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ISSN 2420-997X

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www.ildialogo.org In continuità con  temi affrontati nelle precedenti domeniche<br />riprendiamo una  riflessioni sull’esperienza umana, sulla memoria,<br /> su alcuni “testimoni”significativi,di Franca, Paola, Mario

In continuità con  temi affrontati nelle precedenti domeniche
riprendiamo una  riflessioni sull’esperienza umana, sulla memoria,
 su alcuni “testimoni”significativi

di Franca, Paola, Mario

Comunità dell’Isolotto – Firenze
 domenica 29 aprile 2018
In continuità con  temi affrontati nelle precedenti domeniche
riprendiamo una  riflessioni sull’esperienza umana, sulla memoria,
 su alcuni “testimoni”significativi
(Franca, Paola, Mario)

1. Letture:
Marco (3, 1-6):  
Gesù entrò di nuovo nella Sinagoga, dove c’era un uomo con la mano inaridita; e lo stavano spiando per vedere se lo guarisse in giorno di sabato, per poterlo accusare. Intanto egli dice all’uomo con la mano inaridita: «Vieni e mettiti nel mezzo. Poi domanda loro: «E’ permesso fare del bene o del male nel giorno di sabato, salvar la vita o lasciar morire?» Ma essi tacevano. Allora volgendo con sdegno lo sguardo sopra di loro, rattristato per la durezza del loro cuore, dice a quell’uomo: «Stendi la mano!» Egli la stese, e la sua mano ritornò sana. Ma i farisei, ritiratesi, subito tennero consiglio con gli Erodiani contro di lui, come farlo perire.
Matteo (19, 13-15):
Alcune persone portavano i loro bambini a Gesù e volevano farglieli benedire, ma i discepoli li sgridavano. Quando Gesù se ne accorse, si arrabbiò e disse ai discepoli: «Lasciate che i bambini vengano da me; non impediteglielo, perché Dio dà il suo regno a quelli che sono come loro. Io vi assicuro: chi non lo accoglie come farebbe un bambino non vi entrerà.»
Poi prese i bambini tra le braccia, e li benediceva posando le mani su di loro.

Commento:
(tratto in parte da un testo di padre Enrico Deidda)
Questi brani del Vangelo hanno in comune il mettere al centro la persona umana. Nel primo, la guarigione dell’uomo con la mano paralizzata, Gesù invita l’uomo a porsi nel mezzo, quasi a dire: supera il tuo stato di inferiorità, che ha provocato nella tua vita quella vergogna di presentarti in pubblico, mettiti lì al centro, in mezzo, al posto di Dio. 
E così pure, nel secondo brano, Gesù mette al centro un bambino, dà il posto di Dio a un debole, a un bambino, dicendo:“Se non mi vedrete come uno di questi bambini, non entrerete nel Regno dei cieli”.
Sempre Padre Enrico Deidda, gesuita,mette in evidenza come “la persona umana sia al centro della Sacra Scrittura e del Magistero della Chiesa”,e ricorda nel suo commento a questi brani evangelici, anche il pensiero di Hermann Hesse, tedesco, premio Nobel della letteratura, il quale, formatosi nei primi anni della sua adolescenza in India, perché nipote di un pastore protestante tedescomissionario in India, assorbì molto dell’attenzione verso l’interiorità della persona umana.In uno dei suoi romanzi Hesse scrive:
“Certo che cosa sia un uomo realmente vivo si sa oggi meno che mai e perciò si ammazzano gli uomini in grandi quantità, mentre ognuno di essi è un tentativo prezioso e unico della natura. Se non fossimo qualcosa di più di uomini unici, se si potesse veramente togliere di mezzo ognuno di noi con una pallottola, non ci sarebbe ragione di raccontare storie. Ogni uomo però non è soltanto se stesso, ma anche il punto unico, particolarissimo, dove i fenomeni del mondo si incrociano una volta sola, senza ripetizione. Perciò, la storia di ogni uomo è importante, eterna, divina; perciò ogni uomo fintanto che vive e in qualche modo adempie il volere della natura, è meraviglioso e degno di ogni attenzione. In ognuno lo spirito ha preso forma, in ognuno soffre il creato, in ognuno si crocifigge un Redentore. Oggi pochi sanno che cosa sia l’uomo. Molti lo sentono e perciò muoiono con maggiore facilità, come io morirò più facilmente quando avrò finito di scrivere questa storia”.
