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www.ildialogo.org Niente misericordia per i presbiteri che abbandonano il ministero(2),di Perin Nadir Giuseppe

Giubileo della Misericodia (11a e ultima parte)
Niente misericordia per i presbiteri che abbandonano il ministero(2)

di Perin Nadir Giuseppe

terza domanda
Perché, nella Chiesa d’Occidente, nella pastorale familiare invece di tener presente anche la famiglia del prete-sposato, sembra che essa venga, invece, ignorata metodicamente, al contrario di quello che avviene nella Chiesa d’Oriente ?
In questo voler ignorare pastoralmente l’esistenza della famiglia del prete sposato, non c’è misericordia.
Il presbiterato uxorato è una ricchezza che la chiesa gerarchica-istituzionale, ancora cerca di occultare. Nonostante che il Concilio Vaticano II : * abbia affermato con chiarezza che il sacerdozio uxorato è benemerito nella struttura della Chiesa e va onorato; * lo abbia riconosciuto come vero “sacerdozio” che nasce da una chiamata divina - è quindi un dono di Dio - oltre che da un discernimento ecclesiale, proprio come il “sacerdozio celibatario”; * avesse ribadito che il celibato, pur avendo particolari ragioni di convenienza teologica, rimaneva sempre una legge ecclesiastica e non era, affatto, un dogma di fede.
Il papa Giovanni Paolo II – ora santo - nell’esortazione apostolica “ Pastores dabo vobis” del 1992, affermò che tra celibato e sacerdozio c’è una connessione oggettivamente fondata, dal momento che l’ordinazione “sacerdotale” configura ontologicamente a Cristo capo, pastore e sposo della Chiesa e trova nel celibato la sua corrispondenza adeguata” .
Da queste affermazioni si potrebbe dedurre che il sacerdozio- uxorato, in quanto uxorato, non è conforme a ciò che l’ordinazione significa ontologicamente; oppure che si tratta di un “sacerdozio-altro”, cioè minore, meno perfetto, rispetto a quello celibatario, perché realizza il senso dell’ordinazione, in grado inferiore e in modo parziale!
Non va dimenticato che anche il sacramento del battesimo conferisce una duplice incorporazione a Cristo e alla Chiesa. E, dall’incorporazione a Cristo ne consegue che tutti i cristiani, nel modo loro proprio, partecipano in maniera ontologica e funzionale del suo ufficio sacerdotale, profetico e regale (can. 204 §1) 1 , ma non per questo, il cristiano non può sposarsi, né sposandosi svaluta il suo battesimo !
Mi sto convincendo che sempre più spesso, le ragioni dell’agire dell’uomo siano dettate da motivi di convenienza, dimenticando che esiste una fedeltà a Dio che non può essere ricondotta e ristretta solamente al fatto di obbedire, sempre e comunque, all’autorità della Gerarchia ecclesiastica. Per cui, spesso, nella coscienza del cristiano maturo, nasce un conflitto tra l’obbedienza da prestare alla volontà di Dio che si fa conoscere attraverso gli avvenimenti del mondo e del Popolo di Dio e quella che passa attraverso la “gerarchia” della Chiesa.
Il conflitto, però, non è originato dalla volontà di Dio in quanto tale, bensì dalle molteplici forme di mediazione che hanno prodotto interpretazioni divergenti.
S. Tommaso D’Aquino di fronte a tale conflitto, fece prevalere la coscienza ben formata ed aggiunse che l’uomo deve agire secondo la sua coscienza pur sapendo che per questo potrebbe essere colpito anche da scomunica ecclesiastica.
Lo stesso Papa, Benedetto XVI, quando era ancora cardinale, affermò che “Al di sopra del papa, come espressione della pretesa vincolante dell’autorità ecclesiastica, resta comunque la coscienza di ciascuno, che deve essere obbedita prima di ogni altra cosa e, se necessario, anche contro le richieste dell’autorità ecclesiastica. L’enfasi sull’individuo, a cui la coscienza si fa innanzi come supremo ed ultimo tribunale e che in ultima istanza è al di là di ogni pretesa da parte di gruppi sociali, compresa la Chiesa ufficiale, stabilisce un principio che si oppone al crescente totalitarismo”2 .
Dunque, per ogni cristiano e per ogni prete, è doverosa l’obbedienza alla volontà di Dio che si fa conoscere attraverso “i segni dei tempi” che ciascuno di noi deve imparare a decifrare, lasciandosi illuminare e guidare dalla Parola di Dio.
Gesù, d’altra parte, non ha fornito regole precise di comportamento, ma ha stimolato l’uomo e la donna ad osare di essere responsabili : “Perché non giudicate da voi stessi”? (Matt 16, 3…)
Gesù ha aiutato lo zoppo, il cieco, il paralitico ad aprire gli occhi, a mettersi in piedi: “ Và la tua fede ti ha salvato”( Matt 9,1-8; Mc 2,3-12).
Ha lottato senza posa contro leggi obbliganti.
La sua Buona Novella è un messaggio di liberazione e di amore che riveste tutto il suo spessore nella prospettiva di una Presenza, di un Amore misericordioso incondizionato, nel cuore del difficile cammino umano.
Il tema del “prete sposato”, è un tema che, per vari motivi, ha sempre incuriosito “la gente”, ma che, secondo me, può aiutare a capire meglio il grande valore che ha il rapporto sponsale e il rapporto nuziale tra uomo e donna nel disegno di salvezza di Dio.
Ogni persona umana è costitutivamente sponsale, in quanto è chiamata ed invitata alle nozze eterne con Dio.
La sponsalità, indica la percezione della relazione. E’ il sì della relazione di Dio con l’uomo ed è il sì dell’uomo alla sua relazione con Dio. In altre parole è l’accettazione dell’orientamento della nostra vita.
E, questo rapporto fra uomo e donna, si va sempre più scoprendo come uno dei nodi dell’umanizzazione della vita, forse il primario, e, indirettamente il punto focale del generarsi di tante altre questioni, inquietudini ed angosce.
Dalla persuasione della preminenza assolutista dell’uomo, largamente diffusa e vissuta nel contesto sociologico di una mentalità cosmocentrica, si è passati o si va passando, al riconoscimento della “parità dei diritti” fra l’uomo e la donna, in tutta la sua estensione, dalla sfera giuridica a quella della “realizzazione di sé”, alla sfera sessuale, nella sua totalità, cioè nella sua componente affettiva e fisiologica, che si è ancora portati a distinguere per comodità di ricerca e di discorso, ma che sempre più si rivelano strettamente interdipendenti tra loro e caratterizzanti insieme la qualità del rapporto.
Tutto questo ha portato indubbiamente ad una possibilità di liberazione della donna e di miglioramento del rapporto “uomo-donna”. Ma non è detto che la possibilità tenda a realizzarsi per il suo verso giusto. Accade, anzi, che si realizzi anche per il verso sbagliato e che porti ad un nuovo modo di effettiva dipendenza della donna, anche se mascherato nelle forme, e, perfino ad un peggioramento del rapporto.
Alla radice, forse, sta un vizio di impostazione.
