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www.ildialogo.org Il Papa degli ultimi (In nome del tempio. In nome del bambino),a cura di Giuliano Ciampolini

Il Papa degli ultimi (In nome del tempio. In nome del bambino)

a cura di Giuliano Ciampolini

eddyburg.it
13 aprile 2017
vox clamans in deserto?
«Penso che oggi il peccato si manifesti con tutta la sua forza di distruzione nelle guerre, nelle diverse forme di violenza e maltrattamento, nell’abbandono dei più fragili. Il mondo deve fermare i signori della guerra. Perché a farne le spese sono sempre gli ultimi, gli inermi». (Jorge Mario Bergoglio)
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eddyburg.it
Il Papa degli ultimi
  la Repubblica, 13 aprile 2017
di Intervista di Paolo Rodari a Jorge Mario Bergoglio


«Penso che oggi il peccato si manifesti con tutta la sua forza di distruzione nelle guerre, nelle diverse forme di violenza e maltrattamento, nell’abbandono dei più fragili. Il mondo deve fermare i signori della guerra. Perché a farne le spese sono sempre gli ultimi, gli inermi». Papa Francesco arriva oggi nella Casa di Reclusione di Paliano (Frosinone) per celebrare la Messa in Coena Domini con il rito della lavanda dei piedi ad alcuni detenuti. La visita ai carcerati è occasione per una riflessione più ampia che Francesco accetta di fare con Repubblica su una missione che la Chiesa non può eludere: «Farsi prossima degli ultimi, degli emarginati, degli scartati». Dice Papa Bergoglio: «Chi non è colpevole scagli la prima pietra. Guardiamoci dentro e cerchiamo di vedere le nostre colpe. Allora, il cuore diventerà più umano».

Ma come sta vivendo Francesco questa vigilia di Pasqua caratterizzata da uno scenario mondiale ad alta tensione? 
« Mi viene solo da chiedere con più forza la pace per questo mondo sottomesso ai trafficanti di armi che guadagnano con il sangue degli uomini e delle donne »

Santo Padre, anche questo giovedì santo si recherà in carcere. Perché?
«Il brano evangelico del giudizio universale dice: “Sono stato prigioniero e siete venuti a trovarmi”. Ecco, il mandato di Gesù vale per ognuno di noi, ma soprattutto per il vescovo che è il padre di tutti».

Lei ha più volte detto che si sente peccatore come i carcerati. In che senso?
«Alcuni dicono: sono colpevoli. Io rispondo con la parola di Gesù: chi non è colpevole scagli la prima pietra. Guardiamoci dentro e cerchiamo di vedere le nostre colpe. Allora, il cuore diventerà più umano».

È questo che devono fare i pastori, essere al servizio di tutti?
«Come preti e come vescovi dobbiamo sempre essere al servizio. Come dissi nella visita in un carcere che feci il primo giovedì santo dopo l’elezione: è un dovere che mi viene dal cuore».

Chi le ha insegnato questa che ormai è divenuta una tradizione?
«Molto mi ha insegnato l’esempio di Agostino Casaroli, scomparso nel 1998 dopo essere stato Segretario di Stato vaticano e cardinale. Da sacerdote ha svolto per anni apostolato nel carcere minorile di Casal del Marmo. Tutti i sabati sera spariva: “Si sta riposando”, dicevano. Arrivava in autobus, con la sua borsa da lavoro, e rimaneva a confessare i ragazzi e a giocare con loro. Lo chiamavano don Agostino, nessuno sapeva bene chi fosse. Quando Giovanni XXIII lo ricevette dopo la sua prima visita nei Paesi dell’Est, in missione diplomatica in piena Guerra Fredda, al termine dell’incontro gli chiese: “Mi dica, continua a andare da quei ragazzi?” “Sì, Santità”. “Le chiedo un favore, non li abbandoni mai”. Fu quella la consegna lasciata a Casaroli dal Papa Buono, che sarebbe morto qualche mese dopo».

Secondo lei, insomma, la Chiesa deve anzitutto andare incontro agli scartati. È questa l’azione principale che le è chiesta?
«Io credo di sì. Andare, farsi prossima degli ultimi, degli emarginati, degli scartati. Quando sono davanti a un carcerato, ad esempio, mi domando: perché lui e non io? Merito io più di lui che sta là dentro? Perché lui è caduto e io no? È un mistero che mi avvicina a loro».

Nella sua intervista a “La Civiltà Cattolica” alla domanda su chi fosse Jorge Mario Bergoglio rispose: «Un peccatore ». È così?
«Mi sento tale, certo. Il motto del mio stemma è una frase di San Beda il Venerabile a proposito di San Matteo: “Dio ha rivolto i suoi occhi”. “Miserando atque eligendo”, “Lo guardò con sentimento d’amore e lo scelse”. È di più di un semplice motto. È la mia stella polare. Poiché in essa è contenuto il mistero di un Dio disposto a portare su di sé il male del mondo pur di dimostrare il proprio amore all’essere umano».

