-4 …Se tuo fratello commetterà una colpa, rimproveralo, ma se si pentirà perdonagli: E se commetterà una colpa sette volte al giorno contro di te e sette volte tornerà a te dicendo: “sono pentito, tu gli perdonerai”.
In alcuni casi, la stessa idea “ di azione che offende un altro essere umano” si esprime mediante il sostantivo “paràptoma”(peccato).
Mt 6,14 “Se voi perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi; ma se non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe”.
Questo significa che Gesù intendeva il peccato non esclusivamente come un’azione che offende Dio, ma anche come un’azione che offende un qualsiasi essere umano.
Il Vangelo ci fa pensare che, nella mentalità di Gesù, l’offesa contro Dio e l’offesa contro il fratello sono strettamente legate tra di loro.
Questa intima connessione tra ciò che offende Dio e ciò che offende il prossimo appare più evidente nelle due redazioni del Padre Nostro.
Matteo 6,12 utilizza il sostantivo opheilemata ( = debiti) “ … e rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori…
Luca (11,4), invece, scrive “amartìas” (=peccati): “perdonaci i nostri peccati, perché anche noi perdoniamo ad ogni nostro debitore”.
Sappiamo, tuttavia, che ai tempi di Gesù queste due parole erano equivalenti.
Ma, è importante, invece, notare che, in questa richiesta del Padre Nostro, si fondono l’offesa a Dio e l’offesa all’uomo in modo tale che il perdono dell’una è necessariamente legato al perdono dell’altra.
Il che vuol dire che per Gesù, il peccato che offende Dio è indissolubilmente legato al peccato che offende l’uomo.
Questa stessa idea è indicata in Marco 11,25: “… quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate, perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a voi le vostre colpe”.
Perché il “ peccato” e il “danno contro l’essere umano”, sono per Gesù così inseparabili?
Nelle culture dell’antico Oriente e nelle tradizioni della Bibbia, il peccato e la sofferenza, erano strettamente collegati.
Ogni Israelita sapeva che, secondo il racconto della Genesi, il male, la sofferenza e la morte, sono entrati nel mondo, per colpa del peccato.
Per questo, secondo le tradizioni dell’antico Oriente, le malattie e le disgrazie erano interpretate in base a valutazioni di carattere religioso, di fatto in relazione con il peccato.
Questo modo di intendere la sofferenza era profondamente radicato in Israele, fin dalle tradizione del Pentateuco ( Es 9,14 sg; Nm 12,9-14; Lv 26,14-16; Dt 28,21 sg), per cui diffidare del Signore per cercare la guarigione ricorrendo ai medici era considerato un atto di incredulità ( 2Cr 16,12).
Siccome la sofferenza veniva da YHWH, solo Lui poteva guarire e medicare il paziente (Gb 5,18).
La convinzione profonda del legame tra peccato e sofferenza corporale era il presupposto fondamentale dei complessi riti e delle cerimonie di purificazione che si imponevano agli infermi.
Ci sono degli esempi molto chiari anche nel Vangelo : racconto del cieco dalla nascita ( Gv 9,2); spiegazione che da Paolo alla comunità di Corinto sui mali, le sofferenze e le disgrazie che vi soffrivano i cristiani a causa dei loro peccati ( 1Cor 11,29-30); nella lettera di Giacomo (5,15) si trova la stessa idea.
La malattia e la sofferenza, in generale erano, sia per Israele che per il cristianesimo primitivo, non soltanto una questione che riguardava la medicina, ma soprattutto un fenomeno attinente alla religione3..
Questa mentalità è alla base delle raccomandazioni che Gesù fa quando dice a qualcuno “non peccare più”, come al paralitico della piscina ( Gv 5,14); all’adultera che stava per essere lapidata ( Gv 8,11).
Gesù voleva loro dire :” Non rimettetevi in situazioni di tanto pericolo e sofferenza”.
Infatti, quando entrò di nuovo a Cafarnao gli viene presentato il paralitico (Mt 9,1-8; Mc 2,3-12; Lc 5,17-26) e la prima cosa che Gesù dice è che gli sono stati perdonati i suoi peccati ( Mc 2,5).
Solo in questo caso, Gesù perdona personalmente ad un uomo, i suoi peccati.
Ma che cosa c’entra il perdono dei peccati, quando invece ciò che si chiede è la guarigione di un malato ? Perché Gesù ha agito così ?
