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www.ildialogo.org QUESTO NOSTRO TEMPO, TEMPO DI RESISTENZA E DI SVOLTA,di Raffaello Saffioti

LETTERA AL DIRETTORE
QUESTO NOSTRO TEMPO, TEMPO DI RESISTENZA E DI SVOLTA

L’ASSEMBLEA NAZIONALE DEL 2 DICEMBRE 2017 DI “CHIESA DI TUTTI CHIESA DEI POVERI” – L’INTERVENTO DI PADRE FELICE SCALIA


di Raffaello Saffioti

Caro Direttore,
vado ripensando l’esperienza dell’assemblea nazionale di “Chiesa di Tutti Chiesa dei Poveri”, del 2 dicembre scorso a Roma, alla quale ho partecipato attratto dal tema “Ma viene un tempo ed è questo”, oltre che dai titoli delle relazioni e dai nomi dei relatori, spinto anche dai documenti preparatori.
Ero stato suggestionato dal tema tratto dal passo del Vangelo di Giovanni, col discorso ad una donna samaritana, al pozzo di Giacobbe (4, 23-24):
“Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità».
E’ il caso di richiamare i temi delle relazioni coi nomi dei relatori:
  1. “In quale tempo accade il MA del tempo sperato” – Raniero La Valle;
  2. “Il MA di papa Francesco dopo quale storia della Chiesa” – Daniele Menozzi;
  3. “Il MA del Vangelo nella sofferenza del mondo” – Giuseppe Ruggieri;
  4. “Il MA della ‘sola misericordia’” – Rosanna Virgili;
  5. “Il MA della ragione per una civiltà senza genocidio” – Luigi Ferrajoli.
L’assemblea era il seguito di altri incontri promossi da una rete di associazioni e di cristiani qualunque, a cinquant’anni dal Concilio Vaticano II, con quattro assemblee annuali che si tennero a Roma dal 2012 al 2015. E’ stata una vasta iniziativa di base che si è chiamata “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri”. La giornata mi si è rivelata interessante e stimolante nel suo svolgimento, intensa e ricca sia per le relazioni che per il dibattito e le conclusioni tratte da Raniero La Valle.
La ricchezza più grande della giornata è, dal mio punto di vista, nell’aver dato ai partecipanti materia abbondante per lo studio, la riflessione e la domanda ad ognuno perché faccia la sua parte e si assuma la sua responsabilità nella ricerca della via d’uscita dal pericolo della catastrofe incombente.
Mi aveva colpito l’apertura dell’assemblea che volle essere “aperta a tutte le persone interessate (a cominciare dai teologi, ma anche da quei teologi che sono i semplici cristiani, fino a quanti non si ritengono o non sono né teologi né cristiani”.
L’assemblea, convocata dal gruppo dei promotori e organizzatori di “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri”, è stata offerta ai partecipanti come “forum” di discussione e proposta di riflessione, nella prospettiva di incontri futuri, basata sulla coscienza della crisi epocale che stiamo vivendo.
QUESTO NOSTRO TEMPO.
E’ stata considerata la novità della crisi del nostro tempo, giudicata “epocale” e se ne sono cercati i segni.
“Siamo a un cambiamento d’epoca, cioè tra una fine e un principio, o piuttosto a una fine che incorpora un principio” (Raniero La Valle).
E’ stata proprio la prima relazione, quella di La Valle, che ha cercato di “discernere dove stanno i veri cambiamenti” e di individuare le vie alternative.
Nel contesto del tempo della globalizzazione, con tutte le sue contraddizioni, si pone il pontificato di Papa Francesco, con la sua linea pastorale. Questo pontificato viene visto come “il simbolo del nuovo tempo che viene”.
LA FEDE LA RAGIONE LE COSTITUZIONI LA POLITICA” è il titolo di un ottimo resoconto dell’assemblea, pubblicato sul sito di “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri”. (chiesadituttichiesadeipoveri.it)
Di questo resoconto riporto il passo riguardante i risultati dell’assemblea:
“Tra i risultati dell’assemblea c’è l’adozione dell’appello a resistere (katécon) che così è stato fatto proprio anche da Chiesa di tutti Chiesa dei poveri, con l’impegno che ne consegue a costruire “un mondo Patria di tutti Patria dei poveri”, la decisione di chiedere alla CEI delle importanti correzioni nella traduzione dei testi biblici e liturgici, la proposta di assumere come temi prioritari di impegno per le comunità e la Chiesa italiana la pace, l’azione a favore del trattato per l’interdizione dell’arma nucleare e specifici temi di riforma come quelli riguardanti la scarsità dei ministri, il ruolo della donna, l’insegnamento della religione, l’accorpamento delle parrocchie.
Tutto ciò perché, come è stato detto, la ragione che accomuna le diverse comunità e gruppi locali nella “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri” non può esaurirsi nelle occasioni assembleari; ed è stato anche detto che la prossima assemblea non dovrebbe essere convocata e predisposta se non dopo che, con un lavoro alla base sociale, sia stato assicurato che ad essa partecipi una folta rappresentanza di giovani: perché sono poi loro i protagonisti del futuro voluto e sperato.
È giunto, nel corso dei lavori dell’assemblea, la notizia che a papa Francesco a Dacca ha infine pronunciato il nome dei Rohingya, dicendo che “la presenza di Dio oggi si chiama anche Rohingya”.
 