Si parla di “parità di diritti” e si ritiene necessario figurarsi una irreale identità od uguaglianza tra l’uomo e la donna, che ci darebbe da sé la parità, piuttosto che pensare a realizzare la parità dei diritti nella “complementarietà” tra i due poli della coppia.
Si pone l’equazione, in sé irrealistica di “donna = uomo” e si stima, così, di aver aperto la strada alla parità.
Ma, quando noi parliamo del matrimonio di un prete, la figura della donna che ha accettato di condividere la sua vita e i suoi ideali con quelli del prete, in un contesto di amore sponsale, riveste un significato che va al di là della “normalità”, anche se – molto spesso - il matrimonio del prete viene confinato nei quadri di un fenomeno effimero della morbosità sociale o della crisi individuale.
Invece, nel pensiero di molti del mondo cattolico, anche se non di tutti, la donna che sposa il prete che ama, rappresenta una sfida vivente al “maschilismo” esistente nella Chiesa e che si è sempre dimostrato restio a riscoprire “l’umanità” del Vangelo e a rendere il Vangelo più attuale per l’umanità.
Il matrimonio del prete non serve ad estendere il potere sacrale alle donne, facendole entrare nell’”arca” ( luogo sacro) ma , a rifondare una modalità ed una nuova esperienza di vivere la fede cristiana, dal momento che la donna, invadendo il “sacro” con la sua persona, cioè sposando un prete, può offrire un contributo nel “dissacrare la storia”, non estromettendo Dio dalla storia personale sua e del prete, ma ricomponendo e rilanciando l’umanità del prete stesso.
La donna che sposa un prete, infatti, sfida una cultura intollerante e si avventura in un progetto di coppia che è gravato da intenti socialmente supplementari, che vanno al di là della cultura corrente.
Dalla storia risulta chiaro che “ coloro che – nella Chiesa - hanno il compito di insegnare, di reggere e di santificare, hanno dato – in nome dell’Istituzione - con l’imposizione per legge canonica del “celibato” ( = vietato il matrimonio) una valenza fondante all’identità di un ministroviolentemente” separato dai codici del suo sviluppo naturale e personale.
Ma, per essere cristianicercatori di umanità” ( ed anche il prete deve essere prima di tutto un “cristiano cercatore di umanità”) è necessario ritornare alla natura e alla persona, altrimenti si diventa degli uomini che cercano la “signoria”, attraverso il mito della cristianità.
La coppia, formata da un prete e da una donna, ha proprio lo scopo di riversare nella chiesa cattolica un’ondata di umanità ricostituita, di natura, di mondo e di storia recuperati e può contribuire, assieme ad altri credenti, a riproporre, in modo più rispondente al messaggio del Vangelo, l’ esperienza di fede , che aiuti le persone a ricercare un punto di riferimento nella vita che dia sostanza e gioia di vivere 3.
L’obiettivo di un prete che si sposa non è quello di inquadrare nella sua decisione di sposarsi il cambiamento di uno statuto o la riforma del codice del Diritto canonico, ma quello di aiutare l’essere umano a ritrovare una più vivibile umanità.
Ed una “umanità” diventa più vivibile, sia per l’uomo che per la donna, quando le scelte di vita (come il celibato) hanno il carattere della “libertà” e non il marchio dell’imposizione.
E, la donna, sposando il prete che ama e dal quale è amata, dimostra come non sia giustificabile, evangelicamente, un ministero presbiterale, esercitato da un “ministro celibe per imposizione e non per libera scelta”, perché in tal caso il ministero NON diventa un “si” gioioso alla chiamata di Dio, ma una proiezione istituzionale in una determinata “condizione umana” per inserirvi il “potere sacrale della “casta”.
Invece, la condizione umana in se stessa, dovrebbe essere sempre contrassegnata da una libera scelta, che è quella che dà colore all’impatto fra la vita e l’esperienza di fede ed esprime la sua specifica ministerialità, cioè il servizio da realizzare a vantaggio della Comunità di fede e di amore.
Infatti, non è la Chiesa, in quanto istituzione – cioè quella parte che detiene il “potere istituzionale” - che deve raggiungere queste realtà umane per redimerle, ma sono le stesse realtà umane che, attraverso i vari ministeri, devono rientrare nel circuito umanizzante della Chiesa, come comunità di fede e di amore.
Il prete operaio, per esempio, non ha senso se viene vissuto come un “soggetto dell’istituzioneinserito nel mondo del lavoro. Ma dovrebbe essere lo stesso mondo operaio ad esprimere nella Chiesa la sua ministerialità lavorativa, con tutta la “carica” che emerge dalla sua specifica condizione umana.
Per cui si potrebbe dire che, il “cattolicesimo perbenista” sarà fecondamente turbato non tanto dal prete che ottiene dall’ istituzione Chiesa, la licenza di potersi sposare, ma quando sarà la comunità cristiana, come ai primi tempi della Chiesa, che sceglierà come suoi ministri uomini e donne sposati, rivendicando a se stessa, la fonte della ministerialità, in quanto “comunità di credenti, fondata dagli apostoli e loro successori”.
Ancora una volta la coppia sposata : donna-prete, sta ad indicare :
- uno smantellamento dell’ingiustificabile supremazia del maschio che il cattolicesimo integralista ha iniettato in tutte le umane culture;
- un abbattimento del sessismo e della fobia misogena che venti secoli di distorsioni antropologiche sacralizzate, hanno inserito nel corpo e nell’anima della Chiesa;
- uno svuotamento psicologico e culturale dell’aureola di sublimazione che, in realtà, un celibato imposto non può avere, ma che ugualmente ha prodotto “il privilegio di casta”, nell’ esercizio dei suoi poteri;
- infine fa capire che la capacità di amare, essenza del cristianesimo ed orizzonte trascendente dell’umanità, non è affidabile ad un voto gestito dal sistema di potere, ma dipende sempre ed unicamente dalla decisione di una coscienza libera e responsabile e dal suo impatto con l’evolversi della persona e della realtà.
Il matrimonio di un prete rappresenta, allora, il rovesciamento della sacralità che ha riportato i cristiani al di fuori dell’umanesimo evangelico e seppellisce, una volta per sempre, l’identità che il “clericus” ha “inciso” sul volto dei cattolici, per ritornare a quella radicalità che Gesù di Nazareth ha contrapposto al potere del tempio ed alle sue alleanze.
Guardare, allora, alla donna che sposa il prete che ama, non dovrebbe più suscitare meraviglia o scandalo nel Popolo di Dio, ma dovrebbe servire a riportare l’uomo e la donna – anche attraverso l’esperienza di fede – alla loro dimensione storica, naturale e cosmica.
L’alterità vissuta e sperimentata nella coppia formata da un uomo-prete e da una donna, rievoca il concetto dell’alterità di Dio, un nucleo della coscienza su cui preti, vescovi e papi concedono molto alla “predica”, ma assolutamente nulla alla “vita”.
La donna, nel suo rapporto matrimoniale con un ex-funzionario della “ragion di Chiesa”, offre una possibilità di gettare il seme di una riconversione umana, in un magma, reso - dalla pretesa del possesso esclusivo di Dio - incandescente inceneritore della sua esclusiva rappresentanza nel mondo 4.
