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www.ildialogo.org TRILOGIA BRESCIANA,di Raniero la Valle

TRILOGIA BRESCIANA

di Raniero la Valle

Il 9 e 10 aprile 2015 in tre luoghi diversi della provincia di Brescia sono intervenuto a presentazioni del mio libro “Chi sono io Francesco? I tre dibattiti sono avvenuti sulla base di domande che mi sono state rivolte dal prof. Anselmo Palini, dagli studenti dell’Istituto Antonietti di Iseo, dal giornalista Massimo Tedeschi del Corriere della Sera e dagli altri partecipanti agli incontri. Le risposte via via date sono state qui raccolte in tre distinti interventi, secondo lo svolgimento del discorso che è andato dipanandosi da Gussago (Salone mons. Bazzani, 9 aprile) all’Istituto di istruzione superiore “Antonietti”di Iseo (mattina del 10 aprile) a Brescia (salone Montini, sera del 10 aprile). Qui di seguito il resoconto dei tre interventi.
9 aprile 2015
A GUSSAGO (nell’ambito della rassegna “Fare memoria del bene” organizzata dal Comune e dalla parrocchia). L’incontro è stato introdotto da un saluto del parroco di Gussago, don Adriano Dabellani, ed è proseguito poi con le domande rivolte da Anselmo Palini e dal pubblico presente
L’EPOCA NUOVA
A che serve questo libro, “Chi sono io Francesco?”.
Siamo al terzo anno di pontificato di Francesco. Sicuramente esso ci riserva ancora delle sorprese: la riforma delle strutture della Chiesa non è nemmeno cominciata, ma quello che lui è stato in questi due anni è già abbastanza per capire che papa è.
La mia lettura del pontificato di Francesco, quale è espressa in questo libro, è che questo pontificato esce dalla serialità in cui siamo abituati a considerare i successori di Pietro. Se si va nella basilica di San Paolo fuori le mura si vede questa serialità nei medaglioni coi volti dei papi che si succedono sulle fasce in cima agli archi che dividono le navate: tutti in serie, tutti eguali.
A me sembra che papa Francesco, come già successe del resto per papa Giovanni, esca dalla fila e segni una svolta.
E mi azzardo a pensare che questa svolta possa consistere nell’inizio di un’epoca nuova e che quest’epoca possa essere quella di un ritorno di Dio a un’umanità che lo aveva perduto.
In questo senso si potrebbe parlare di un pontificato messianico, perché annuncia un Dio che viene, un Dio che ci precede nell’amore, un regno di Dio che si avvicina, e fa questo annuncio in quel modo e con quel linguaggio “che i nostri tempi esigono” come aveva cominciato a fare il Concilio.
Come al tempo del Concilio
Ma il problema che abbiamo oggi è lo stesso che si presentò il terzo anno del Concilio. Come continuarlo, pur dopo la sua chiusura, come renderlo operante nel futuro della Chiesa? Un’idea era che si dovesse puntare sulle strutture collegiali del governo della Chiesa – sinodi, conferenze episcopali, consigli presbiterali e pastorali – e un’altra idea era che si dovesse puntare sul popolo di Dio: “Il Concilio nelle nostre mani” era il titolo del mio libro con le cronache dell’ultimo periodo del Concilio. Dossetti invece pensò che per assicurare la pervasività e la durata del Concilio in tutta la Chiesa ci volesse il segno forte di una canonizzazione di papa Giovanni alla fine del Vaticano II da parte della stessa Aula conciliare. In realtà non riuscimmo a mettere in sicurezza il Concilio, ad assicurarne la futura fecondità. Abbiamo avuto infatti cinquanta anni di dolori. Ci fu la reazione lefebvriana che ha ricattato tutta la Chiesa con la minaccia della scissione, c’è stato il rilancio della supremazia pontificia e curiale, c’è stato il conflitto di ermeneutiche e poi siamo arrivati alla crisi drammatica della Chiesa rivelatasi nella rinuncia al pontificato di Benedetto XVI. Al di là delle piccole motivazioni - l’età, la salute, ecc. – la rinunzia di Benedetto XVI significava che senza un cambiamento profondo, senza – in un certo senso – ricominciare da capo, la Chiesa non poteva essere governata e la sua missione non poteva essere adempiuta.