Caro Direttore,
lo scopo di questa Lettera non è solo quello di richiamare l’assemblea di “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri” del 2 dicembre scorso, ma anche quello di trasmetterti il testo dell’intervento di Padre FELICE SCALIA.
E’ stato uno degli interventi che ho seguito con maggiore attenzione e nel quale mi sono riconosciuto.
Per dire di Padre Scalia, che tu ed io abbiamo avuto il piacere di conoscere, mi torna opportuno citare quanto ha scritto ORTENSIO da SPINETOLI in L’inutile fardello, Chiarelettere editore, 2017, p.65:
“Le mie indicazioni possono apparire troppo innovative, ma rispetto al progresso che ha fatto, sta facendo in questi ultimi anni e farà presto la scienza biblico-teologica, i competenti e gli informati non possono che definirle «conservatrici» (v. Hans Kung, Eugen Drewermann, Mattheu Fox, John Dominic Crossan, John Shelby Spong, Roger Lenaers, José Arregui, da noi Augusto Cavadi, Vito Mancuso, Felice Scalia, per far solo qualche nome; tutta gente che purtroppo la gerarchia ignora quando non condanna ma che ormai fanno scuola dentro e fuori l’istituzione”.
Ho percepito quello di Padre Scalia come un intervento forte e coraggioso, ma in linea con la linea emersa nell’assemblea.
Ho voluto trascriverlo, riprendendolo dalla videoregistrazione di Radio Radicale. E’ stato rivisto dall’Autore che mi ha autorizzato ad usarlo.
Mi sembra di grande interesse e meritevole di essere diffuso.
Roma, 15 gennaio 2018
Raffaello Saffioti
Centro Gandhi – PALMI (RC)
***

 

CHIESA DI TUTTI CHIESA DEI POVERI
Roma 2 dicembre 2017
ASSEMBLEA NAZIONALE SUL TEMA
“Ma viene un tempo ed è questo”

 
DIBATTITO
 Intervento di Padre FELICE SCALIA (dalla video-registrazione di Radio Radicale, rivisto dall’Autore)