La coppia del “prete sposato” rappresenta l’avventura di un uomo e di una donna, verso l’insondabile orizzonte di una “terra” promessa, dopo aver sentito lungamente e con insistenza che bisognava stare quieti, consolandoci con la speranza del “cielo”.
Ma, in realtà, “il cielo è qui, su questa terra”, se noi accettassimo di accogliere con gioia, nel nostro spirito, tutta “l’umanità di Dio” che l’uomo di Nazareth (Gesù) è venuto a farci conoscere e che è contenuta nel suo Vangelo.
QUARTA DOMANDA
Nell’atteggiamento di chiusura ad ogni dialogo e proposta per superare la scarsezza di presbiteri nel ministero, coloro che nella Chiesa hanno la responsabilità del ministero per la comunità ecclesiale, non dimostrano “misericordia” !
La carenza di “presbiteri” è diventata ormai una “malattia” che sta colpendo molte comunità parrocchiali sia in Italia che nel mondo, incidendo in modo negativo sulle “condizioni di vita” delle persone che vengono private dell’annuncio della Parola e dei sacramenti.
Per questo, alla porta della chiesa di molte parrocchie bisognerebbe mettere l’annuncio : “Uomini di Dio, cercansi…”.
Ma, perché mancano i preti ? Nessuno lo sa con certezza. Tutti fanno delle ipotesi. Ognuno dà la sua risposta e propone la sua ricetta.
La struttura operativa della chiesa, come sistema, è più il frutto di norme, di leggi del Diritto Canonico che la messa in pratica della proposta di vita lasciataci da Gesù nel Vangelo.Per il vangelo siamo tutti uguali davanti a Dio, per il Diritto canonico, invece, no!
Da una parte c’è il gruppo dei chierici che indossa la stola – simbolo del potere- e dall’altra il gruppo dei laici ai quali non rimane che attuare i doveri del “grembiule”, cioè prestare un servizio obbediente all’autorità e al magistero clericale da cui tutto dipende.
Tale comportamento da “padroni del gregge”, ha espropriato, nel tempo, i laici della loro coscienza di essere parte attiva della Chiesa e di sentirsi in essa corresponsabili della sua vita.
E’ un dato di fatto che la maggioranza dei laici quando sente parlare di “Chiesa” pensano subito al Papa, ai vescovi, ai preti, ai frati…..alle suore… Quasi mai pensano che si sta parlando anche di loro ! Perché si sentono “esclusi” da ogni responsabilità per quanto riguarda la vita della Chiesa.
Anche se l’elenco delle opinioni e delle ipotesi sul perché della carenza di preti, potrebbe allungarsi all’infinito, non sono pochi quelli che pensano che molti giovani non rispondono alla chiamata di Dio a farsi prete, perché non se la sentono di rinunciare al matrimonio per tutta la vita. Se, invece, il celibato non fosse imposto per legge canonica, ma lasciato alla libera scelta della persona, probabilmente il numero dei presbiteri aumenterebbe.
Ma, nonostante che la diagnosi evidenzi la grave carenza di preti, l’autorità della chiesa istituzionale che ha la responsabilità del ministero, continua a rinviare sia la prognosi che la terapia.
Si potrebbe dire che siamo di fronte ad una continua “prognosi riservata” dal momento che il paziente (= la comunità ecclesiale) non è mai stata dichiarata fuori pericolo.
Le strade indicate per arrivare ad una soluzione, almeno parziale, del problema, sono diverse e tutte percorribili nel senso che una non esclude l’altra, ma soprattutto perché potrebbero essere complementari tra di loro.
Quante volte i vescovi sono stati sollecitati, sia direttamente che indirettamente, attraverso scritti, incontri personali, a “riflettere” sul perché esiste in molte comunità cristiane una “ grave carenza di preti celibi” e a “mettersi in ascolto” anche dei preti che hanno lasciato la struttura ecclesiale per accedere a scelte diverse, compresa quella di sposarsi ?
A molti laici-cristiani non sfugge che buona parte dei cardinali e dei vescovi “mostrano una stagnazione ed una fissità” di pensiero e di immagine, su posizioni del passato, dalle quali non riescono o non vogliono uscire per mancanza di “fantasia” pastorale, ma soprattutto perché non hanno il coraggio di abbandonare i segni del potere per ritrovare il potere dei segni.
Molti di loro hanno paura di spogliarsi della “porpora” per rivestirsi del grembiule…hanno paura di abbandonare i conservatorismi, comodi al potere, per recuperare la piena libertà dei figli di Dio.
Hanno paura di dare spazio ed attualità al Concilio Vaticano II, del quale sono state tradite e burocratizzate le grandi aperture e novità… perdendone la tensione verso il nuovo nei meandri delle chiusure, delle prudenze e delle meschinità curiali.
Molti vescovi si limitano semplicemente a “far la conta” dei preti che ancora hanno a disposizione per soddisfare le necessità spirituali dei fedeli affidati alle loro cure, senza però avere il coraggio di intraprendere nuove strade. Si continua a viaggiare tenendosi aggrappati al passato come se nella storia della salvezza dell’uomo, Dio avesse esaurito la sua “paterna fantasia d’amore”.
Ci si limita a fare la solita diagnosi della situazione…a criticare l’altrui operato, ma rimanendo poi alla finestra a guardare quello che fanno gli altri, perché non si ha il coraggio di rimboccarsi le maniche per cercare delle soluzioni adeguate ai vari problemi pastorali legati anche alla “carenza di preti celibi”.
Eppure i vescovi diocesani – come si legge nella Lumen Gentium al n. 27 “ sono chiamati a reggere le chiese particolari a loro affidate come vicari e legati di Cristo, col consiglio, la persuasione, l’esempio, ma anche con l’autorità e la sacra potestà, della quale però non si devono servire se non per edificare il proprio gregge nella verità e nella santità, ricordandosi che chi è più grande si deve fare come il più piccolo, e chi è il capo, come il serviente (cfr.Lc 22,26-27).
Ad essi “è pienamente affidato l’ufficio pastorale ossia l’abituale e quotidiana cura del loro gregge, né devono essere considerati vicari dei Romani Pontefici, perché sono rivestiti di autorità propria e con tutta verità sono detti sovrintendenti dei popoli che governano. La loro potestà, quindi, non è annullata dalla potestà suprema e universale, ma anzi è da essa affermata, corroborata e rivendicata, poiché lo Spirito Santo conserva invariata la forma di governo da Cristo Signore stabilita nella sua Chiesa” (LG,27).
Nonostante questo, sono pochissimi i Vescovi che hanno il coraggio di dialogare con i “preti sposati” che gravitano sul loro territorio e di ascoltarli senza paura di “sporcarsi le mani” o di “rovinare la loro carriera ecclesiastica”.
Sono pochissimi i Vescovi che come pastori del gregge a loro affidato si chiedono non che cosa potrebbero fare “per” i preti sposati della loro diocesi, ma che cosa potrebbero fare “con” i preti sposati che gravitano sul territorio della loro diocesi.
Sono pochissimi i Vescovi che aiutano la comunità diocesana “a crescere ed a maturare spiritualmente” in modo da valorizzare, all’interno della stessa, la presenza di questi fratelli e sorelle per la testimonianza, per la missione, per l’evangelizzazione, non sprecando i doni dello Spirito di cui essi sono portatori.