Qui viene “inquadrata bene l’unicità dell’uomo, l’irripetibilità di ogni essere umano e, nello stesso tempo, il suo essere messo come crocevia e punto di incontro: non soltanto noi, tanti “sentierini” paralleli che non si incontrano pur nella meraviglia di ognuno di noi, ma incroci, intersezioni, in cui ogni uomo è importante perché può essere un crocevia positivo di incontro, e non una diga di sbarramento.”
Da questo testo e da vari brani evangelici e biblici emerge la centralità dell’uomo concreto, l’uomo nel suo essere comunitario e sociale, l’uomo nelle sue contraddizioni, l’uomo che ha delle aspirazioni grandissime e che pure spesso è debole e disorientato e, nella realtà contemporanea dominata dalla tecnologia, apparentemente marginale.
2. Un tema sempre presente nella nostra riflessione: la persona umana nella sua verità e unicità
Nell’incontro di oggi, anche richiamando questi spunti, vorremmo riprendere alcune riflessioni fatte la domenica di Pasqua, intorno al tema della resurrezione e, in senso più lato, a quello della vita umana, e del senso che acquisisce se la pensiamo in relazione al messaggio evangelico.
Aveva osservato Giuseppe, commentando il racconto del Vangelo di Luca (24,13-35), della prima apparizione di Gesù agli apostoli a Emmaus, dopo la sua morte, che:
La resurrezione è per i discepoli una presa di coscienza, attraverso gesti concreti, del significato della missione di Gesù, al di là delle loro aspettative più o meno interessate. E' conversione verso un modo diverso di concepire la vita e l'impegno sociale, non più relegato a un livello strettamente politico e affidato prevalentemente a un salvatore a noi estraneo; è scoperta dell'importanza dello 'spezzare il pane' per condividerlo con gli altri, nella solidarietà verso i più bisognosi. La resurrezione è un'esperienza intima, percepita nel più profondo di noi e che non si è mai prima immaginata come possibile; un'esperienza concreta della vitalità degli ideali di Cristo, che spingono necessariamente ad attivare un impegno entusiasta per realizzarli. Infattii discepoli ritornano immediatamente a Gerusalemme, nonostante il buio, per far partecipi tutti della loro scoperta…Credere nella resurrezione di Cristo significa quindi impegnarsi in quei valori che lo hanno contraddistinto, non solo come singoli individui, ma come comunità che vuole realizzare una società secondo i valori della condivisione e della solidarietà.
E ancora avevamo ricordato uno scritto di Enzo sul senso della Pasqua e della resurrezione (Cristo risorto per chi?, in “L’Unità”, 3 aprile 1997). In contrapposizione a una visione prevalente nella teologia dominante, che sottolinea l’aspetto miracoloso della resurrezione, per cui "Gesù risorto" era stato trasformato in "Gesù rinvivito", Enzo scriveva:
Forse allo stato delle cose non è facile percepire la differenza, ma c'è ed è grande. "Gesù risorto" può essere interpretato come esperienza mistica, spirituale, al limite se si vuole anche politica (la speranza dell'oppresso che non cede di fronte al supplizio e non si arrende al patto fra il potere e la morte). "Gesù risorto" può essere un'esperienza universale da attualizzare e rivivere in ogni epoca da ogni generazione e persona. Può costituire un contributo originale di senso, di comprensione e di accettazione positiva e creativa al dramma umano, e per chi vuole divino, che si svolge tra i due poli perennemente in tensione e sempre intrecciati della vita e della morte.
Ancora nel giorno di Pasqua, a partire da questi spunti, si è parlato di resurrezione “in questa vita”, nella vita di ognuno che può vivere un’esperienza di rigenerazione e di recupero del senso della propria esistenza.
Andando avanti in questo percorso abbiamo riletto alcuni scritti di Enzo e riflettuto intorno al fatto che dietro a molti dei temi che lui affronta (violenza del sacro e incontro del sacro con la vita; considerazione degli avvenimenti storici dal punto di vista degli ultimi/processo di affermazione dell’umanesimo sociale;valore della memoriae della sua forza generativa come recupero dei frammenti di storia dei singoli e degli esclusi…) c’è proprio questa grande attenzione per ogni singola persona, per quello che può esprimere nel suo percorso personale, nella verità della sua esperienza umana, nel suo vivere all’interno di una comunità.
Anche attraverso le figure di pensatori, filosofi, religiosi come Bruno, Savonarola, Bonaiuti, su cui si sofferma nei suoi libri (per es. Il valore dell’eresia, 2010), segue nei secoli le tracce di percorsi di autonomia e consapevolezza dell’uomo e della donna, portati avanti non, o non solo, sul piano della ricerca teorica, ma su quello della testimonianza di vita. 