Il Vangelo è pieno di episodi in cui Gesù si fa prossimo a coloro che la società scartava.
«“Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò salvata”, dice con grande fede l’emorroissa (una donna che aveva perdite di sangue da dodici anni, ndr) che sente dentro di sé che Gesù può salvarla. Secondo i Vangeli era una donna scartata dalla società, alla quale Gesù dona la salute e la libertà dalle discriminazioni sociali e religiose. Questo caso fa riflettere sul fatto che il cuore di Gesù è sempre per loro, per gli esclusi, come fra l’altro la donna era percepita e rappresentata allora».

Anche oggi continua in parte questa discriminazione.
«Tutti siamo messi in guardia, anche le comunità cristiane, da visioni della femminilità inficiate da pregiudizi e sospetti lesivi della sua intangibile dignità. In tal senso sono proprio i Vangeli a ripristinare la verità e a ricondurre a un punto di vista liberatorio. Gesù ha ammirato la fede di questa donna che tutti evitavano e ha trasformato la sua speranza in salvezza».

Quella donna si sentiva esclusa anche a causa del suo peccato.
«Tutti siamo peccatori, ma Gesù ci perdona con la sua misericordia. L’emorroissa era timorosa, non voleva farsi vedere, ma quando Gesù incrocia il suo sguardo non la rimprovera: la accoglie con misericordia e tenerezza e cerca l’incontro personale con lei, dandole dignità. Questo vale per tutti noi quando ci sentiamo scartati per i nostri peccati: oggi a tutti noi il Signore dice: “Coraggio, vieni! Noi sei più scartato, non sei più scartata: io ti perdono, io ti abbraccio”. Così è la misericordia di Dio. Dobbiamo avere coraggio e andare da lui, chiedere perdono per i nostri peccati e andare avanti. Con coraggio, come ha fatto questa donna».

Spesso chi si sente escluso si vergogna.
«Chi si sente scartato come i lebbrosi o i senzatetto, si vergogna e come l’emorroissa fa le cose di nascosto. Gesù invece ci rialza in piedi, ci dà la dignità. Quella che Gesù dona è una salvezza totale, che reintegra la vita della donna nella sfera dell’amore di Dio e, al tempo stesso, la ristabilisce nella sua dignità. Gesù indica così alla Chiesa il percorso da compiere per andare incontro a ogni persona, perché ognuno possa essere guarito nel corpo e nello spirito e recuperare la dignità di figlio di Dio».

Ancora in questi giorni le armi uccidono. Cosa ne pensa?
«Penso che oggi il peccato si manifesti con tutta la sua forza di distruzione nelle guerre, nelle diverse forme di violenza e maltrattamento, nell’abbandono dei più fragili. A farne le spese sono sempre gli ultimi, gli inermi. Mi viene solo da chiedere con più forza la pace per questo mondo sottomesso ai trafficanti di armi che guadagnano con il sangue degli uomini e delle donne. Come ho detto anche nel recente messaggio per la giornata mondiale della pace, il secolo scorso è stato devastato da due guerre mondiali micidiali, ha conosciuto la minaccia della guerra nucleare e un gran numero di altri conflitti, mentre oggi purtroppo siamo alle prese con una terribile guerra mondiale a pezzi. Non è facile sapere se il mondo attualmente sia più o meno violento di quanto lo fosse ieri, né se i moderni mezzi di comunicazione e la mobilità che caratterizza la nostra epoca ci rendano più consapevoli della violenza o più assuefatti a essa».

Qual è lo scopo secondo lei di queste continue guerre?
«Me lo chiedo anche io sempre. A che scopo? La violenza permette di raggiungere obiettivi di valore duraturo? Tutto quello che ottiene non è forse di scatenare rappresaglie e spirali di conflitti letali che recano benefici solo a pochi “signori della guerra”? L’ho detto più volte e lo ridico: la violenza non è la cura per il nostro mondo frantumato. Rispondere alla violenza con la violenza conduce, nella migliore delle ipotesi, a migrazioni forzate e a immani sofferenze, poiché grandi quantità di risorse sono destinate a scopi militari e sottratte alle esigenze quotidiane dei giovani, delle famiglie in difficoltà, degli anziani, dei malati, della grande maggioranza degli abitanti del mondo. Nel peggiore dei casi può portare alla morte, fisica e spirituale, di molti, se non addirittura di tutti».