Sono pochissimi i Vescovi che riconoscono, nel rispetto della giustizia, ma soprattutto guidati dall’amore, a questi preti sposati e suore che hanno lasciato la Congregazione, gli anni trascorsi nel servizio della comunità ecclesiale e li aiutano anche economicamente ad inserirsi in maniera dignitosa nella società!
Eppure, nella comunità di Cristo che è comunità di “comunione” bisognerebbe avere il coraggio di pensare sempre in termini di “noi”, perché c’è un solo “noi” che anela a farsi sempre più onnicomprensivo, sempre più comunione, sempre più vero e che impedisce qualsiasi tipo di emarginazione.
E’ quel “NOI” che diventa Cristo, quando ciascun “IO” che compone il “NOI” è legato all’altro da un amore profondo che si fa dono e servizio.
Cristo si è rivolto innanzitutto agli umili, agli emarginati, a coloro che erano senza dignità, a coloro che erano disprezzati dai benpensanti, a coloro che erano lasciati da parte. Per questo ogni comunità cristiana, assieme al proprio Vescovo, dovrebbe “farsi prossimo” degli ultimi, dei peccatori… e noi siamo tutti peccatori, peccatori salvati, peccatori riconciliati, peccatori desiderosi di vivere la comunione ecclesiale.
Mentre ci troviamo di fronte a delle comunità “pigre” nel pensiero e nell’ azione; immobiliste; indifferenti; tradizionaliste; assenteiste da ogni forma di visibilità di testimonianza cristiana; comunità che delegano tutto alla Chiesa, ristretta, ormai, nel suo significato al “clero” con l’esclusione dei “laici”.
Testardi e pagani nel cuore e nelle orecchie, voi opponete sempre resistenza allo Spirito Santo” ( At 7,51). Invece, “Dio non ha paura della novità”, disse papa Francesco nel giorno della beatificazione di Paolo VI, il 19 Ottobre 2014 !
Quali sono le proposte che sono state fatte ?
1-Che il celibato dei presbiteri torni ad essere una scelta libera della persona e non imposto per legge canonica
2- che l’età per entrare in seminario e prepararsi al ministero sia spostata alla maggiore età, abolendo così i seminari minori, perché il primo luogo della formazione umana e cristiana, anche per chi vuole farsi prete, dovrebbe essere la famiglia, poi la comunità parrocchiale, la scuola e l’università.
3- aprire il ministero presbiterale ai probi viri, cioè a coppie sposate. Una possibilità finora sempre rifiutata dalla gerarchia, nonostante qualche rara eccezione che si è verificata solo dopo che l’uomo era rimasto vedovo .
Tuttavia, da parte di alcuni Vescovi si parla della possibilità di chiamare al ministero presbiterale degli “uomini sposati”. Non so se questa possibilità sia remota o prossima, ma quando questo accadrà, se accadrà, avremo una figura nuova di presbitero anche nella Chiesa Cattolica Occidentale, cioè lo “sposato-presbitero”.
Confrontando questa dicitura : “Sposato-presbitero” (l’uomo sposato che riceve il sacramento dell’Ordine per esercitare il ministero presbiterale) con l’altra “presbitero-sposato” ( un uomo che ha ricevuto il sacramento dell’Ordine e poi si è sposato), mi sono chiesto perché non si possa applicare a queste due modalità di essere, la proprietà commutativa della moltiplicazione che dice:” cambiando l’ordine dei fattori il prodotto non cambia”.
Dobbiamo, anzi tutto dare un significato diverso al termine “prodotto” : nella moltiplicazione indica il risultato ottenuto moltiplicando due numeri tra loro, mentre nel caso del presbiterato non si tratta di numeri, ma della qualità di un servizio da dare alla comunità.
Quale differenza ci potrebbe essere, allora, per quanto riguarda la qualità, se questo servizio venisse espletato da un “presbitero-sposato” o da uno “sposato-presbitero” ?
Oppure per quali ragioni, il Papa potrebbe scartare la possibilità di servirsi del ministero di un “presbitero-sposato”, che già esiste all’interno della comunità ecclesiale e preferire, invece, di servirsi del ministero di uno “sposato-presbitero”, figura che nella Chiesa Occidentale ancora non c’è ?
Da un punto di vista del Diritto Canonico tra le due modalità non c’è alcuna differenza perché per entrambe è necessario chiedere alla Santa Sede e ricevere dalla stessa, il Rescritto di dispensa. L’una per potersi sposare ( can. 291) dal momento che l’Ordine sacro costituisce un impedimento dirimente al matrimonio canonico ( can 1087).
E, l’altra, riguardante l’uomo-sposato che per diventare presbitero, ha bisogno della dispensa che è riservata alla Santa Sede (can. 1047, § 2,3; can 1078, §1), perché il matrimonio “vir uxorem habens” è un impedimento all’Ordine sacro ( can. 1042, §1).
Dal punto di vista del percorso formativo, invece, ci sono delle differenze di partenza.
a) Per il presbitero-sposato: sarebbe un ritorno ad un servizio già svolto e al quale si era preparato con anni di studio della teologia, della morale, del diritto canonico e della Sacra Scrittura, mentre gli anni trascorsi nel contesto di una vita matrimoniale stabile gli hanno permesso di maturare quella parte umana ed affettiva e relazionale della sua personalità che nel periodo di formazione del seminario era risultata, forse, “carente” o per lo meno non ancora matura.
b) Per lo sposato-presbitero, significherebbe un servizio nuovo al quale, dopo aver ottemperato a determinate condizioni, l’uomo dovrebbe prepararsi, con un percorso di studio della teologia, della morale, della Sacra Scrittura, del Diritto canonico, ma si troverebbe avvantaggiato per quanto riguarda la maturazione affettiva e relazionale della sua personalità, che ha avuto modo di maturare negli anni della sua vita matrimoniale stabile.
Che cosa potrebbe significare, allora, la regola commutativa della moltiplicazione “cambiando l’ordine dei fattori il prodotto non cambia”, in rapporto al servizio ministeriale del presbitero?
1) Che tra le due vocazioni ( presbiterato e matrimonio) non c’è incompatibilità.
2) Dalla mia esperienza personale, come presbitero-sposato - e molti altri preti sposati potrebbero dare la stessa testimonianza – pur non esercitando il ministero dentro le mura del Tempio, ho potuto vivere con pienezza di dono, all’interno della comunità ecclesiale, la vocazione di presbitero : testimoniando la Parola, attraverso l’amore vissuto e condiviso; spezzando e condividendo il pane quotidiano, nell’esercizio della mia professionalità lavorativa, a servizio degli ultimi ed emarginati della società : vecchi, anziani in fase terminale e con problemi psichiatrici, giovani drogati e disadattati, ragazzi/e meno dotate… e, nello stesso tempo, ho potuto vivere in pienezza di dono anche la vocazione di marito e di padre, in conformità alla Parola di Dio.