In uno scritto del 2004 (Come se Dio non ci fosse: la laicità come modo di essere e agire complessivo, rielaborazione di una relazione presentata nel 2001 al 4° Seminario estivo di spiritualità e politica, Acireale),dichiara infatti che la sua «attenzione è da molto tempo rivolta soprattutto ai “testimoni”, a coloro cioè che pensano con la vita pratica e non solo con la mente. Le idee – dice sostanzialmente Fromm – cambiano le idee ma non la pratica di vita. Sono le scelte pratiche coerenti con profonde convinzioni ideali che cambiano i modi di essere delle persone e delle società».
In questo scritto si sofferma su alcuni di questi “testimoni”:
Dietrich Bonhoeffer (1906–1945), teologo e pastore evangelico impiccato nel lager di Flossemburg il 9 aprile 1945, fondatore della “Chiesa confessante”, che pagò con la vita la scelta di rientrare in Germania dagli Stati Uniti per cospirare attivamente contro Hitler. In una lettera scritta nel carcere di Tegel il 30 aprile 1944 Bonhoeffer, intorno al fondamentale postulato “come se Dio non ci fosse”, orienta in una direzione del tutto nuova il pensiero teologico.
Scrive Enzo: «La pubblicazione di Lettere e scritti dal carcere (Resistenza e resa) faceva intravedere orizzonti teologici di una arditezza da infrangere i confini di tutte le sistemazioni ideologiche delle chiese cristiane e di tutte le altre istituzioni religiose. Squarci di liberazione e di speranza si aprivano a chi cercava una luce, scosso e ottenebrato nel più profondo della coscienza e della fede dalla lontananza o dalla impotenza di Dio di fronte agli orrori mai visti di una guerra senza limiti. E ancora oggi tali squarci si aprono a chi legge o rilegge di un “cristianesimo senza religione” in un “mondo maggiorenne” e di una vita secolare che diviene autenticamente umana nella misura in cui si libera dalla dipendenza dall’idea religiosa di Dio. Vivere e operare “come se Dio non esistesse” fonda la ricerca promettente di una “fede laica perché radicata nella Parola di Dio e in quella sola, parola viva, storicamente dinamica, non pietrificata, non soggetta alla mediazione delle chiese”. Queste idee hanno fatto ormai il giro del mondo e sono rimasticate in tutte le lingue: Il motivo per cui ne parlo sta nel fatto che in realtà non erano idee quanto piuttosto espressione ideale di vita e storia perennemente in divenire.»

Simone Weil(1909-1943), nata a Parigi da una famiglia ebrea, fu studentessa all'Ecole Normale e insegnante di filosofia in vari licei. Militante dell'estrema sinistra rivoluzionaria, nel 1934, spinta dall'esigenza interiore di conoscere direttamente le peggiori condizioni di vita dei lavoratori, troncò la professione e gli studi puramente teorici per lavorare come operaia alla Renault di Parigi: fu un duro ma per lei entusiasmante inserimento nella vita. Ammalata, fu costretta a lasciare l'officina. Al 1937 risale la svolta mistica, che si traduce in una fede vissuta con grandissima intensità. Anche lei rientrò in Europa dagli Stati Uniti richiamata dall'impegno contro il totalitarismo; morì a soli 34 anni nel sanatorio di Ashford in Inghilterra. Di lei scrive Enzo:
 “La filosofa francese viene sbrigativamente definita ebrea-cattolica. In realtà sarebbe forse più rispettoso dire che era ebrea-non ebrea in quanto non solo non era praticante ma era assai critica della religione ebraica e sospettosa verso il Dio biblico. Era cristiana-non cristiana perché si è avvicinata a Cristo per delle folgorazioni mistiche ma non ha mai aderito formalmente a nessuna chiesa e non è stata battezzata. E’ molto ferma nel definire atea la razionalità, mentre la religione è per lei puro amore gratuito, senza motivazioni razionali. E laico è stato il suo impegno in una straordinaria esperienza di solidarietà con le vittime del rovescio oscuro del mondo occidentale moderno, operaia in fabbrica, brigatista nella guerra civile spagnola, animatrice del movimento anticoloniale, è anch’essa angosciata dal conflitto fra l’onnipotenza divina e la sofferenza umana: “Ho un sentimento di sempre maggiore devastazione, sia nel mio intelletto che al centro del mio cuore, di fronte alla incapacità di pensare contemporaneamente con verità l’infelicità degli uomini, la perfezione di Dio, e il nesso fra le due(….)”.Essa non ha risposte, anzi rifiuta le risposte sia del teismo sia dell’ateismo moderni. Dio non va cercato in Dio ma nei volti delle vittime. Perché Dio è assente come Dio ed è presente solo nella sofferenza e nella dolorosa lotta per sopportare e trasformare la sofferenza stessa. E va ancora più a fondo perché esclude o limita le spiegazioni moralistiche della sofferenza, di ogni sofferenza compresa la passione di Cristo, basate sul peccato. Il sacrificio di Gesù non è un marchingegno con cui Dio risolve dall’alto il problema del peccato e del male. La sofferenza rimane silenziosa sul piano dei principi e delle spiegazioni razionali. E silenzioso rimane il Dio del teismo, il Dio perfezione assoluta e onnipotenza piena. La passione di Cristo va vista come partecipazione di Dio alla sofferenza umana senza spiegazioni e come modello della nostra stessa partecipazione e solidarietà. Di fronte alla sofferenza abbiamo solo il dovere della partecipazione e della solidarietà gratuite senza un perché razionale.”
