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www.ildialogo.org Curare gli infermi, Visitare i carcerati, Seppellire i morti,di Paolo Corsini

Curare gli infermi, Visitare i carcerati, Seppellire i morti

di Paolo Corsini

Cara amica, caro amico, la "Voce del Popolo", settimanale diocesano, mi ha chiesto di scrivere un breve commento ad alcune delle Opere di Misericordia all'indomani dell'indizione del Giubileo la cui Bolla reca appunto il titolo Misericordiae vultus. Ne sono usciti questi tre testi che con qualche pudore ti invio a dimostrazione di come, una volta conclusa l'attività parlamentare, potrò dedicarmi oltre che allo sci e alla montagna.... all'attività di "predicatore". Con vive cordialità Paolo Corsini
 
Curare gli infermi
A Napoli presso il Pio Monte della Misericordia è conservato uno straordinario dipinto di Caravaggio, una composizione drammatica e concitata che racchiude in una visione d'insieme diversi personaggi sovrastati da una Madonna col Bambino accompagnata da due angeli. La raffigurazione è dedicata alle sette opere di misericordia corporali; in basso, nell'angolo del dipinto, con riferimento all'agiografia di San Martino di Tours, uno storpio fa da emblema a "curare gli infermi", una delle opere richieste da Gesù nel Vangelo di Matteo (25, 31-46) per ottenere perdono dei peccati ed entrare quindi nel Regno. Un tema ricorrente nelle Scritture che, per quanto concerne il riferimento all'infermità, trova il proprio fulcro nella parabola del Samaritano - qui centrale è il prendersi cura - ed è addirittura assunto a "paradigma della spiritualità del Concilio" nelle parole di Paolo VI°, il Papa bresciano, nella sua allocuzione all'ultima sessione pubblica del 7 dicembre 1965. "Servire l'uomo, l'uomo diciamo, in ogni sua condizione, in ogni sua infermità, in ogni sua necessità". Un'eco chiaramente riconoscibile delle parole del Salmo (103, 3-4) nelle quali pazienza, come condivisione, e misericordia di Dio accompagnano la storia della salvezza: "egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue infermità, salva dalla fossa la tua vita, ti circonda di bontà e misericordia". La misericordia di Dio, vale a dire il perdono, la consolazione, la pietà, la compassione, ma pure quale criterio di giudizio in quanto siamo chiamati alla virtù della misericordia perché a noi per primi è stata riservata. Una misericordia da vivere nel concreto dell'umana condizione, con mani soccorrevoli e cuore generoso, verso chi conosce esperienze di afflizione e dolore, situazioni di distretta morale e spirituale, uno stato di fragilità, debolezza, precarietà. Appunto l'infermità, una malattia dell'organismo corporale o della mente, sino all'estremo dell'invalidità o dell'inabilità, una menomazione come esito di una malattia che può scaturire, al di la dei tormenti del corpo, pure da pigrizia spirituale o essere il portato di quella desertificazione esistenziale che produce vite periferiche, da scarto. Nella crisi dei sistemi contemporanei di welfare, in difficoltà a garantire una protezione sanitaria accessibile a tutti, curare gli infermi non significa, dunque, soltanto assistere l'ammalato, lenire le sue sofferenze, sostenere percorsi di guarigione nel segno di un rapporto affettivo di ascolto, di vicinanza tra paziente e quanti sono preposti alla pratica terapeutica. Significa anche recuperare a pieno la dimensione della prossimità, del colloquio, della medesimezza umana di fronte al progressivo sequestro dei sofferenti ai margini del tempo socialmente condiviso, alla stessa cosmesi della morte attraverso la quale ci illudiamo di sopravvivere cronologicamente alla nostra fine, vivendo una vita sostanzialmente spenta, inespressiva, mortificata. Come ha sostenuto in una sua straordinaria meditazione il compianto Cardinale Carlo Maria Martini.