Ora abbiamo lo stesso problema che avemmo al Concilio. Come può continuare questa stagione di grazia? Auguriamo lunga vita a papa Francesco. Ma il suo pontificato finirà, e il suo carisma necessariamente finirà con lui. Così vuole il Signore perché i carismi sono personali. Allora, come far discendere questo carisma su tutta la Chiesa, come può realizzarsi il salmo 132 in modo che il carisma di Francesco scenda sulla Chiesa come l’olio prezioso versato sul capo che scende sulla barba, sulla barba di Aronne?
Il problema è che la Chiesa “francescana” continui. Questo è il problema che vorrei porre in questo incontro e alla Chiesa di Brescia.
Il programma del pontificato
Qual è il programma del pontificato? La gioia. L’epoca inaugurata da papa Francesco dovrebbe essere l’epoca nella quale torni a fiorire la gioia.
Gaudium è la parola programmatica del pontificato. Nella Evangelii gaudium c’è perfino una citazione del Siracide in cui Dio dice: “Figlio, per quanto ti è possibile, trattati bene… Non privarti di un giorno felice”. Siamo fatti per la felicità: nemmeno un giorno felice deve andare perduto!
Naturalmente non è una gioia qualsiasi, ma è la gioia del Vangelo; e infatti Evangelii gaudium è il titolo del documento programmatico di questo pontificato.
È molto importante notare che l’annuncio di questa gioia è stato anticipato profeticamente dal Concilio, oltre cinquant’anni fa, quando il Vaticano II si aprì con un discorso programmatico di un altro papa, Giovanni XXIII, che cominciava dicendo: “Gaudet Mater Ecclesia”: gioisce la madre Chiesa. Dunque dal Concilio ad oggi, da Giovanni XXIII a Francesco, è come un passaggio di consegne, di gioia in gioia.
In mezzo, però, in questi cinquant’anni, non c’è stata gioia, la Chiesa è stata contristata da una controversa e avara ricezione del Concilio, e le forze che tendevano alla sua sterilizzazione hanno combattuto e spesso anche prevalso contro le forze che lo volevano attuare; è stata la vicenda che si è conclusa col gesto coraggioso e profetico della rinuncia di Benedetto XVI. E anche il mondo, in questo mezzo secolo, non ha conosciuto la gioia, ma anzi dopo l’illusione del disarmo atomico, della fine dei blocchi e della caduta dei muri, cioè dopo l’89, ha ricominciato con le guerre, ha alzato nuovi muri, ha imposto un’economia che uccide e, come guidato da un pilota impazzito, ha inserito il pilota automatico che lo tira giù per lanciarlo contro il suicidio ecologico, sociale e politico. Sicché tra le due coppie di opposti della Gaudium et Spes del Concilio, gioia e speranza, lutto ed angoscia, in questi cinquant’anni tra la fine dell’epoca vecchia e questo inizio, come speriamo, dell’epoca nuova, a prevalere sono stati il lutto e l’angoscia.
Questo fa capire quale sia la posta in gioco di questo pontificato, e come tutta la Chiesa sia chiamata ad esserne non una spettatrice passiva e guardinga, come un po’ sembra la Chiesa italiana, ma debba tutta intera e con foga mettersi in uscita col papa. E solo se tutta la Chiesa, cioè tutto il popolo, si metterà in cammino, seguendo e anche precedendo il pastore, condividendo l’odore di popolo e di strada, il carisma di Francesco potrà continuare.
Poter ricominciare a credere
La gioia, abbiamo detto, come promessa del pontificato. Ma di che gioia si tratta? Io credo che si tratti della gioia di poter ricominciare a credere. E credo che questo possa essere precisamente il senso dell’epoca nuova e del passaggio dal mondo moderno al mondo neo-moderno, il poter ricominciare a credere.
Nel Novecento sembrò che questa gioia ci fosse preclusa.