Il pastore ( il Vescovo, il presbitero, il diacono) sia irreprensibile, marito di una sola donna; sobrio, prudente, decoroso, ospitale, pacifico e disinteressato; che sappia dirigere bene la sua casa, educare i suoi figli con perfetta dignità; perché se uno non sa dirigere bene la propria famiglia, come potrà avere cura della Chiesa di Dio ?” ( 1Tm 3,2-5).
Per cui l’altra proposta che viene fatta alla Chiesa istituzionale, per emarginare e superare la carenza di presbiteri celibi, è quella di avvalersi dei preti sposati che si dichiarano disponibili.
E’ fuori discussione che i responsabili del ministero presbiterale, cioè il papa e i vescovi, hanno il grave dovere di provvedere alla salvezza delle anime ( can 1752).
Nessuna ragione al mondo può esonerarli da questa responsabilità, per cui, nel caso di mancata disponibilità di preti celibi, il diritto canonico prevede il ricorso anche a preti sposati, sia all’interno che all’esterno dell’edificio Tempio.
Il ragionamento è molto semplice.
Il can 290 afferma che “ la sacra ordinazione una volta ricevuta validamente, non può essere mai più annullata. Quindi un prete è e sarà sempre prete, cioè un ministro a disposizione di tutti, sempre e comunque, per la salvezza delle anime. Anche quando, avendo scelto di sposarsi è stato privato dello “stato clericale” e dei diritti e dei privilegi da esso derivanti e gli è stato proibito di “esercitare” il ministero.
Ma, proprio perché l’“essere prete” è legato al sacramento dell’Ordine e non allo “stato di vita clericale”, l’esercizio del ministero per il bene e la salvezza delle persone, non è un diritto, né un privilegio, ma un dovere a servire la comunità attraverso l’annuncio della Parola e spezzando il Pane di vita, cioè L’Eucaristia.
Sono io che scelto voi –dice Gesù ai 12 – non voi avete scelto Me. E io vi ho scelto perché andiate e portiate “frutto” (GV 15,16-17).
Il can 1335 parla di “giusta causa”, affermando che : “Se la censura vieta la celebrazione di sacramenti o di sacramentali oppure l’esercizio di atti di governo, il divieto è sospeso ogni volta che ciò sia necessario per assistere dei fedeli che si trovano in pericolo di morte; se poi si tratta di censura latae sententiae non dichiarata, il divieto è anche sospeso tutte le volte che un fedele chiede un sacramento o un sacramentale o un atto di governo; tale richiesta può essere fatta per qualsiasi giusta causa5.
Il can. 842 §1 afferma che i ministri sacri non possono rifiutare i sacramenti a coloro che li chiedono in modo opportuno e risultino ben disposti ed il diritto non impedisca loro di riceverli”.
Si può affermare, allora, con coscienza ben formata che “è ragionevole e logico, quale prassi opportuna ed appropriata” chiedere i sacramenti ad un prete cattolico-sposato, validamente ordinato, per esigenze spirituali o in mancanza di preti celibi.
Lo stesso Benedetto XVI, quando era ancora cardinale affermò che : “ al di sopra del papa, come espressione della pretesa vincolante dell’autorità ecclesiastica, resta comunque la coscienza di ciascuno che deve essere obbedita prima di ogni altra cosa, se necessario anche contro le richieste dell’autorità ecclesiastica…”6.
QUINTA DOMANDA
Nel comportamento della Chiesa-istituzionale non appare “misericordia” nel fatto di aver legato l’esercizio del ministero presbiterale non alla sacra ordinazione che una volta ricevuta validamente, non può essere annullata ( can. 290), ma al fatto di appartenere allo stato clericale, indipendentemente dalla causa per cui si perde tale stato.
Quando un chierico chiede ed ottiene dal Papa, il Rescritto di dispensa dalla promessa di celibato per potersi sposare “in maniera canonica”, viene ridotto allo stato laicale. Ma dal momento che la perdita dello stato clericale è considerata il massimo delle pene, perché con essa il chierico perde tutti i diritti e doveri legati a tale stato, ci troviamo di fronte a qualcosa di assurdo… e sul quale è necessario riflettere, perché, in questo caso, al chierico viene inflitto il “massimo delle pene canoniche” senza senza essere in presenza di alcun delitto.
Quando il chierico perde lo stato clericale – recita il Diritto canonico - perde insieme tutti i diritti propri di tale stato e non è più tenuto a nessun obbligo che da esso derivi. Conseguentemente rimane, eo ipso, privato di tutti gli uffic i7 e incarichi e di qualsiasi potestà delegata (can 292); gli è proibito di esercitare la potestà di ordine, salvo disposto del can. 976..
Ma quali sono le motivazioni per cui si può perdere lo stato clericale ?
Lo “stato clericale” si può perdere:
1) per sentenza giudiziaria o per decreto amministrativo, col quale si dichiara l’invalidità della sacra ordinazione ;
2) con la pena della dimissione legittimamente imposta;
3) per rescritto della Sede Apostolica, che per altro viene concesso dalla Sede Apostolica ai diaconi per gravi motivi, ai presbiteri per motivi gravissimi.
Capisco che quando la Sacra Ordinazione viene dichiarata nulla per sentenza giudiziaria o per decreto amministrativo, dal momento che si entra a far parte dello “stato clericale” ricevendo il sacramento dell’Ordine, nei suoi tre gradi : diaconato, presbiterato, episcopato, ed essendo stato dichiarato nullo il sacramento dell’Ordine, automaticamente, a norma del Diritto, viene annullata qualsiasi appartenenza allo stato clericale.
Capisco che quando un chierico commette un reato ( come il reato di pedofilia) possa essere punito con delle pene – contemplate dal Diritto - a secondo della gravità del delitto commesso.
Una di queste pene, considerata la massima nel Diritto Canonico, è la perdita dello “stato clericale” ed essere quindi ridotto “allo stato laicale”.
Ma, dal momento che la perdita dello stato clericale, viene considerata dal Diritto – sic et sempliciter - una pena gravissima, che pertanto – a norma del Diritto - può essere inflitta solo quando siamo di fronte ad un “delitto commesso” con piena avvertenza e deliberato consenso, non capisco, per quale motivo allora, il prete che chiede la dispensa dal celibato e la ottiene, secondo le disposizioni del Diritto, debba essere punito con la pena della perdita dello stato clericale, dal momento che chiedere secondo il diritto ed ottenere da chi di competenza, quanto richiesto, non costituisce “reato” ?
I preti della Chiesa Cattolica Orientale che si sono sposati prima di essere ordinati preti, appartengono ugualmente allo stato clericale, anche se sposati, ed esercitano il ministero. Anche nella Chiesa Orientale, però, solo chi si sposa dopo aver ricevuto l’ordinazione, perde lo stato clericale e gli è proibito di esercitare la potestà di ordine.
Da qui emerge come non ci sia misericordia in questo comportamento della Chiesa istituzionale.
Lo “stato clericale” non è un sacramento, ma solo una conseguenza giuridica, istituita dal Diritto canonico, che ha creato all’interno del Popolo di Dio , la casta clericale con i suoi privilegi e disuguaglianze per molti altri. Privilegi e disuguaglianze che contrastano con il comportamento di Gesù e i suoi insegnamenti contenuti nel Vangelo.