Visitare i carcerati
Misericordiae vultus: questo il titolo recato dalla bolla di indizione del Giubileo che si aprirà a Roma l'8 dicembre prossimo, solennità dell'Immacolata Concezione, nel segno di una Chiesa che "preferisce usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore". Così Papa Roncalli nell'apertura del Concilio Vaticano II° per indicare una linea da seguire, espressioni cui fanno eco gli ammonimenti di Papa Montini che invece di "deprimenti diagnosi" e di "funesti presagi", evoca la necessità, anzi l'impegno, di "incoraggianti rimedi" e di "messaggi di fiducia". Una tradizione teologica, quella della misericordia, saldamente ancorata alle Scritture, così come elaborata nella riflessione filosofica - Tommaso d'Aquino scrive che " è proprio di Dio usare misericordia e specialmente in questo si manifesta la sua misericordia" - e pienamente ripresa nella produzione iconografica che annovera accanto a capolavori assai noti opere poche conosciute come, ad esempio, i didascalici, evocativi pannelli del Maestro di Alkmaar nei Paesi Bassi. Ebbene di tutte le opere di misericordia quella che richiede di "visitare i carcerati" è certamente la più provocatoria, quella a più alta densità sapienziale, in quanto non indica semplicemente una piattaforma del vivere civile che in una società democratica dovrebbe essere garantita da un welfare comunitario capace di assicurare dovute tutele - la casa, la salute, il sostentamento -, ma si spinge a mettere in discussione un pregiudizio radicato, una distinzione che diventa separazione tra chi sta "dentro" e chi sta "fuori", a superare una spaccatura irrimediabile tra innocenza e colpevolezza, tra delitto e giustizia. "Visitare i carcerati" segue per altro direttamente "curare gli infermi". Del resto M. Foucault ha denunciato come prigione e ospedale per taluni versi si confondono fino a quasi sovrapporsi: l'ospedale può diventare prigione e il carcere è un luogo di sofferenza, di privazione, di tormento e dolore, un'istituzione totale che sorveglia e punisce, l'emblema di un potere legittimato a limitare la libertà. Varcare la soglia del carcere attraverso la visita significa, dunque, anzitutto testimoniare il limite del potere e arginarne il dominio, demistificare l'assoluto dell'umano che si intronizza a giudice. Significa riconoscere il peso della solitudine e dell'umiliazione, del rimorso e della disperazione, e sondare un abisso che solo la pietà, l'accoglienza, la solidarietà possono in qualche modo fronteggiare. Condanna ed emarginazione, riscatto e redenzione: queste le tappe di una via crucis che la visita è destinata a percorrere, ancorata, com'è, a valori di civiltà per i quali il carcere, là dove si sconta una pena e si vive un'afflizione, spesso fino all'abuso, può e deve costituire possibilità di educazione, di recupero, di reinserimento, di restituzione alla comunità nel nome di una giustizia mite. Perdono e misericordia vanno però oltre perché, già nella visita, nell'incontro, si prefigura la riconciliazione e nella gratuità del dono si autentifica il valore della carità. Che non è solo dare all'altro ciò che è suo, ma, al di là della giustizia, offrire ciò che è mio. Questa la ragione per la quale visitare i carcerati vale anche per chi si fa protagonista della visita.

 
Seppellire i morti
"Dal dì che nozze e tribunali ed are dier alle umane belve esser pietose di sé stesse ed altrui....". Così Ugo Foscolo, ne "I Sepolcri", fa coincidere il costume della sepoltura con l'avvio del processo di civilizzazione dovuto all'istituzione del matrimonio, della giustizia, della religione. Ed in effetti in tutte le culture si sono sviluppati rituali per la sepoltura e il commiato dei morti: un'opera di misericordia che Tobia compie durante l'esilio degli Ebrei in Babilonia e Giuseppe d'Arimatea nei riguardi di Gesù, per restare nella tradizione giudaico-cristiana, e che Antigone, nella Grecia classica, appellandosi alla legge della coscienza, porta ostinatamente a compimento contro la volontà di Creonte, che le proibisce la sepoltura del fratello Polinice. Un gesto di pietà in nome della vita, della memoria di chi è deceduto, un riconoscimento del debito contratto per i valori ed esempi trasmessi da chi è scomparso, valori ed esempi dei quali siamo eredi e di cui diventiamo responsabili. Comunque un atto di estrema riconciliazione che veicola perdono, dismissione di ogni volontà di rivalsa, riconoscimento della fragilità e finitudine umana, in definitiva della caducità della vita e di tutte le vanità. Il ritorno alla terra che ci accoglie, tipico della tradizione cristiana, ancor più assume valore nel tempo contemporaneo dominato da una tecnica e da una scienza che la terra presumono di dominare e soggiogare. Un tempo, il nostro, proprio di una società "post-mortale" perché tende a rimuovere la morte dalla coscienza del soggetto intento a cosmetizzare la propria esistenza, ad anestetizzare la propria quotidianità. Un evento, la morte, decisivo per la vita non solo in quanto assolutamente ineludibile, ma perché produce senso e contribuisce a definire gerarchie di valori e priorità, a selezionare mezzi e stabilire fini, a vivere la vita come dono che ci è dato e possiamo offrire, a riconoscerla in tutta la sua profondità e durata, la vita nascente, la vita vivente, la vita morente. Seppellire i morti non implica solo il richiamo all'incombenza della fine , ma un implicito impegno ad una elaborazione del "transito", ad una considerazione del passaggio in tutto il suo mistero, in tutti gli interrogativi che pone, in tutte le angosce e tormenti che suscita. Al cospetto della privatizzazione della morte - comunque si muore soli - il rito della sepoltura, la celebrazione delle esequie, non solo assumono valenza pubblica, ma contribuiscono ad assegnare senso al non senso della fine, a resistere alla tentazione del nichilismo e della reificazione, della perdita di sé, ritrovando di fronte al morto una comune appartenenza al genere umano, il sentimento dell'"umana compagnia". In acculturazione cristiana tutto questo - che la morte, cioè, veda spuntato e inoffensivo il proprio "pungiglione", come scrive l'apostolo Paolo - trova la propria forza nel mistero pasquale, in quell'alfa e omega che sono rappresentati dal Cristo, dalla sua morte e resurrezione. Da qui il rito della sepoltura non come atto conclusivo espressione di un ordine sociale, di una liturgia consolatoria, ma come alimento di speranza e di fede nel ritorno del Risorto.



Sabato 06 Giugno,2015 Ore: 18:39
 
 
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La chiesa di Papa Francesco

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