In carcere porta un messaggio di pace e anche di speranza nonostante tutto?
«A volte, una certa ipocrisia spinge a vedere nei carcerati solo delle persone che hanno sbagliato, per le quali l’unica via è quella del carcere. Ma, ripeto ancora una volta, tutti abbiamo la possibilità di sbagliare. Tutti in una maniera o nell’altra abbiamo sbagliato. E l’ipocrisia fa sì che non si pensi alla possibilità di cambiare vita: c’è poca fiducia nella riabilitazione, nel reinserimento nella società. Ma in questo modo si dimentica che tutti siamo peccatori e, spesso, siamo anche prigionieri senza rendercene conto. Quando si rimane chiusi nei propri pregiudizi, o si è schiavi degli idoli di un falso benessere, quando ci si muove dentro schemi ideologici o si assolutizzano leggi di mercato che schiacciano le persone, in realtà non si fa altro che stare tra le strette pareti della cella dell’individualismo e dell’autosufficienza, privati della verità che genera la libertà. E puntare il dito contro qualcuno che ha sbagliato non può diventare un alibi per nascondere le proprie contraddizioni».
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ranierolavalle.blogspot.it
11 aprile 2017
In nome del tempio. In nome del bambino

La guerra ha bisogno del simbolo che la giustifichi; l’ISIS insiste con Dio e distrugge le chiese, l’Occidente, privato dell’alibi della guerra di religione si fa filantropo e lancia i suoi missili in nome dei bambini.
L’attacco firmato Daesh o IS alle chiese copte in Egitto è un’azione dagli alti contenuti simbolici. Si è scatenato contro un popolo di martirio e di pace, come ha detto il prete della comunità copta di Firenze; è avvenuto a tre settimane dalla visita del papa in Egitto, come a dire che il bersaglio grosso è lui; è stato perpetrato contro una chiesa piena di fedeli, a Tanta, e contro la cattedrale del patriarca Tavadros II ad Alessandria; è stato compiuto mentre erano in corso la messa in piazza san Pietro e le due messe celebrate nello stesso momento in Egitto, nel giorno liturgico della domenica delle palme, quando si ricorda che Gesù è stato ucciso con l’accusa di aver minacciato la distruzione del tempio.
 
Questo sovraccarico di simboli religiosi dice che i terroristi dello Stato islamico hanno assoluto bisogno di far passare la loro guerra per una guerra religiosa, volta a islamizzare il pianeta.
Naturalmente non lo è, come essa non è un puro esercizio di violenza di belve inferocite, quale è raccontata in Occidente. Secondo gli analisti più attenti  è qualcosa di diverso e di più: è un’espressione del risentimento anti-occidentale, alimentato da quattro secoli di dominio, in cui oggi precipita e si materializza un risentimento più generale, quello dell’anti-potere, e si manifesta un desiderio di vendetta dei succubi per l’espropriazione economica subita e la discriminazione privativa dei diritti. Lo scrive ad esempio dal Cairo, dove vive, Marco Alloni (in  “Il cattivo infinito, capire ISIS” editoriale Aliberti, Cavriago) – sostenendo che sotto attacco è il modello neoliberale che ha generato mostri creando “un unico scenario di un’unica tragedia ormai sotto gli occhi di tutti”.
 
Per consumare questa vendetta l’ISIS, che se l’è intestata, ha bisogno di un simbolo forte, la religione. Il simbolo non è la ragione della guerra, è la sua narrazione, la sua legittimazione popolare, il suo nome nobiliare. Sempre le guerre hanno avuto bisogno di nomi e di simboli, ma oggi più che mai perché nel mondo globalizzato il messaggio è tutto e tutto è messaggio. Non solo “il mezzo è il messaggio”, ma lo è l’azione stessa, incurante del mezzo: i mezzi, i “media”, inevitabilmente seguiranno.
 
La massima potenza simbolica storicamente messa a disposizione della guerra è quella di Dio: la guerra santa, la guerra giusta, cioè giustificata da Dio, la guerra fatta in suo nome, la guerra per la terra promessa da Dio, la guerra agli infedeli. le crociate, Costantino, “in hoc signo vinces”.
 
L’IS o Stato islamico ci prova di nuovo. La guerra all’Occidente, o quella contro i rivali interni alla stessa Umma musulmana, è guerra di religione. Non è un male, dicono, uccidere gli infedeli (questo lo dicevano anche i cristiani, per san Bernardo non era omicidio, ma “malicidio”). Ma la comunità islamica non è affatto d’accordo, non pensa a un Maometto sempre con la spada, e il 19 settembre 2014 leader islamici di tutto il mondo hanno scritto al sedicente califfo Abu Bakr al-Baghdadi sconfessando la sua azione che fa dell’ Islam “una religione di durezza, brutalità, tortura e assassinio”. Ma l’ISIS insiste, senza la religione non può fare la guerra, e se Gesù voleva “distruggere” il tempio, esso attacca le chiese cristiane in nome del tempio, in nome di Dio.
 