Quindici anni dopo la conclusione del Concilio, in un libro del 1980 un grande filosofo cristiano, che a me è stato molto caro, Italo Mancini, poneva la domanda cruciale: come continuare a credere? 1
Si era in piena secolarizzazione e la diagnosi che egli faceva era che, data la cultura e la situazione del tempo, era quasi impossibile credere. Come aveva detto Nietzsche, davvero Dio se n’era andato; Mancini citava un aforisma tratto da ”La gaia scienza”: Dio non c’era ed eravamo stati noi ad ucciderlo, avevamo vuotato il mare bevendolo fino all’ultima goccia, oscurato il cielo, strusciato via l’intero orizzonte, avevamo gridato con il folle: “Dio è morto” (Nietzsche, La gaia scienza, aforisma 125).
È vero che venivamo da un tempo in cui si erano agitate grandi speranze che avevano fatto intravedere l’epoca nuova, ma poi queste speranze erano andate deluse. Mancini citava le speranze suscitate dal marxismo, quando sul finire dell’Ottocento gli operai tedeschi si empivano il petto con il canto proletario: “Muove con noi l’epoca nuova”. Poi ricordava le speranze che avevano accompagnato l’epopea partigiana, e poi quelle che avevano salutato la fondazione della Repubblica con l’Assemblea Costituente, poi ricordava il Concilio2.
Ma tutte quelle speranze erano sfiorite. Anche quelle suscitate dal Concilio. In proposito Mancini citava un giudizio di Carlo Falconi, che era un acuto osservatore delle cose della Chiesa di quegli anni e cristiano egli stesso, che nel fare un bilancio del Concilio da poco concluso parlava di un “dirottamento antigiovanneo” che esso avrebbe subito. E il dirottamento sarebbe consistito nel fatto che invece di orientare tutto il suo messaggio su Dio, il Concilio l’aveva orientato sulla Chiesa. Scriveva Falconi: “Non l’annuncio della Parola di Dio, non il messaggio di Cristo tradotto in linguaggio moderno, non insomma la fiaccola della verità cristiana è stata alzata dal Concilio di fronte all’umanità, che andava secolarizzandosi sempre di più” (e questa sarebbe stata l’intenzione giovannea) “bensì la Chiesa in una presentazione non importa quanto piena di suggestioni e di spunti rinnovatori, come ‘popolo di Dio’ e corpo religioso dell’umanità” (e questo sarebbe stato il dirottamento)3.
In effetti c’erano motivi per fare questa diagnosi di uno scarto subito dal Concilio, perché effettivamente quello che Giovanni XXIII aveva chiesto alla Chiesa del Concilio era che all’umanità di oggi riproponesse il tesoro della fede, annunciasse le verità di Dio in modo nuovo, ovvero “in quella forma che la nostra età esige”, mentre il Concilio si era poi soprattutto impegnato a presentare un nuovo volto della Chiesa; però è anche vero che tra le cose più belle del Concilio, poi dimenticate e rimaste nascoste, c’è proprio il discorso su Dio, un Dio ritrovato, spogliato degli orpelli di cui nei secoli era stato rivestito, e liberato dai fraintendimenti in cui era caduto: un Dio che mai si era stancato di amare gli uomini e di prestare loro gli aiuti necessari alla salvezza, il Dio che papa Francesco presenterà poi al mondo come il Dio della misericordia.
Però dopo il Concilio, invece di mostrarsi la luce, si erano infittite le tenebre. Paolo VI aveva parlato addirittura del “fumo di Satana” che da qualche fessura fosse penetrato nel tempio di Dio (omelia del 22 giugno 1972). La secolarizzazione aveva vinto: i giovani non si sposavano più in chiesa, non battezzavano i figli, la loro cultura ignorava, se non come dato storico, il fenomeno religioso, le Chiese storiche erano in crisi, crescevano per contro sette e fondamentalismi.
Che cosa era successo?
Quel Dio messo alla porta
Era successo che veniva a compimento un’epoca, che aveva attraversato tutto il secondo millennio cristiano, nel quale Dio era stato neutralizzato e messo alla porta; ma il Dio esiliato era un Dio sbagliato; agli uomini della modernità che cercavano la loro strada le Chiese avevano in effetti presentato un Dio travisato, sempre meno credibile.