Voi sapete che i governanti delle nazioni dominano su di esse e i capi esercitano su di esse il potere. Tra voi non deve essere così; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore e chi vorrà essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo; come il Figlio dell’uomo non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mt 20,24-28; Mc 10,41-45).
Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, si tolse la veste, prese un asciugamano e se lo cinse intorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto….
Quando ebbe lavato loro i piedi, riprese la veste, sedette di nuovo e disse loro : “ Capite quello che ho fatto per voi ? Voi mi chiamate Maestro e Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque, io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi. In verità vi dico : un servo non è più grande del suo Padrone, né un inviato è più grande di chi lo ha mandato. Sapendo queste cose, siete beati se le mettete in pratica” (Gv 13, 4-17.
Che cosa dire di più sul “Celibato imposto” a tutti i presbiteri della Chiesa Occidentale che non sia già stato detto ? Il vero problema è che nessuno sta ad ascoltare…. E questo non è segno di misericordia.
Sono numerosissimi gli studi e gli approfondimenti sul ministero presbiterale e la figura del presbitero; sui cambiamenti circa l’esercizio del ministero e la persona del ministro, apportati nel corso della storia della Chiesa, da coloro che, nella Chiesa, hanno l’autorità e la responsabilità del ministero per la comunità ecclesiale; come pure, sulle problematiche del presbitero nell’esercizio del ministero, in modo particolare legate al celibato “imposto” per legge canonica, ai preti della Chiesa Cattolica Occidentale.
Si è parlato e scritto molto sulla formazione e maturità umana, affettiva, relazionale ( anche con il “gentil sesso”) che il seminarista dovrebbe raggiungere prima di esercitare il ministero, per poi continuare la sua maturazione nel ministero stesso; sulla diminuzione del numero di giovani che accolgono la chiamata; sull’aumento del numero dei presbiteri che si “innamorano” ; e, tra questi, sui numerosi che, per la paura delle difficoltà economiche e lavorative, la paura di “perdere la propria reputazione e il prestigio clericale” raggiunto, non hanno il coraggio di uscire allo scoperto e decidere da che parte stare; mentre altri, pur consapevoli delle difficoltà che ci sono “oltre la siepe” e fuori dal “recinto”, “lasciano l’esercizio del ministero” e si sposano; la devastazione umana, cristiana, morale e psicologica alla quale, molto spesso, le donne “innamorate “dei preti e da essi “amate”, vanno incontro, a causa dell’incoerenza, dell’immaturità, della codardia e della falsità, sia nelle parole che nel comportamento, del loro amato uomo-prete.
Tuttavia, ciò che suscita meraviglia nel popolo di Dio, non è tanto il fatto che un presbitero s’innamori e sposi la donna che ama perché si tratta di situazioni umane ed affettive che fanno parte della vita di ogni uomo. E meno male che esiste la possibilità che tra l’uomo e la donna si accenda questa luce fatta di rispettoso e tenero amore che ti permette di vivere la tua vita nel modo migliore! Nonostante che, anche nella vita matrimoniale, non sia tutto “rose e fiori”....
Invece, ciò che fa meraviglia, nel Popolo di Dio, è il “silenzio tombaledell’Istituzione-centrale della chiesa, di fronte alle problematiche esistenti in tante comunità ecclesiali sparse nel mondo.
In modo particolare di fronte ad un “celibato imposto per legge canonica” ai presbiteri della Chiesa Cattolica Occidentale.
E’ il rumore ed il frastuono del “silenzio tombale”, quello che amareggia e rattrista il cuore, perchè, nonostante le numerosissime e pressanti richieste d’intervento che arrivano da ogni parte del mondo, i continui suggerimenti, i consigli e le proposte , per superare questa situazione di stallo e di malessere generale che si protrae, ormai, da centinaia di anni....non c’è alcuna risposta!
Non voglio entrare in merito alle ragioni o ai torti di chi è ottimista o pessimista circa la soluzione del problema legato ad “un celibato imposto”, perché penso che la speranza di poter vivere in una comunità ecclesiale che “ama a somiglianza del Padre” sia, in ogni caso, legata alla riscoperta di Cristo, nel concreto della vita quotidiana.
Un generico sperare potrebbe nascondere pericolose illusioni, perché le “ipotesi catastrofiche” sul numero dei presbiteri in servizio e delle comunità abbandonate a loro stesse, del numero dei giovani che risponderanno alla chiamata al “servizio presbiterale”, saranno forse esagerate, ma certe preoccupazioni, però, non sono gratuite e sarebbe negativo liquidarle con superficialità.
Infatti, la speranza per chiamarsi tale e per avere solide basi di appoggio, deve confrontarsi con tutto quello che tende a contrastarla. Anche se, in ogni caso, è sempre consigliabile guardare attentamente dove si mettono i piedi.
La struttura della Chiesa è ormai in piena crisi, perché le verità garantite non interessano più, le deleghe di coscienza hanno fatto il loro tempo e l’autoritarismo ha le armi spuntate.
L’istituzione ecclesiastica dovrà necessariamente trasformarsi, altrimenti si ridurrà ad uno sparuto manipolo di “integralisti o di “politici”, cioè, persone che vorrebbero utilizzare la Chiesa a fini strumentali, oppure, come schieramento per opporsi e contrastare altri schieramenti religiosi o politici.
Se il cristianesimo si riducesse a “bastione difensivo”, varrebbe ancora la pena di essere cristiani ?
Se Gesù dice di aver vinto il mondo - e io credo sia proprio vero – significa che le tragedie sociali, presenti o passate, sono tutte dimostrazioni della sconfitta di una società sia civile che religiosa e se dicente cristiana, basata su dominio e denaro, cioè sull’esatto contrario di quello che ha detto Gesù, cioè sul “servizio” e la “condivisione”.
Oggi è la stessa umanità, sia nella sua dimensione personale che planetaria, che non viene più riconosciuta da chi, per sete di potere e di prestigio personale, pretende di dettare le leggi del gioco nazionale ed internazionale, degli interessi vitali delle persone e della stessa sopravvivenza del genere umano.
I segnali di tale violenta sopraffazione sono evidenti. E, i più deboli, persone o interi popoli, ne soffrono le drammatiche conseguenze perché l’uomo viene annullato di fronte al sacro valore del denaro e del potere.
Ancora una volta ci si trova nel bel mezzo, non tanto del “cammin di nostra vita”, ma di un “passaggio” da compiere, di una pasqua da vivere e realizzare, nella consapevole e responsabile accettazione di una lotta in cui si può perdere il potere e la ricchezza, ma non si può rinunciare a quella libertà dello spirito che è denuncia dell’ingiustizia e difesa dell’ultimo.
Al “potente” o ai “potenti di turno”, che vivono nella chiesa istituzionale e della chiesa istituzionale, possiamo far loro conoscere che non ci interessano i loro macchinosi e spettacolari enunciati di bene, quando sono viziati dall’interesse di parte, perché ancora più chiaro diventa nell’uomo il desiderio di libertà da quelle strettoie che hanno anche il sapore ideologico di servirsi di categorie religiose, per affermare una presunta verità - come quella di un celibato, sic et simpliciter, “sommamente confacente con la vita sacerdotale” – quando manca la spirituale propensione alla misericordia, all’ascolto e al dialogo.