Pierre Teilhard de Chardin, infine, è citato come portatore di una visione per la quale è “come se Dio non esistesse come realtà esterna ma fosse così intimo a noi più che a noi stessi”.
«..Ha ripreso nel secolo scorso l’intuizione bruniana dell’assenza di Dio come intimità alla natura e all’essere umano… Religioso gesuita, grande scienziato con propensione al misticismo… Geologo e paleontologo, la sua intuizione di fondo sembra essere il “muoversi verso”, cioè la trasformazione finalizzata. Attraverso la sua indagine di rigore scientifico sulla evoluzione biologica giunge alla convinzione che la Biosfera tende alla coscienza, cioè si evolve verso la Noosfera. Ma ciò non avviene perché già all’inizio c’è un ordine precostituito. L’evoluzione non segue una linea ben individuabile, si muove anche a tentoni, a strappi e a impennate inspiegabili. L’ordine è nel futuro, non nel passato: cioè va costruito. L’Universo si dipana nella libertà e nell’autonomia»
L’attenzione per questi testimoni è parte della riflessione costante sul tema della memoria e dell’umanesimo sociale. In uno dei tanti scritti sull’argomento (Via la nebbia dal ‘68, La Repubblica, 28 agosto 1997) Enzo fa riferimento al contributo dato al processo di umanizzazione dai singoli, dalle persone comuni. 
Riferendosi  alla “strategia dell’oblio” e alla “disarticolazione della memoria”, osserva che Essa  riguarda non solo il '68, ma tutto il processo di "umanizzazione sociale" che ha attraversato e animato il nostro secolo ed ha trovato nella stagione sessantottina un momento di eccezionale emersione. Nel gennaio 1955, di fronte alle prospettive angosciose del riarmo mondiale, Albert Einstein sentì il bisogno di rivolgere un messaggio all' umanità che si conclude così: "Noi rivolgiamo un appello come esseri umani ad esseri umani: ricordate la vostra umanità e dimenticate tutto il resto". "Si tratta del capovolgimento puro e semplice dell'umanesimo di cui siamo figli", commenta Ernesto Balducci ne L' uomo Planetario. Il grande scienziato non si levava dalla testa, pur feconda, questo nuovo umanesimo, che io vorrei definire "umanesimo sociale". Egli ha prestato la voce ad un processo storico sviluppatosi per tutto il secolo ed ha contribuito per la sua parte ad animarlo nella propria epoca e a rilanciarlo verso il futuro. Ebbene, il '68 è figlio di tale umanesimo sociale. Il quale non si è affatto esaurito. […]
Da tale processo sgorga una identità sociale tenuta insieme da una memoria unitaria. Le mille e mille memorie particolari non sono separate e disgregate ma formano un'identità: l'identità appunto dell'umanesimo sociale. Ogni più piccolo frammento di memoria, in questa visione unitaria, ha un suo valore, sia che appartenga a un personaggio famoso o a un movimento di grande portata, quale ad esempio il movimento degli scienziati per il disarmo, sia alla persona meno nota. Chi, attraverso la strategia del terrore da piazza Fontana in poi fino alla bomba degli Uffizi passando per la strumentalizzazione della stessa follia terrorista, ha voluto la repressione istituzionale e il soffocamento nel sangue e nella paura del processo storico di modificazione della società dal basso in senso sociale ha bisogno ora che questa verità politica sia completamente oscurata. Per godere i frutti della vittoria su tutti i fronti del liberismo mercantile, bisogna che siano dimenticate le sofferenze inflitte, i prezzi fatti pagare, il sangue versato. L' unico vero nemico, rimasto in piedi, del liberismo è ora la memoria.