Ciò era successo perché quando era cominciata la modernità (nella “Vita di Galileo” Bertolt Brecht indica in Galileo il segno annunciatore di “un’epoca nuova”) la Chiesa e il Dio sulla cui autorità essa parlava si erano messi di traverso come se il Vangelo, la fede, Dio, fossero un impedimento, un’interdizione, un intralcio per gli sforzi dell’uomo che costruiva un mondo più consapevole, più avanzato e più umano. Il Dio della cristianità non recava la pace, e non impediva la guerra tra gli stessi principi cristiani.
Secondo Benedetto XVI che vi rifletterà nel 2005 facendo un bilancio del Concilio, era stato questo il nodo su cui si era misurato il Vaticano II e su cui nel Concilio effettivamente c’era stata “una discontinuità” . Il Concilio, diceva papa Ratzinger nel suo discorso alla Curia del 22 dicembre 2005 (quello delle “due ermeneutiche” della “continuità” e della “rottura”, entrambe respinte), aveva dovuto determinare in modo nuovo il rapporto tra Chiesa ed età moderna; un rapporto che – diceva papa Benedetto – aveva avuto un inizio molto problematico con il processo a Galileo e poi si era spezzato totalmente con Kant e con la rivoluzione francese. Nel corso di questo conflitto si potrebbe dire – spiegò Benedetto XVI – che si erano formati tre cerchi di domande che ora, durante il Vaticano II, attendevano una risposta. E quali erano questi tre nodi da sciogliere? “Innanzitutto – diceva papa Benedetto – occorreva definire in modo nuovo la relazione tra fede e scienze moderne”, intendendo per scienze sia le scienze naturali che le scienze storiche. “In secondo luogo era da definire in modo nuovo il rapporto tra Chiesa e Stato moderno “, cioè lo Stato laico, pluralista e non confessionale. E “in terzo luogo occorreva una nuova definizione del rapporto tra fede cristiana e religioni del mondo”, riconoscendo e anzi rivendicando il principio essenziale della libertà di religione.
Secondo questa analisi di Benedetto XVI la Chiesa aveva dunque cercato, nel rapporto con la modernità, di fermare il cammino umano in tre direzioni: nel progresso delle scienze, nella costruzione dello Stato moderno, nella convivenza pacifica tra le religioni e nel riconoscimento della libertà di coscienza e della libertà religiosa.
Ciò fu sanato nel Vaticano II. Ma intanto, in quei tre secoli, come aveva reagito la modernità a queste scelte della Chiesa che si era messa di traverso sulla via della scienza, della politica, della coscienza (che sono poi i tre ambiti in cui si ricapitola tutto l’uomo)? E quali prezzi, per la fede, erano stati pagati a questi “non expedit”, a questi Sillabi, a queste censure che la Chiesa aveva opposto ai lumi della modernità?
Quello che era successo è che la modernità non aveva accettato di essere fermata dalla Chiesa. Perciò è insorto il conflitto. Non si poteva arrestare lo sviluppo storico. Scienza, politica, diritto, sviluppo e libertà umana dovevano andare avanti. E se c’era un Dio che lo impediva, quello doveva essere un Dio frainteso, un Dio sbagliato.
Gli uomini che portavano avanti quei valori, anche in contrasto con la Chiesa, non erano miscredenti, atei, bestemmiatori. Erano tutti cristiani, educati dalle Chiese, imbevuti del Vangelo, spesso addirittura preti, domenicani, pastori. Dunque la risposta della modernità, in cui le radici cristiane si erano comunque innestate, non poteva essere quella di un puro e semplice scontro con la Chiesa, né la risposta poteva essere una scelta atea, un’affermazione militante della inesistenza di Dio. Quella verrà dopo. La formula della modernità, la formula della laicità, così potente che ha resistito fino ad ora, non fu “Non est Deus”, ma fu “Etsi Deus non daretur”: “facciamo come se Dio non ci fosse, o non si occupasse dell’umanità”. Se una certa concezione di Dio diventa un impedimento allo sviluppo umano, ebbene, mettiamo tutto sull’uomo e mettiamo Dio tra parentesi, non facciamo più ricorso all’ipotesi di lavoro Dio. Così la storia può andare avanti lo stesso, le Chiese sono rinviate all’area privata, non possono fare da ostacolo, però possono essere buone per fornire un’identità, per educare alla morale, per fare cittadini buoni ed obbedienti, docili ai sovrani e alle Repubbliche, e possono perfino piacere agli atei devoti. E anche le Chiese, paradossalmente, potevano accettare lo stratagemma laico del “facciamo come se Dio non ci fosse”, perché convinte di poter mettersi esse stesse al posto di Dio, dettare legge al mondo in nome del diritto naturale invece che proporre il Vangelo, promuovere progetti culturali invece che programmi missionari, dare istruzioni per l’uso e proclamare principi non negoziabili invece che sorprendere con la misericordia di Dio.