Viviamo ancora nel tempo di pasqua che vuole anche essere respiro di luce e di semplice ricerca di ciò che, in ogni tempo, ci può avvicinare alla dimensione dell’eterno, come vittoria su ogni ristrettezza che ha sapore di morte.
La persona di Gesù, pieno di attenzione verso i più sofferenti, non si può confondere con gli apparati e con le cerimonie che distraggono dall’immediata esperienza di un amore condiviso proprio con chi non può offrirti che il suo dolore ed il suo desiderio di liberazione.
La sete di risurrezione ce la portiamo dentro, come vittoria su un modo di vivere che nega l’amore e che ci vorrebbe divisi ed in conflitto. E’ quello Spirito, patrimonio di ciascuno, che Gesù ci ha donato affinché potessimo “ comprendere” la “buona notizia” che Lui ci ha rivelato, e che si afferma da solo, essendo principio e fine del nostro stesso essere e della nostra felicità da lui donata e voluta.
CONCLUSIONE
Gesù , nei Vangeli, non ha mai parlato di Chiesa, né di religione, né di stato clericale, né di quello laicale, ma solamente di Regno di Dio.
I vangeli sinottici riassumono la buona notizia che Gesù proclama, nell’annunzio della vicinanza della “signoria di Dio” o del “regno di Dio” ( Mc1,14 s e par.)
Entrambe le espressioni indicano una realtà nuova, la società umana alternativa.
La prima, la signora di Dio, la considera dal punto di vista dell’azione di Dio sull’uomo, mentre la seconda, il regno di Dio, denota la conseguenza di quest’azione divina, cioè una società degna dell’uomo.
Vengono così introdotti i due aspetti della nuova realtà: la conversione personale ( aspetto individuale) e il cambiamento dei rapporti umani ( aspetto sociale).
Cioè, senza uomo nuovo non ci sarà società nuova. Dio rinnova e rafforza l’uomo infondendogli la propria vita ( Lo Spirito Santo). Dotato di questa vita, l’uomo ha il compito e la responsabilità di creare una società veramente umana : il regno di Dio che rappresenta l’alternativa alla società ingiusta, annuncia la speranza di una vita nuova, afferma la possibilità del cambiamento e formula l’utopia.
Per questo costituisce la migliore notizia che si possa annunziare all’umanità e, a partire da Gesù, l’offerta permanente di Dio agli uomini, dai quali attende una risposta. La sua realizzazione è sempre possibile.
Il primo passo per la creazione di questa nuova società è il cambiamento di vita (emendatevi) che Gesù chiede in connessione con l’annuncio del Regno. Senza un cambiamento profondo di comportamento, da parte dell’uomo che lo porti a rompere con il passato di ingiustizia, non vi è possibilità alcuna di dare inizio a qualcosa di nuovo.
L’esortazione al cambiamento dimostra che il regno di Dio per essere realizzato, esige la collaborazione dell’uomo. Il cambiamento non è che un passo iniziale che implica l’insoddisfazione per la situazione esistente, sia personale che sociale, e il desiderio di cambiamento.
Solo quelli che sentono questa inquietudine, risponderanno positivamente all’invito di Gesù.
Ma la scelta dell’uomo per il regno di Dio non si limita alla rottura con l’ingiustizia. Presuppone anche un impegno personale, come quello che Gesù prese con il battesimo : di dedicarsi al compito di creare una società diversa, per amore all’umanità.
Infatti, l’impegno di dedizione verso gli altri - come nel caso di Gesù- mette l’uomo in sintonia con Dio. E, la risposta di Dio è la comunicazione del suo Spirito, vale a dire l’infusione nell’uomo della sua forza di vita e di amore che lo rende idoneo a questo compito,
L’utopia del Regno di Dio o nuova società, viene concretizzata da Gesù nelle beatitudini riportate dal vangelo di Matteo (Mt 5,3-10).
In esse vengono formulate :
a) le condizioni indispensabili perché si possa realizzare la nuova società;
b) la liberazione che la sua esistenza va attuando nell’umanità;
c) i nuovi rapporti che crea;
d) la felicità che dispensa.
Le condizioni perché si realizzi la nuova società sono due:
a) la rinuncia ad ogni ambizione, espressa nella scelta della povertà ( Mt 5,3 : “Felici coloro che scelgono di essere poveri”)
b) la fedeltà a questa rinuncia nonostante l’opposizione che suscita( Mt 5,10 : “Felici coloro che vivono perseguitati per la loro fedeltà)
La prima condizione, la scelta della povertà, è la porta di entrata al regno di Dio perché apre la possibilità di una nuova società, dal momento che estirpa la radice dell’ingiustizia, l’ambizione umana, e rompe sui valori sui quali poggia la vecchia società.
L’ambizione porta ad accumulare ricchezze ed in seguito alla ricerca del prestigio sociale e al dominio sugli altri, creando rapporti umani basati sulla disuguaglianza, l’oppressione e la rivalità ( 1Tm 6,10 : “L’amore al denaro è la radice di tutti i mali”).
Dunque, la scelta è ispirata dall’amore per l’umanità oppressa e dal desiderio della giustizia. Elimina l’ostacolo che impedisce l’esistenza di una società giusta e costituisce la base indispensabile per la sua costruzione. Da questa nasceranno la generosità del condividere ( Mt 6,2s), l’uguaglianza, la libertà e la fratellanza di tutti.
Secondo Gesù, ogni uomo si trova di fronte ad una scelta fra Dio e il denaro, cioè fra l’amore e l’egoismo, fra l’ “essere” e l’avere”.
Optare per la povertà significa schierarsi per Dio e con lui, per il bene dell’uomo e per la sua pienezza ( Mt 6,24 e par.; Col 3,5 “ estirpate la cupidigia che è idolatria”).
Non bisogna tuttavia confondere la povertà, alla quale Gesù invita, con la miseria. Lo dimostra la felicità che egli promette a coloro che la scelgono (“Felici…”).
Questa felicità, a prima vista paradossale, sta nel fatto che, secondo l’espressione di Gesù, “essi hanno Dio per re”; è Dio che garantisce a quanti hanno fatto questa scelta di godere dei mezzi necessari al loro sviluppo umano (Mt 6,25-33 par.)
Va sottolineato che l’invito di Gesù è fatto al plurale. Questo significa che Gesù non esorta ad una povertà individuale ed ascetica, ma ad una decisione personale che deve essere vissuta all’interno di un gruppo di persone, costituendo così il germe della nuova società. In questo modo si creano rapporti nuovi fra Dio e gli uomini e tra gli uomini stessi.
Seguendo il linguaggio metaforico, possiamo dire che Dio regna sugli uomini comunicando loro il suo Spirito-vita, stabilendo il rapporto nuovo Padre-figlio. Da questo Spirito condiviso da tutti, nasce la solidarietà-amore che garantisce tanto il sostentamento materiale quanto il pieno sviluppo personale.