Lettura eucaristica
La fede su cui si fonda il nostro vivere,
sia essa fede religiosa o fede laica,
è spinta a rinnovarsi di continuo
dalle vicende gioiose o tragiche della vita e della storia.
E’ tenendoci per mano che riusciamo a dare alla vita
un senso sempre nuovo e al tempo stesso antico,
ricco di tutta la sapienza del cammino umano nei secoli.
Amiamo pensare e credere
che la sapienza è la forza stessa animatrice dell’universo.
E’ la forza che dall'intimo ci spinge a riconoscere questo filo
che ci unisce alle donne e agli uomini di tutti i tempi,
è l'ansia e l'utopia e la ricerca di un mondo
in cui non esistano più gerarchie,
dove le ultime e gli ultimi siano le prime e i primi,
dove possiamo vivere liberamente la differenza
ed arricchirci delle differenze. Essa ci precede e ci attende.
Essa è la fonte che ha animato la testimonianza di Gesù,
il quale, la sera prima di essere ucciso,
durante la cena pasquale con i suoi,
prese del pane, lo spezzò e lo distribuì loro dicendo:
"Prendete e mangiatene tutti, questo è il mio corpo che è dato per voi".
Poi prese il calice del vino, lo diede ai suoi discepoli e disse:
"Prendete e bevetene tutti, questo è il calice del mio sangue
versato per voi e per tutti: fate questo in memoria di me".
Sapienza, condivisione, partecipazione, gioia,
sono oggi le parole che accompagnano la nostra Comunità
la quale, insieme a tutte le donne e gli uomini di buona volontà,
cerca di dare alla vita un senso sempre rinnovato
senza perdere una goccia di tutta la sapienza del cammino umano nei secoli, compresa la sapienza, la forza e la fede dischiuse dal Vangelo.
Approfondimenti:
Su D.Bonhoeffer
Nella lettera del 30 aprile 1944 da Tegel, di cui qui riportiamo i passi piú significativi, Bonhoeffer annuncia il suo programma teologico: trovare un linguaggio nuovo per l’annuncio in un mondo non piú religioso.
 
D. Bonhoeffer, Resistenza e resa
 
Ciò che mi preoccupa continuamente è la questione di che cosa sia veramente per noi, oggi, il cristianesimo, o anche chi sia Cristo. È passato il tempo in cui questo lo si poteva dire agli uomini tramite le parole – siano esse parole teologiche oppure pie –; cosí come è passato il tempo della interiorità e della coscienza, cioè appunto il tempo della religione in generale. Stiamo andando incontro ad un tempo completamente non-religioso; gli uomini, cosí come ormai sono, semplicemente non possono piú essere religiosi. Anche coloro che si definiscono sinceramente “religiosi”, non lo mettono in pratica in nessun modo; presumibilmente, con “religioso” essi intendono qualcosa di completamente diverso.
Il nostro annuncio e la nostra teologia cristiani nel loro complesso, con i loro 1900 anni, si basano però sull’“apriori religioso” degli uomini. Il “cristianesimo” è stato sempre una forma (forse la vera forma) della “religione”. Ma se un giorno diventa chiaro che questo “apriori” non esiste affatto, e che s’è trattato invece di una forma d’espressione umana, storicamente condizionata e caduca, se insomma gli uomini diventano davvero radicalmente non religiosi – e io credo che piú o meno questo sia già il caso (da che cosa dipende ad esempio il fatto che questa guerra, a differenza di tutte le precedenti, non provoca una reazione “religiosa”?) – che cosa significa allora tutto questo per il “cristianesimo”? Vengono scalzate le fondamenta dell’intero nostro “cristianesimo” qual è stato finora, e noi “religiosamente” potremo raggiungere soltanto qualche “cavaliere solitario” o qualche persona intellettualmente disonesta. Dovrebbero essere questi i pochi eletti? Dovremmo gettarci zelanti, stizziti o sdegnati proprio su questo equivoco gruppo di persone per smerciar loro la nostra mercanzia? Dovremmo noi aggredire qualche infelice colto in un momento di debolezza e per cosí dire, violentarlo religiosamente? Se non vogliamo niente di tutto questo, se alla fine anche la forma occidentale del cristianesimo dovessimo giudicarla solo uno stadio previo rispetto ad una totale non-religiosità, che situazione ne deriverebbe allora per noi, per la Chiesa? Come può Cristo diventare il signore anche dei non-religiosi? Ci sono cristiani non-religiosi? Se la religione è solo una veste del cristianesimo – e questa veste ha assunto essa pure aspetti molto diversi in tempi diversi – che cos’è allora un cristianesimo non-religioso?