La formula “facciamo come se Dio non ci fosse” su cui si è costruita la modernità non voleva essere la formula con cui il mondo prendeva congedo da Dio (ma non dalle Chiese), come poi di fatto è invece diventata. Il suo autore è Ugo Grozio in un suo trattato del 1625 sul diritto di guerra e di pace (“De iure belli ac pacis”).
In effetti Grozio era un calvinista olandese; egli usa la formula dell’ “Etsi Deus non daretur” come un paradosso, anzi la considera un’espressione blasfema e la usa non per licenziare Dio, ma per ritrovarlo nella ragione, nel diritto e nelle azioni degli uomini. È Grozio che si inventa la libertà dei mari (se lo seguissimo non ci sarebbero i genocidi di cui siamo complici nel canale di Sicilia), è Grozio che è tra i fondatori del diritto internazionale, che fa scendere dai cieli il diritto naturale, che combatte il dogmatismo calvinista della predestinazione e che scrive un’opera apologetica che sarà molto usata dai missionari, intitolata “De veritate christianae religionis”. Non era certo un miscredente. Ma anche tra gli illuministi si ritrovano radici cristiane. Si pensi a Cartesio, che con il suo cogito – io penso – è stato considerato dal cattolicesimo romano come colui che distrugge la visione cristiana del mondo, il padre del razionalismo, del laicismo e del secolarismo moderno, e da cui invece un pensatore cattolico tradizionalista come Augusto Del Noce faceva scendere una linea di pensiero che giungeva fino a Rosmini e a Rahner, In Cartesio l’ “idea Dei” è quella che pone il vero fondamento del cogito “in altro da sé”: “cogitor a Deo, ergo sum”: sono pensato da Dio, perciò io sono”.
Papa Francesco riapre la questione di Dio
Ora, sanata con il Concilio la ferita del conflitto col mondo moderno, papa Francesco sta cercando di rimuoverne le macerie, di togliere il frutto avvelenato che esso ha lasciato e, di fronte a una modernità che l’aveva chiusa, sta riaprendo la questione di Dio. Il suo compito non è annunciare la Chiesa, rafforzare mondanamente la Chiesa e nemmeno principalmente riformarla: il suo compito è quello di rinnovare l’annuncio di Dio, del Padre, di togliere gli ostacoli e aprire le vie perché gli uomini e le donne del nostro tempo possano ricominciare a credere, possano tornare ad avere la gioia di credere, la gioia di mettersi in ascolto del Vangelo, l’ “evangelii gaudium”: la gioia del Vangelo, il programma del pontificato.
Ciò facendo Francesco riprende la Chiesa là dove il Concilio l’aveva lasciata, cioè dal nuovo annuncio di Dio “in quella forma che la nostra età esige”. E forse è l’ultima chiamata: perché se la formula del “come se Dio non ci fosse” ha permesso alla società di svolgersi, l’ha anche impoverita, l’ha incardinata su una finzione (“come se”), su una sorta di conventio ad excludendum (il tacito accordo di fare a meno di Dio), e quindi l’ha deviata verso gli idoli, l’ha incattivita, fino alle catastrofi, ed anzi ai genocidi del Novecento.
Papa Francesco ha intrapreso la sua lotta contro gli idoli, a cominciare dal Dio denaro, che “governa invece di servire”. E annuncia un Dio non invadente, un Dio e una Chiesa che non “si ingeriscono” contro la libertà delle persone.
Il Dio di Francesco è il Dio che “c’è”, che non usurpa, che non invade, che non aliena, che ci fa essere più che umani.