 
La mia prima reazione al titolo di questa assemblea fu vissuta in termini che potrei dire agghiaccianti. “Ma viene un tempo ed è questo”, mi richiamava alla necessità storica di toglierci finalmente la ‘maschera’ che nasconde una nostra identità umana e cristiana a dir poco, piuttosto disonorevole.
In un Occidente che nega il diritto di esistere a milioni di persone, ci si può’ ancora dire cristiani? Se ipocritamente continuiamo a farlo è perché abbiamo indossato una maschera di perbenismo affaristico che spacciamo per cristianesimo.
Ovviamente l’argomento dell’assemblea non era così allarmistico, ma non per questo meno pressante. Il senso del nostro convenire l’hanno dato questa mattina diversi Relatori. L’ha spiegato Raniero La Valle, l’ha ribadito il professore Ferrajoli. Tuttavia vorrei ritornare sulla mia prima interpretazione del titolo dell’Assemblea, quasi a volere sottolineare l’urgenza della conversione a cui ci richiama la provvidenziale presenza di Papa Francesco a Roma.
Ho la precisa sensazione che da tempo abbiamo smesso di essere umani e cristiani. Non siamo più umani, non siamo più cristiani, anche se ci diciamo tali. È costosa questa operazione di camuffamento. Significa essere costretti ad indossare divise di oscenità e ipocrisia.
Quando – finita la guerra - per un breve periodo siamo stati davvero umani, abbiamo affermato il diritto di tutti ad avere diritti. Poi abbiamo smesso di dire cose simili, ed abbiamo preteso da centinaia di milioni di persone il “dovere” di non pretendere tanto, di non reclamare i propri diritti. Che esistessero pure ma da rifiuti, esuberi, paria.
Non da oggi ma da secoli, abbiamo anche smesso di poterci dire cristiani. L’Europa privilegiata è stata costruita da cristiani che tranquillamente hanno creduto di potere mettere insieme Vangelo e rapina, Vangelo e sterminio di popoli. Cristiani che hanno conquistato e schiavizzato, che sono stati colonialisti, che sono giunti a giustificare il “diritto di conquista”, cioè il diritto ad usare “la forza come fondamento della giustizia”. Esattamente quello che rivendicano gli “empi”, sragionando, secondo il testo biblico di Sapienza 2. Cristiani quindi che hanno agito secondo la legge della giungla, non della ragione e tanto meno dell’amore.
Tutto ciò, in modalità diverse, permea la storia contemporanea. Per questo non siamo più umani e non siamo più cristiani. Viviamo contraddicendo il Vangelo, che è esattamente un anelito alla condivisione, alla fratellanza, alla fondamentale uguaglianza nella dignità, di ogni nato da donna.
Gesù è perentorio: Nel mondo gli uomini vivono da nemici in lotta fratricida, ma tra voi non deve essere così perché voi siete fratelli, “Vos, autem, fratres estis”.
Interpellato dalle evocazioni del tema dell’Assemblea sono tra voi per sottolineare che stiamo vivendo un tempo in cui la Chiesa è chiamata a riconoscere queste oscure pagine del passato. È chiamata ad ammettere nella penitenza, di aver abbondantemente tradito Gesù Cristo.
L’ha tradito nel processo primario del suo ripensamento, quando ha trasformato un messaggio di salvezza universale, un avvenimento di gioia per “le nazioni”, in dottrina sofisticata accessibile a pochi “eletti”. Ma l’ha tradito anche quando si è fatta mondanizzare da questo mondo, quando ne ha assunto i parametri, perfino l’organizzazione istituzionale, invece di evangelizzarlo.
Non avremmo avuto la Riforma se, appunto, avessimo predicato il Vangelo di Gesù, e non il Vangelo adattato a noi.
Per me allora “Viene un tempo ed è questo”, è anche un invito ad andare oltre i 50 anni di anticoncilio che abbiamo vissuto. È il tempo di riprenderci questo mezzo secolo. È questo nostro il tempo in cui tutta questa storia dolorosa di avversione al Vaticano II può essere ribaltata. Perché Papa Francesco nel suo pontificato si riferisce esattamente a una ripresa del Concilio e ad una ripresa genuina dell’immagine di Dio che ci ha dato Gesù.
Abbiamo un’occasione unica per dare speranza ad un mondo in guerra e consacrato alla belluinità. Sarebbe criminale non coglierla.
Del resto, quale alternativa abbiamo? Forse solo quella malaugurata che nessuno si aspetta. Così orribile da non volerla pensare neppure possibile. Si chiama guerra, sangue, rivoluzione dei poveri, perché se c’è questo processo di pauperizzazione del pianeta, per quanto tempo resisteranno i poveri a starsene zitti?
Gli esclusi dalla vita, i poveri che a centinaia di milioni si muovono in cerca di spazi davvero vitali, attuano per ora una sorta di assedio al diritto ad esistere tramite una invasione pacifica. Questa invasione pacifica interpretata, addirittura, come lo tsunami, questa invasione pacifica della nostra Italia, dove da parte dei benpensanti si presenta l’oppresso come oppressore e la vittima come carnefice, non so fino a quando potrà durare. Non rischia di volgere al peggio? Del resto, sappiamo tutti che una “bella guerra” è stata sempre un grande affare per il nostro sistema capitalistico.