Però c’è un problema nuovo. La guerra di religione non si può più fare, perché per farla bisogna essere in due, L’Occidente la farebbe volentieri, come l’ha sempre fatta anche se mascherata in molteplici forme, ma non la può più fare, perché il papa di Roma gliel’ha tolta dalle mani, dicendo che “il Dio della guerra non esiste”: cioè presentando al mondo un messaggio nuovo, che rivela un’altra immagine, un’altra identità di Dio. Rispetto al Dio di violenza e di guerra i cristiani, a sentire papa Francesco, sono atei.
 
Dunque c’è un impedimento alla guerra. E in effetti quella guerra mondiale a pezzi diagnosticata dal papa, non è precipitata in un unico evento, e la guerra che in questi quattro anni sembrava lì lì per esplodere, non è scoppiata. Obama non l’ha fatta, e la Clinton non è stata eletta. La farà Trump? Sembrava di no perché aveva detto di non volersi occupare del mondo, che prima di tutto c’è l’America e che gli altri facciano quello che vogliono: perfino l’idea portante dei due Stati in Palestina era stata abbandonata, e Netanyahu era stato lasciato libero di annettersi quello che vuole. Ma è durato poco, perché gli Stati Uniti, chiunque stia alla Casa Bianca, non intendono rinunciare allo scettro del mondo, la destra americana non lo permette, l’influenza russa in Medio Oriente va fermata, e sullo sfondo c’è la sfida alla Cina, per cui Trump non può fare l’isolazionista.
 
Però senza messaggi forti anche lui la guerra non la può minacciare, non la può fare. Non può fare come il giovane Bush che faceva la guerra all’Iraq e la sera piangeva sulla spalla di Dio. Se Dio non è disponibile, occorre trovare un’altra icona. Ed ecco che arriva una strage. Le stragi e le fotografie che le ostendono sono un ottimo viatico per la guerra. Grazie al massacro di Racak la Nato potè fare la guerra del Kossovo. E grazie a quello di Iblid Trump può fare la guerra di Siria. Un crimine di guerra, dice il premier italiano Gentiloni, il primo allineato, giustifica la guerra. Cionondimeno ci vuole un simbolo. Venuto meno il divino occorreva un’altra potente provocazione simbolica, un segno nel cui nome scatenare le armi. I bambini uccisi dal gas a Iblid sono stati questo simbolo. Non importa che i bambini siano le vittime universali percosse a Oriente e Occidente, e che la Convenzione dei diritti del fanciullo non sia osservata da nessuno, né riguardo ai bambini naufragati nel Mediterraneo, né riguardo a quelli ristretti con le loro madri palestinesi nelle carceri israeliane, né riguardo ai bambini di cui si commerciano gli organi, né quanto a quelli contro cui si innalza il muro con il Messico o si tolgono le cure sanitarie. Trump e tutto l’Occidente con lui sono stati lesti a impadronirsi del simbolo di Iblid, e non potendo  fare la guerra in nome di Dio la fanno in nome del bambino, l’immagine a lui più somigliante. E si aggiungono simboli a simboli: cinquantanove sono le vittime delle bombe chimiche a Iblid, cinquantanove sono i missili lanciati dalle comandanti delle navi americane nel Mediterraneo; senza prezzo è ogni vita umana perduta, senza prezzo è ogni Tomahawk sparato, un milione di dollari l’uno, cinquantanove milioni di dollari solo per dare un avviso, solo per dire che gli Stati Uniti ci sono, e che “America first” non vuol dire solo respingere gli immigrati, ma vuol dire pretendere ancora di essere sovrani nel mondo.
 
Un avviso non vuol dire una guerra, la sfida ad Assad non è un’invasione, l’attrito senza precauzioni tra le armi americane e russe in Medio Oriente non vuol dire che scoppi la guerra anche se dalle parti della Corea i giochi si fanno pesanti. Può darsi perciò che la guerra in corso resti una guerra di simboli e che i singoli olocausti che essi pur richiedono, non si uniscano in un unico grande sacrificio. Ma il problema è che se in passato il mondo armato di atomiche è stato in mano di apprendisti stregoni e ne è uscito indenne, oggi non si tratta più di apprendisti, si tratta proprio di stregoni che hanno imparato il mestiere. L’allarme di massimo pericolo che ne scaturisce dovrebbe scuotere questa generazione, svegliarla dal sonno della ragione e mobilitarla perché salga a resistere e a cambiare il corso della storia.
 Raniero La Valle
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Venerdì 14 Aprile,2017 Ore: 21:53
 
 
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