Barth, che è stato l’unico ad aver cominciato a pensare in questa direzione, non ha poi portato a termine e pensato fino in fondo queste idee, ma è pervenuto invece ad un positivismo della rivelazione (Offenbarungspositivismus) che in fin dei conti s’è ridotto ad una sostanziale restaurazione. Qui l’operaio non-religioso o l’uomo in generale non hanno guadagnato nulla di decisivo. Le risposte cui bisognerebbe rispondere sono invece: che cosa significano una Chiesa, una comunità, una predicazione, una liturgia, una vita cristiana in un mondo non-religioso? Come parliamo di Dio – senza religione, cioè appunto senza i presupposti storicamente condizionati della metafisica, dell’interiorità ecc. ecc.? Come parliamo (o forse appunto ormai non si può piú “parlarne” come s’è fatto finora) “mondanamente” (weltlich) di “Dio”, come siamo cristiani “non-religiosi-mondani”, come siamo ek-klesía, cioè chiamati-fuori, senza considerarci religiosamente favoriti, ma piuttosto in tutto e per tutto appartenenti al mondo? Cristo allora non è piú oggetto della religione, ma qualcosa di totalmente diverso, veramente il signore del mondo. Ma che significa questo? Che significato hanno il culto e la preghiera nella non-religiosità? Acquista forse una nuova importanza a questo punto la disciplina dell’arcano, ovvero la mia distinzione (che tu già conosci) tra penultimo e ultimo?[...]
Spesso mi chiedo perché un “istinto cristiano” mi spinga frequentemente verso le persone non-religiose piuttosto che verso quelle religiose, e ciò assolutamente non con l’intenzione di fare il missionario, ma potrei quasi dire “fraternamente”. Mentre davanti alle persone religiose spesso mi vergogno a nominare il nome di Dio – perché in codesta situazione mi pare che esso suoni in qualche modo falso, e io stesso mi sento un po’ insincero (particolarmente brutto è quando gli altri cominciano a parlare in termini religiosi; allora ammutolisco quasi del tutto, e la faccenda diventa per me in certo modo soffocante e sgradevole) – davanti alle persone non-religiose in certe occasioni posso nominare Dio in piena tranquillità e come se fosse una cosa ovvia. Le persone religiose parlano di Dio quando la conoscenza umana (qualche volta per pigrizia mentale) è arrivata alla fine o quando le forze umane vengono a mancare – e in effetti quello che chiamano in campo è sempre il deus ex machina, come soluzione fittizia a problemi insolubili, oppure come forza davanti al fallimento umano; sempre dunque sfruttando la debolezza umana o di fronte ai limiti umani; questo inevitabilmente riesce sempre e soltanto finché gli uomini con le loro proprie forze non spingono i limiti un po’ piú avanti, e il Dio inteso come deus ex machina non diventa superfluo; per me il discorso sui limiti umani è diventato assolutamente problematico (sono oggi ancora autentici limiti la morte, che gli uomini quasi non temono piú, e il peccato, che gli uomini quasi non comprendono?); mi sembra sempre come se volessimo soltanto timorosamente salvare un po’ di spazio per Dio; – io vorrei parlare di Dio non ai limiti, ma al centro, non nelle debolezze, ma nella forza, non dunque in relazione alla morte e alla colpa, ma nella vita e nel bene dell’uomo. Raggiunti i limiti, mi pare meglio tacere e lasciare irrisolto l’irrisolvibile. La fede nella resurrezione non è a “soluzione” del problema della morte. L’“aldilà” di Dio non è l’aldilà delle capacità della nostra conoscenza! La trascendenza gnoseologica non ha nulla che fare con la trascendenza di Dio. È al centro della nostra vita che Dio è aldilà. La Chiesa non sta lí dove vengono meno le capacità umane, ai limiti, ma sta al centro del villaggio. Cosí stanno le cose secondo l’Antico Testamento, e noi leggiamo il Nuovo Testamento ancora troppo poco a partire dall’Antico. Attualmente sto riflettendo molto su quale aspetto abbia questo cristianesimo non-religioso, e quale forma esso assuma; te ne scriverò presto ancora e piú a lungo. Forse a questo proposito a noi che ci troviamo al centro tra est ed ovest tocca un compito importante.