Perché, nella mentalità di quel tempo, c’era una relazione tra malattia e peccato, ma soprattutto per far capire che LUI è venuto a salvare la totalità dell’essere umano: il corpo, dalla malattia; lo spirito, dal peccato.
Nel racconto di Luca Gesù annuncia anche il perdono alla grande peccatrice, in casa del fariseo ( Lc 7,48).
Ma se si paragonano le volte che Gesù perdona i peccati con le numerose occasioni in cui si dedica a guarire mali e sventure, cioè ad alleviare la sofferenza, si constata facilmente che la preoccupazione di Gesù per la sofferenza era molto più determinante nella sua vita, rispetto a quella per il peccato.
Certamente per noi la malattia, la sofferenza non hanno nulla a che vedere con il peccato, ma al tempo di Gesù si vedevano le cose in maniera differente.
Gesù era certamente preoccupato e interessato alla situazione di quelle persone dinnanzi a Dio, ma si preoccupava della situazione di quelle persone davanti alla società e davanti a se stesse.
Gesù, perdonando i loro peccati, restituiva a tali persone la loro dignità, il rispetto che meritavano dinnanzi agli altri e alla propria coscienza.
Certamente con quegli atti di perdono Gesù esprimeva la misericordia divina, ma liberando le persone dal peccato, Gesù voleva liberare quelle persone, anche dalla sofferenza profonda e dolorosa e umiliante di essere giudicate indesiderabili e maledette da Dio, secondo la mentalità di quel tempo.
Perciò non possiamo leggere i testi evangelici sul peccato partendo dalla nostra teologia attuale (“conversione”, “grazia sacramentale”…grazia santificante ecc…) perché si rischierebbe di interpretare il Vangelo in modo errato o affermare cose che poco o nulla hanno a che vedere con quello che Gesù aveva voluto dire e con quello che potevano comprendere coloro che vissero tali eventi.

 
CHI PUO’ PERDONARE I PECCATI ?
Nell’episodio del paralitico presentato nei tre vangeli sinottici c’è una parola chiave che si ripete per ben 4 volte :”exousia” che esprime potere, autorità.
Questo potere, autorità di Gesù (figlio dell’uomo) di perdonare i peccati fu motivo di scandalo per i teologi o gli scribi che erano presenti nel momento in cui avvenne la guarigione (Mc 2,6).
Uno scandalo talmente grande che accusano Gesù di “bestemmia”.
Perché ?
Perché i teologi o gli scribi sostenevano che solo Dio può perdonare i peccati ( Mc 2,7). Mentre con quell’azione Gesù voleva far capire che il perdono dei peccati” è qualcosa che possono e devono fare anche gli uomini.
Mt 6,12.14 “ Se voi, infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe”.
Mt 18,15-20 “ Se tuo fratello commetterà una colpa contro di te, và ed ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà avrai guadagnato tuo fratello; se non ti ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre vtestimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità, e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come un pagano e un pubblicano. In verità vi dico: tutto quello che legherete sulla terra, sarà legato in cielo e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo”.
Nella Chiesa primitiva si praticava la “confessione” dei peccati tra i fratelli.
Confessate perciò i vostri peccati gli uni agli altri e pregate per gli uni e gli altri per essere guariti”(Gc 5,16).
Il racconto di Matteo 9,1-8 termina affermando che “ a quella vista, la folla fu presa da timore e rese gloria a Dio che aveva dato un tale potere agli uomini”.
Gli scribi (o teologi di quel tempo) sapevano benissimo che il perdono dei peccati si realizzava solamente attraverso il ministero del sommo sacerdote.
Nel tardo giudaismo, il perdono dei peccati, lo si praticava nel culto e nel sacrificio al tempio, per cui risulta difficile stabilire in quale misura il sacerdote impartisse o potesse impartire al singolo il perdono.
La cosa più probabile è che quei teologi o scribi s’indignarono per le parole di perdono di Gesù perché non solo offendevano Dio, ma attentavano anche ad un potere che era privilegio esclusivo del sacerdozio, nell’ambito sacro del culto e del tempio.
Non si trattava solo di una questione di fede, ma era anche una questione di potere.
Gesù, dopo la sua risurrezione, secondo il Vangelo di Giovanni 20,23, diede ai suoi discepoli, nella prima apparizione alla comunità riunita, il potere di perdonare i peccati : “A coloro a cui perdonerete i peccati saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”.
Gesù, a chi rivolge queste parole ?
Gesù appare ai discepoli ( Gv 20,19).