Il nostro allora è tempo di speranza. E di questo tempo noi siamo i responsabili.
Diverso tempo fa Raniero La Valle finiva un suo incontro dicendo “Il Concilio è nelle nostre mani”. Forse oggi è da dire “Il tempo della salvezza è nelle nostre mani”, perché dobbiamo prendere coscienza non delle piccole cose secondarie, che non stavano a cuore a Gesù Cristo, ma di quelle che stavano a cuore a Lui. Sono quelle che dobbiamo avere assolutamente presenti se vogliamo che il mondo e lo stesso messaggio di Gesù abbiano un futuro.
Un’ultima osservazione. Parlare di futuro comporta pensare ai giovani, ma qui dove sono i giovani?
Tanti di questi discorsi, anche in termini allarmati, risalgono a mezzo secolo fa. Allora si parlava ed i giovani comprendevano. Anche quando a denunziare misfatti prossimi futuri (armamenti in una Italia che “ripudiava la guerra”, inquinamento di acque, aria e campi…) era la sinistra democristiana di Donat-Cattin su quella efficace rivista che fu “Settegiorni”. Sì, i giovani leggevano, ascoltavano simili denunzie, ma a distanza di anni ci pare di poter dire che non le hanno prese sul serio. Tanti di loro sono stati travolti da situazioni di sonnolenza indotta dal dilagare della droga, oppure sono rimasti storditi da problemi di sopravvivenza personale.
Forse i giovani oggi sono più interessati a qualche argomento immediato, ma poi si dissolvono, perché vivono in un’altra ben più pressante angoscia, quella del loro avvenire. Mi chiedo cosa possa essere una società che non dà futuro ai propri figli. Eppure è quanto capita.
Se noi siamo oggi in Italia una società di vecchi, significa che siamo diventati sterili, di una sterilità che non è solo biologica. Siamo diventati sterili soprattutto perché non riusciamo a trasmettere speranza e vita, perché non abbiamo niente da dare a questi ragazzi, niente da trasmettere, se non di essere funzione della specie, nel caso migliore. Ma anche questo si può dire vietato per legge, dato che per legge si oscura ogni spiraglio di possibile rinascita di civiltà e di progettualità creativa.
L’esperienza della risposta popolare al tentativo di Renzi di cambiare la Costituzione senza neppure attuarla, ci dice che nulla è inamovibile quando con passione ed impegno si affronta una problema serio. Nella nostra lotta per una società ed una chiesa più ricche di autenticità, è tempo di parlare ai giovani. È il tempo della nostra responsabilità verso le giovani generazioni.
Se ognuno di noi tentasse di avvicinare i ragazzi e di renderli coscienti di quello che li aspetta, probabilmente il nostro prossimo convegno sentirà anche le loro voci e le loro attese.
Discorsi come questi non sono accettati da nessuno se non hanno la testimonianza di una chiesa “altra”, appunto, più fondata sul vangelo di Gesù che sulla saggezza o furbizia umana. In altri termini non -abbiamo nessuna credibilità verso i giovani se essi non vedono il segno di una chiesa capace di riformarsi. Anche di questo sta cercando di parlare Papa Francesco. Ma il problema fondamentale non è che la Chiesa cambi, non è la riforma della Chiesa, per quanto possa essere importante che essa ritrovi il suo ambito di sacramento di salvezza. Vero problema decisivo è che tutti ci rendiamo conto della necessità di ritornare ad essere umani, di costruire una società che abbia al centro la vita e l’uomo e non più l’idolatria del denaro e la supremazia della forza. Vero problema è che la chiesa tenti sempre di attuare ciò che annuncia, che ritorni ad avere il volto che gli ha dato il suo Fondatore: annunziare la buona notizia che siamo figli dell’Amore, chiamati a relazioni di benevolenza e gratuita bontà.
“Abbiamo nella chiesa duecento anni di arretratezza” – diceva il cardinale Carlo Maria Martini. Di peggio era convinto Ernesto Balducci: “Questa Chiesa è destinata a morire”. Non la Chiesa di Cristo, ma questa Chiesa, la Chiesa istituzionalizzata, con questa superfetazione di istituzionalizzazione. Questa è destinata a morire, questa non ha parole per le giovani generazioni.
“È venuto il tempo, ed è questo” perché contribuiamo, nel nostro possibile, per parlare ai giovani, per parlare ai nostri preti, ai nostri politici, e soprattutto è tempo di non tacere perché questi politici si rendano conto, almeno con minimi gesti, che hanno davanti a loro non l’interesse della finanza, (di cui del resto sono poveri manutengoli) ma il futuro di questa nostra società e della vita nel mondo.
(Trascrizione a cura di Raffaello Saffioti)



Martedì 16 Gennaio,2018 Ore: 10:56
 
 
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