D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, Paoline, Milano, 1988, pagg. 348-350
(http://www.filosofico.net/Antologia_file/AntologiaB/BONHOEFFER)
Su S.Weil
Da S.Weil, a cura di A.Magnanimo (http://www.filosofico.net/weil.htm)
… La vicenda umana e intellettuale di Simone Weil appare profondamente segnata dalle vicende dei totalitarismi della seconda guerra mondiale.
Il suo pensiero è caratterizzato da un forte principio di realtà, nonché dall' esigenza di ancorarlo al contesto sociale e politico di appartenenza (del quale sperimentava, spesso in prima persona, le condizioni). ... L' analisi filosofica di Simone Weil, asistematica e originale, difficilmente collocabile all' interno di correnti tradizionali, ha finito per passare in secondo piano rispetto al vissuto dell'autrice. Tutte le sue opere sono state pubblicate postume.
Alla base dell'ingiustizia, prima ancora della proprietà privata e dei mezzi di produzione, vi è la separazione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale, fra funzioni direttive e funzioni esecutive. Con lo sviluppo dell'economia e conseguentemente della divisione del lavoro, aumenta la dipendenza dell'individuo. Tale dipendenza diviene soggezione al potere. Dopo l'esperienza storica dell'oppressione attuata con la forza delle armi e di quella prodotta dalla ricchezza concentrata nel capitale privato, l'umanità comincia a sperimentare una forma nuova di oppressione determinata dalla divisione del lavoro che costringe l'uomo a forme estreme di specializzazione. Viviamo in un mondo dove nulla è a misura dell'uomo, dove tutto è squilibrio e la società è collettività cieca, trasformata in una macchina per comprimere cuore e spirito per fabbricare l'incoscienza.
 Separando il lavoro dalla conoscenza, la società moderna e soprattutto la società industriale, che ha aumentato enormemente la complessità della sua organizzazione, hanno posto le condizioni per un potere sempre più forte che tende a riprodursi anche là dove è stata fatta la rivoluzione.
Dopo la bellezza, il tema principale che la Weil sviluppa nelle sue opere è l'oppressione, vista come schiavitù dell'uomo. In Opposizione e libertà .Weil scrive che mai come in questo momento l'individuo è stato così completamente abbandonato ad una collettività cieca, mai gli uomini sono stati più incapaci non solo di sottomettere le loro azioni ai propri pensieri, ma persino di pensare. […]“Dopo mesi di tenebre interiori, ebbi d’improvviso e per sempre la certezza che qualsiasi essere umano, anche se le sue facoltà naturali sono pressoché nulle, penetra in questo regno della verità riservato al genio, purché desideri la verità e faccia un continuo sforzo d’attenzione per raggiungerla: in questo modo diventa egli pure un genio, anche se per mancanza di talento non può apparire tale esteriormente”  (lettera a padre Perrin del 15 maggio 1942)
Nel 1940 Simone Weil coglie incoerenze e assurdità politiche e religiose che la obbligano a scrivere al ministro Petain, che polemizza con Jéromo Carcopino, per lo "Statuto des Juifis"emanato dal governo Pètain.
S. Weil afferma  la propria estraneità alla tradizione ebraica. “Niente ho ereditato dalla religione ebraica. Posso dire che ho imparato a leggere sugli scrittori francesi del XVII, su Racine, su Pascal e ne ho nutrito la mente in un'età in cui non avevo mai sentito parlare degli ebrei.Perciò se c'è una tradizione religiosa che considero mio patrimonio, questa è senz'altro la tradizione cattolica, (universale).
“La tradizione cristiana, francese, ellenica questa è la mia religione; nessun testo di legge può far si che la realtà sia diversa”.Affermazioni veritiere, che testimoniano un modo d'essere, probabilmente diffuso nelle famiglie della borghesia francese tra le due guerre mondiali, ormai ben assimilate e lontane da ogni residua eredità di pratiche e credenze religiose, queste famiglie hanno rimosso dalla vita quotidiana ogni traccia della propria appartenenza alla tradizione ebraica. Simone Petrément, sua amica e principale biografa racconta che solo a dieci anni S. Weil scopre la distinzione tra ebrei e gentili, fino allora, aveva creduto che il termine "ebreo." scoperto nelle pagine di Balzac, fosse uno dei sinonimi di "usuraio".
La piena assimilazione e dissoluzione di ogni traccia di identità ebraica è il contesto in cui cresce Simone Weil.... Dopo il 1940 per ragioni... specificamente teologiche non può fare a meno... dianalizzare e criticare l'ebraismo... : " l'Antico testamento, la storia, e il presente degli ebrei. Relative alle mostruosità di una religione che pretende di coniugare divinità e potenza  "
"Quasi ossessivamente Simome Weil ribadisce la differenza... che separa e isola Israele dagli altri popoli del Mediterraneo antico. Ipotizza  che anche allora sia qualcosa così scandaloso da giustificare il silenzio, altrimenti incomprensibile di Erodoto sugli Ebrei."