E’ dunque ai discepoli che dà questo mandato.
Ma i “Discepoli” non si limitano ai Dodici ( cfr Gv 6,66-67).
Tra i discepoli c’erano alcuni che non appartenevano ai Dodici ( Cfr Gv21,1-2).
Gesù, allora, concesse il potere di perdonare i peccati a coloro che credevano in lui, a tutta la comunità dei suoi seguaci, perché sono proprio questi ad essere denominati “discepoli” nel Vangelo di Giovanni.
Giovanni non definisce mai il peccato come un’offesa contro Dio, ma è un comportamento che condanna chi lo commette e lo porta alla morte
Di nuovo Gesù disse loro : “ Io vado e voi mi cercherete, ma morirete nel vostro peccato…Voi siete di questo mondo, io non sono di questo mondo…morirete nei vostri peccati, se infatti non credete che Io sono, morirete nei vostri peccati.. ( Gv 8, 21.24)
Peccato” è il comportamento dei capi dei Giudei perché tale comportamento rende schiave le persone.
Gesù disse a quei Giudei che avevano creduto in lui: ”se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi…Gli risposero:” noi siamo discendenti di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno…Gesù rispose loro : “ in verità, in verità vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato…” (Gv 8,31-34).
Si tratta delle opere di odio, menzogna e morte..
Questo è il “peccato” che nella comunità dei discepoli necessita di costante perdono, riconciliazione e misericordia, non solo da parte di Dio, ma anche il perdono e la misericordia che i discepoli esprimono e concedono agli altri.
La teologia del peccato è associata la teologia della conversione.
Nel Vangelo di Marco, l’inizio della predicazione di Gesù, viene riassunto così : “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino: convertitevi e credete al Vangelo ( Mc 1,15).
La conversione ( metanoia) esprime l’idea di cambiamento non solo nel modo di pensare, come semplice cambio di mentalità, ma indica “una svolta di vita”.
Si tratta di una rivoluzione nel modo di vivere di ciascuno che include, naturalmente, anche un cambiamento nel modo di pensare.
In che cosa, Gesù voleva che la gente cambiasse?
Il termine metanoia compare in otto brani dei vangeli sinottici e cinque si riferiscono a Giovanni Battista ( Mc 1,4; Mt 3,8.11; Lc 3,3.8) la cui predicazione presentava la “conversione” come cambiamento in funzione del peccato.
Per cui conversione voleva dire smettere di peccare.
Gesù, invece, intendeva la conversione in funzione del regno di Dio ( Mc 1,15).
Per Gesù parlare del regno di Dio era parlare della vita e della dignità degli esseri umani.
Infatti Gesù annunciava il regno di Dio “guarendo ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo” ( Mt 4,23), cioè dando la vita a coloro la cui esistenza era limitata o minacciata.
Anche i Dodici quando furono inviati da Gesù a predicare, esortavano alla conversione e nello stesso tempo “cacciavano molti demoni, ungevano con olio molti malati e li guarivano” ( Mc 6,13).
Per Giovanni il Battista era decisivo abbandonare il peccato, per Gesù, invece, decisivo era lottare contro la sofferenza e rendere felice la vita delle persone.
Gesù, come raccontano i vangeli, aveva buone relazioni con due gruppi di persone : i malati e i peccatori, suscitando in tal modo le critiche dei più devoti ed osservanti e scandalizzandoli, dal momento che Gesù, per i malati e i peccatori, faceva ciò che non era permesso dalla religione. Quindi erano considerati comportamenti “peccaminosi”.
Gesù insegnava non tanto con le parole, ma soprattutto con il suo comportamento che la liberazione dalla sofferenza e la felicità delle persone sono più importanti dall’evitare di fare quello che la religione considera peccato.
Nessuno si scandalizzava per il fatto che Gesù guariva i malati, ma perché lo faceva, in giorno di sabato, senza che ci fosse alcun pericolo di morte.
Il sabato era il giorno nel quale la legge religiosa proibiva cure che non fossero di emergenza.
Gesù avrebbe potuto aspettare di “guarire” gli ammalati in un altro giorno della settimana.
Infatti, “Ci sono sei giorni in cui si deve lavorare; in quelli, dunque venite a farvi guarire e non in giorno di sabato” (Lc 13,14).
Chi guariva di sabato era un “peccatore”: così dissero i farisei di Gesù al cieco dalla nascita ( Gv 9,31) perché fu guarito da Gesù il giorno di sabato ( Gv 9,13-14).