La seconda considerazione, la fedeltà alla scelta iniziale nonostante l’ostilità che suscita, esprime la coerenza del comportamento con la scelta fatta. Esclude, quindi, tutto quello che la svigorisce e mantiene la piena rottura con i fondamenti di una società ingiusta. Questa coerenza si vive all’interno di un gruppo che, per i valori che propone, si trova in netta opposizione con tale società e con la sua esistenza scalza i principi sui quali essa si fonda. Non vi è nulla di strano sul fatto che la società reagisca con ogni mezzo, compresa la violenza e cerchi di sopprimere lo stile di vita che deriva dall’opzione per la povertà.
Ogni gruppo sociale che non entri in conflitto con un ambiente sociale permeato dai principi dell’ingiustizia, dimostra che non sta vivendo l’alternativa proposta da Gesù.
La persecuzione palese o mascherata, la pressione sociale, i tentativi di emarginazione, non devono essere motivo di angoscia o di disperazione per la comunità cristiana, perché in tali circostanze essa sperimenterà, in maniera particolarmente intensa, la sollecitudine divina ( “perché essi hanno Dio per re”), cioè l’amore e la forza dello Spirito che è capace di superare perfino la barriera della morte ( Mt 5,11s).
Nelle beatitudini si assicura che l’esistenza di questo gruppo alternativo che ha optato per la povertà e che rimane fedele a questa scelta, susciterà tra gli uomini un movimento di liberazione.
E, la liberazione si realizza in tre modi:
a) quelli che soffrono per l’oppressione troveranno consolazione ( Mt 5,4);
b) gli asserviti erediteranno la terra, godranno cioè di piena libertà ed indipendenza ( Mt 5,5);
c) quelli che bramano giustizia vedranno colmata la loro aspirazione ( Mt 5,6).
Ma quali sono i rapporti umani propri della nuova società che a loro volta creano l’autentico rapporto con Dio ?
La comunità alternativa è caratterizzata : dalla solidarietà attiva ( Mt 5,7 “Felici coloro che prestano aiuto”); dalla lealtà di comportamento che nasce dall’assenza di ambizioni ( Mt 5,8 “Felici i limpidi di cuore); dal compito di procurare la felicità agli uomini ( Mt 5,9: Felici quelli che lavorano per la pace).
Questo modo di essere e di comportarsi stabilisce con Dio un rapporto che si può descrivere con tre lineamenti: quelli che praticano la solidarietà sperimenteranno la solidarietà di Dio con loro (perché essi riceveranno aiuto”; quelli che sono trasparenti per la loro lealtà, sperimenteranno la presenza immediata e continua di Dio nella loro vita ( perché vedranno Dio); quelli che operano per la felicità dell’uomo, vivranno l’esperienza di Dio come Padre e lo renderanno presente nel mondo (“ perché Dio li chiamerà suoi figli).
Contro la falsa felicità promessa dalla società ingiusta e basata sulla ricchezza, sulla posizione sociale e sul dominio sugli altri, il ripetuto proclama di Gesù ( Felici…) dimostra che la vera felicità si trova in una società giusta che permetta e che garantisca pieno sviluppo umano.
Mentre la società ingiusta identifica la felicità con l’egoismo e l’affermazione personale, l’alternativa di Gesù, invece, identifica la felicità con l’amore e la donazione.
Mentre la prima, a spese dell’infelicità di molti, crea la felicità di pochi, chiusi in sé e indifferenti alla sofferenza altrui, nella nuova società lo sforzo si concentra nell’eliminare ogni oppressione, emarginazione, ingiustizia, perseguendo la solidarietà, la fraternità e la libertà di tutti.
In tal modo Gesù invita a rompere con il sistema ingiusto e ad impegnarsi per un nuovo rapporto fra gli uomini senza il quale non è possibile l’autentico rapporto con Dio.
Gesù chiama “figli di Dio” coloro che si adoperano per la felicità degli uomini, mostrando l’incompatibilità fra Dio e l’oppressione, la sottomissione e l’ingiustizia8.
1- Cfr. Luigi Chiappetta, Sommario di Diritto Canonico e Concordatario, Edizioni Dehoniane, Roma 1995, pp.148-149.
2 cfr.Joseph Ratzinger, in Commentary on the documents of Vatican II, Vol V, p. 137, a cura di Herbert Vorgrimler, Herder and Herder, 1967-1969, New York, traduzione inglese da Dass Zweite Vatikanische Konzil, Dokumente und Commentare).

 
3 Cfr. Piero Barbaini, dai confini del tempo, Quaderni Europei di ricerca Ecclesiologica, n 4, Galeatica Editrice, Brescia, p. 25-27
4Cfr. Piero Barbaini, Dai confini del tempo, Quaderni Europei di Ricerca Ecclesiologica, Ed. Galeatica, Lodi 2006, pp. 28-29
5 -Dal momento che nella Chiesa la suprema legge è la salvezza delle anime (can.1752), in rispondenza a tale principio, il canone 1335 dispone in alcuni casi la sospensione di qualsiasi censura ( scomunica, interdetto personale, sospensione penale) distinguendo una duplice ipotesi. 1) In pericolo di morte: di fronte ad un tale pericolo di estrema gravità per l’eterno destino delle anime, tutte le censure “ferendae” e “latae sententiae” dichiarate e non dichiarate che vietino la celebrazione dei sacramenti o dei sacramentali oppure l’esercizio degli atti di governo, restano sospese ogni volta che ciò sia necessario per assistere i fedeli che si trovano in queste condizioni. Al pericolo di morte è equiparato, com’è detto nel can. 1331, §2, il caso del tutto eccezionale, per altra gravissima causa.
2) Fuori del pericolo di morte : trattandosi di censurae “latae sententiae non dichiarate, il divieto è similmente sospeso tutte le volte che un fedele chieda per qualsiasi giusta causa (ex qualibet iusta causa) un sacramento o un sacramentale (anche nel caso che sia presente un chierico idoneo).
Il chierico colpito da censura non è tenuto ad indagare sulla validità della causa, ma è sufficiente la richiesta del fedele. Si parla di censure “latae sententiae” non dichiarate. Restano pertanto escluse le censure “ferendae sententiae”, inflitte mediante sentenza o decreto e le censurae “latae sententiae”dichiarate.
Il can. 1335 non intende favorire il chierico colpevole, ma i fedeli che hanno bisogno della sua opera.
Un provvedimento a favore del chierico colpito da censura, è disposto nel can. 1352.

NOTE
6 - Cfr. Joseph Ratzinger, in Commentary of the documents of Vatican II, Vol. V, p. 137, a cura di Herbert Vorgrimler, Herder and Herder, 1967-1969, New York (traduzione dal Tedesco)
7 - La rimozione “ipso iure” ha luogo per il verificarsi di tre situazioni: a) la perdita dello stato clericale; b) il pubblico abbandono della fede cattolica o della comunione ecclesiale; c) l’attentato del matrimonio anche solo civile da parte di un chierico ( can 194, §2)
8 -.Mateos – F. Camacho, l’alternativa Gesù e la sua proposta per l’uomo, Cittadella Editrice, Assisi 1989. Titolo originale dell’opera El Horizonte Humano, la propuesta de Jesús, traduzione dalla lingua spagnola di Anna Luridiana, Ediciones El Almendro, Cordoba 1988



Sabato 05 Dicembre,2015 Ore: 17:12
 
 
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