Secondo Simone Weil: "L'unicità di Israele ... sta nel suo caparbio rifiuto, almeno sino all'esilio babilonese nel VI secolo, dell'idea del divino che dagli egizi si diffonde in tutte le altre culture mediterranee, ... grazie alla mediazione di Pitagora e Piatone, cioè che Dio è il Bene, e che per essere riconosciuto, amato come Bene Dio si spoglia dell'attributo della potenza, presentandosi al credente in veste di supplice, sofferente e tremante fronte alla morte.
La Passione non la Potenza unisce Cristo, Osiride,. Dioniso, Persefone, persino Zeuz, narrano a Tebe, in Egitto, si mostro infine ai suoi fedeli, cedendo alle loro preghiere, solo dopo essersi rivestito delle spoglie simboliche di un agnello scozzato.
Mosè, sostiene S: Weil: "Cresciuto all'interno  della società e cultura egizia,conosceva...l'idea del divino, mediata dalla passione redentrice di Osiride, e l'ha rifiutata, il suo Dio, il Dio di cui annuncia la parola, l'Onnipotente che promette ai credenti, in cambio della loro fedeltà, regni e ricchezze e che ordina e autorizza crudeltà e ingiustizie atroci: un Dio degli eserciti,della forza e della violenza, nelle mani di profeti e sacerdoti che lo utilizzano al fine di rafforzare il regno e la
coesione del popolo ebraico.
È difficile immaginare un Jahvè supplicante, sostiene S.Weil: Caso mai, questo Dio ha ben dei tratti demoniaci, le sue promesse ricordano a S.Weil   ( non solo a lei, anche a me., a Danilo,a Gigi,....tanto per citare la Comunità) che Israele è storia di massacri e ferocia, storia di un'idolatria che trova il suo compimento e il suo esito nell'idea detestabile del popolo eletto. l'In realtà ...Israele è il popolo eletto soltanto in quanto scelto da Dio per la nascita e la morte di Gesù, ...soprattutto, per la sua morte, infatti gli ebrei hanno giocato un ruolo importante nell'assassinio del Cristo,...; all'origine della sua cattura e del suo deferimento all'autorità romana sta la convinzione di sacerdoti e farisei che Gesù non fosse in grado di condurre vittoriosamente gli ebrei in un conflitto con gli eserciti di Roma. Lo hanno ucciso perché non faceva altro che il Bene.   Un modo incompatibile agli occhi di uomini e donne nutriti dalla religiosità ebraica. L'ebraismo non è altro che questa cecità al bene, all'essenza autentica di Dio .... Ed insidiosa è l'eredità dell'ebraismo nella cultura europea e nella vita della chiesa cattolica, ogni traccia di idolatria, fanatismo, deriva  in definitiva dal modello ebraico.   Ciò che noi chiamiamo idolatria è in gran parte una invenzione del fanatismo giudaico...  Se alcuni ebrei dell'antichità resuscitassero, e si dessero loro delle armi,ci stermine- rebbero tutti, uomini, donne e bambini, in quanto colpevoli di idolatria – inconsapevoli del fatto che l'idolatria peggiore è il culto di un Dio che è potenza” E questa contaminazione che l'idea di Dio porta in sé nell'Antico Testamento impregna anche la storia della Chiesa, la macchia irrimediabilmente, pervertendo l'autentico significato della predicazione del Cristo, che troverebbe compimento se ogni traccia di giudaismo venisse rimossa dalle dottrine della Chiesa e si riallacciasse con forza il legame tra cristianesimo e mondo ellenico
(magari con ulteriori aperture alle culture del Mediterraneo antico e a elementi comuni anche alle religioni indiane e cinesi) presentito nelle correnti gnostiche, nel manicheismo, e forse nei catari della Provenza. Secondo S.Weil  il libro di Giobbe è una pura meraviglia di verità e autenticità. Sul tema della sventura, tutto quel che si distanzia da questo modellò è più o meno macchiato dalla menzogna: ....nella sventura, nelle sue piaghe uomini e donne apprendono che anche l'anima, come materia,è simile all'acqua- che quel che crediamo sia il nostro io è un prodotto fuggitivo e automatico
( da –Il fardello dell’identità,  le radici ebraiche – a cura di R. Peverelli, 2014)



Domenica 06 Maggio,2018 Ore: 19:14
 
 
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