Guarire di sabato era ritenuto un peccato così grave e pericoloso che la legge religiosa dei Giudei disponeva che in caso di recidiva, il colpevole veniva condannato a morte.
E’ quel che successe quando Gesù guarì, in giorno di sabato, un uomo con la mano paralizzata, proprio in mezzo alla sinagoga ( Mc 3,1-6).
Gesù ordinò all’uomo di alzarsi, in mezzo a tutti e pose la domanda chiave :” E’ lecito in giorno di sabato fare del bene o fare del male, salvare una vita o ucciderla”?
In altre parole :”che cosa è più importante e prioritario nella vita: sottomettersi alla religione ed evitare il peccato, oppure guarire un paralitico ed alleviare la sofferenza ?
Gesù mise fine alla sofferenza dell’uomo, infrangendo la legge, perché “il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato ( Mc 2,27).
Prima c’è l’essere umano con la sua vita e la sua dignità; dopo viene la religione con le sue leggi e le sue cerimonie.
Lo stesso accadde quando Gesù guarì il paralitico della piscina ( Gv 5, 1-18); la guarigione del cieco dalla nascita ( Gv 9,1-39).
Gesù vide chiaramente che la sua missione in questo mondo era quella di porre rimedio al dolore dei sofferenti, restituire l’integrità delle vita a coloro che si sentivano limitati, minacciati, disprezzati.
Fare in modo che quanti si vedevano privati della loro dignità, si sentissero delle persone degne e meritevoli di rispetto.
Per questo Gesù fu accusato di essere un peccatore ( Gv 9,31), un bestemmiatore ( Mc 2,6; Mt 26,65), motivo di scandalo ( Mt 11,6) e addirittura un individuo così pericoloso che le autorità ritennero fosse indispensabile toglierlo di mezzo ( Gv 11,47-48).
Il suo rapporto con i peccatori fu ancora più scioccante.
Gesù non entrò in conflitto con le persone che in quella società erano considerate inosservanti, scandalose, gente che non rispettava i doveri religiosi o dava il cattivo esempio o si dedicava a mestieri poco puliti, come i pubblicani e le prostitute.
Queste persone trovavano sempre accoglienza e comprensione da parte di Gesù, mentre i devoti osservanti furono smascherati e spesso denunciati da Gesù stesso.
La grande peccatrice che entrò in casa di Simone il fariseo, mentre si celebrava un banchetto ( Lc,36-50) : Gesù si lascia “baciare”, “toccare” e “profumare” da questa donna.
Naturalmente nel racconto c’è tutta una teologia che privilegia l’amore della donna rispetto all’osservanza del fariseo a voler indicare che la relazione umana di amore produce persone più buone e delicate che la relazione religiosa della sottomissione.
E’ ciò che afferma Gesù enumerando le attenzioni di quella “donnaccia” e la mancanza di delicatezza dell’osservante irreprensibile ( Lc 7,44-47).
Il Vangelo mette in risalto come i pubblicani e i peccatori si avvicinavano a Gesù in massa e lui li accoglieva e mangiava con loro ( Lc 15,1-2).
Molta gente simile condivideva la mensa di Gesù (Mc 2,13-17).
Bisogna tener presente che a quel tempo si disprezzava e si odiava senza pietà quel genere di persone perché non praticavano la religione e perché, come i pubblicani erano collaborazionisti delle forze pagane di occupazione, cioè le legioni dell’Impero Romano.
In quel popolo così religioso, il disprezzo verso queste persone era talmente forte che la consuetudine associava “collettori di imposte e ladri”; pubblicani e ladri; peccatori (Mc 2,15-16; Mt 9,10-11; Lc 5,30; Mt 11,19; Lc7,34; Lc 15,1-2); pagani ( Mt 18,17); prostitute ( Mt 21,31-32); adulteri ( Lc 18,11); assassini.
Gesù, il Messia e il Figlio di Dio, si trova bene con i miscredenti e i rifiutati dalla gente per bene di quella società tanto puritana!
Giovanni Battista non avrebbe mai fatto una cosa simile, tanto meno i sacerdoti o i funzionari del Tempio.
Per questo nessuno si sorprese quando Gesù, appena giunto a Gerico andò a cena a casa di Zaccheo, il capo dei pubblicani ( Lc 19,1-7).
Ma perché Gesù si comportava così ? Perché voleva convertire quelle persone ? O perché le amava ?
Nei Vangeli non è scritto che Gesù li abbia mai rimproverati per il loro cattivo comportamento, né che abbia detto loro che dovevano convertirsi.
Anche se è vero che alcuni di loro ( come avvenne con Zaccheo) si sentivano motivati dalla presenza o vicinanza di Gesù per prendere decisioni esemplari ( Lc 19,8).
Ma, tranne il caso di Levi (Matteo) (Mc 2,14) non è riportato che alcun peccatore o pubblicano abbia lasciato il suo mestiere o la sua condizione di peccatore.
Per questo nella parabola del fariseo e del pubblicano al Tempio ( Lc 18,9-14), quest’ultimo non può fare altro che appellarsi alla misericordia di Dio ( Lc 18,13) perché vede che per lui non c’è altra soluzione.
Il pubblicano non dice a Dio che lascerà il suo mestiere, ma la parabola indica, comunque, che quel pubblicano uscì dal tempio “giustificato”.
E’ vero che la parabola dei due figli ( Mt 21,28.32) termina dicendo che i pubblicani e le prostitute credettero nel messaggio che Giovanni Battista predicava al popolo ( Mt 21,32), ma non dice che abbandonarono la loro vita sbagliata.
Quando Gesù dice “ i tuoi peccati ti sono perdonati” , come al paralitico (Mc 2,5) e alla grande peccatrice (Lc 7,48) non si devono intendere le parole di Gesù come fosse l’assoluzione data, oggi, da un confessore.
Non bisogna dimenticare che, a quel tempo, il peccato era considerato causa delle malattie o della indegnità delle persone.
Un malato era un individuo che non solo aveva la salute compromessa, ma che era considerato anche una persona cattiva, cioè un peccatore o un indesiderabile.
I Giudei del tempo di Gesù, lo sapevano molto bene.
La teologia della grazia e del peccato, come viene spiegata nei confessionali di oggi, fu elaborata secoli dopo.
Quello che la gente pensava, all’epoca di Gesù, era che un paralitico o una prostituta fossero persone disprezzate e disprezzabili.
Gesù volle porre rimedio a questo.
Non agiva in quelle occasioni come teologo della grazia e della penitenza, ma come il profeta che passò facendo il bene e guarendo chi soffriva ( At 10,38).
Quello che risulta maggiormente nella relazione di Gesù con i peccatori non è la preoccupazione per la santificazione delle anime, ma la solidarietà con le persone disprezzate e alleviare la sofferenza di chi era troppo maltrattato dalla vita.
La preoccupazione fondamentale di Gesù era di rimediare al dolore e all’umiliazione degli sventurati.
Non possiamo leggere i racconti del vangelo secondo la nostra teologia e le nostre pratiche pastorali di oggi.
Teologia e pratiche che sono determinate da quello che “normalmente” si pensa nella Chiesa attuale.
I racconti di quel tempo vanno letti e interpretati a partire da quello che si pensava e si faceva a quel tempo.
Un giudeo qualsiasi, a quel tempo, per quanto religioso fosse, non poteva conoscere la teologia della grazia e la pastorale del peccato e della penitenza che la maggior parte dei sacerdoti della Chiesa, oggi, segue.
I Vangeli non ci parlano di Gesù come un oratore sacro che fustiga i peccatori, ma come un profeta che accoglieva la povera gente, ne alleviava le pene, le mancanze e le difficoltà.
Gesù sapeva che far soffrire tante creature su questa terra, è il peccato che Dio più detesta perché Dio, umanizzato in Gesù, si è assimilato al dolore dei figli di questa terra4.
Per questo Gesù di fronte al dolore delle persone, alla loro sofferenza, al dolore, alla fame, alla povertà, all’abbandono, alla disperazione di chi si vede perduto e senza via d’uscita si sentiva “sconvolto interiormente, si emozionava profondamente ( Mt 9,36;14,14; Mc 6,34; Mt 15,32; Mc 8,2; Mt 18,27; 20,34; Mc 1,41; 9,22; Lc 7,13; 10, 33; 15,20).
NOTE
1 P. Alberto Maggi, Padre dei poveri, 2 Il Padre Nostro, Cittadella Editrice, Assisi,2003.
2 Cfr Conc. Ecum.Vat II, Lumen Gentium, 11.
3 José Maria Castillo, Vittime del peccato, Fazi Editore, Roma 2012
4 José Maria Castillo, Vittime del peccato, Fazi Editore, Roma 2012.



Martedì 05 Gennaio,2016 Ore: 21:03
 
 
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