Soprattutto è il Dio che per misericordia svuota se stesso, come è cantato nell’inno della lettera ai Filippesi. Non il Dio “misericordioso”, ma il Dio che è tutto e solo misericordia, il Dio che “primerea”, come Francesco dice con un neologismo, cioè che è sempre il primo in amore, che ci precede sempre, che perdona sempre, il Dio che imprime in noi la sua immagine come libertà, che crea e ri-crea, che non fa discriminazioni contro nessuno, un Padre universale. E’ un Dio straniero a Gerusalemme, se Gerusalemme pratica l’ingiustizia, è un Dio nonviolento, un Dio non sacrificatore.
Le preoccupazioni
Se questa è l’impostazione del pontificato di Francesco, quali sono le preoccupazioni sulla sua riuscita? Naturalmente non parliamo degli oppositori, degli zelanti, dei “dottori della legge” ma di quanti sinceramente accolgono il suo messaggio.
Ho ricevuto due lettere, una di un teologo, l’altra di un giurista, in cui sono espresse due esigenze contrapposte.
La prima lettera postula che il papa provveda alla riforma del papato, senza la quale la riforma della Curia non si può fare. Occorre passare dalla collegialità “affettiva” a quella “effettiva”, mentre il timore è che papa Francesco, avendo una concezione del governo “tutta gesuitica”, ascolti bensì tutti, ma poi decida da solo. E, finito il suo carisma, tutto torni come prima.
La seconda lettera esprime un pessimismo “da giurista” . In una Chiesa come la nostra, dice, per rinnovare occorre cambiare le norme. Non basta cambiare abitudini, parole, neppure gli uomini. Il timore è che la formazione di papa Francesco possa portarlo a sottovalutare l’importanza del passaggio normativo. I gesuiti puntano all’ “accompagnamento” spirituale, “ma ora, per la prima volta, un gesuita svolge funzioni di governo (universali), anzi addirittura la plenitudo potestatis. Saprà mettersi dall’altra parte, dietro la cattedra, fare il supremo legislatore? Perché al momento è così: da lui solo dipende la riforma del codice. Per esempio la sinodalità nuova sperimentata all’ultimo sinodo dev’essere normata nel codice. Il Consiglio degli 8 cardinali, come consiglio permanente del papa, pure”; così per i matrimoni, i processi, la struttura istituzionale; altrimenti chi verrà dopo potrà fare anche il contrario di Francesco e nondimeno “iuxta canones”.
È tutta la Chiesa che deve rispondere a queste preoccupazioni, tutta la Chiesa deve prendere in mano il pontificato di Francesco.
Una regola “francescana” della Chiesa
Io tenterei qui solo un suggerimento: facciamo della “Evangelii Gaudium” la “regola” della Chiesa, la “regola francescana” della Chiesa.
Una Regola non è il Vangelo, non è il codice di diritto canonico, non è una “lex fondamentalis ecclesiae”; la Regola è una guida sia spirituale che normativa, non obbligatoria, non imposta ma che viene abbracciata da ciascuno come scelta di vita. A questa Regola si potrebbe ispirare un movimento laicale (non nel senso che non vi appartengano anche preti e vescovi), il cui carisma sarebbe quello di animare e realizzare una Chiesa come quella descritta o sognata nel documento programmatico - evangelii gaudium - di questo pontificato.
10 aprile 2015
ALL’ISTITUTO DI ISTRUZIONE SUPERIORE “G. ANTONIETTI”  DI ISEO
L’incontro è stato presentato dal Dirigente Scolastico, prof. Diego Parzani, cui sono seguite le domande di Anselmo Palini, docente presso questo Istituto, e in seguito quelle di diversi studenti. Hanno partecipato all’incontro una decina di classi del triennio.
CHI SONO IO, FRANCESCO?
La mia ipotesi su papa Francesco è che il suo pontificato possa segnare l’inizio di un’epoca nuova.
Non c’è dubbio che il suo apparire sia stato accompagnato da un vento di novità. Già il nome Francesco, mai usato prima da nessun papa, e quasi scelto d’istinto, quasi per caso, al momento dell’elezione, perché il cardinale brasiliano Hummes, abbracciandolo in Conclave, gli aveva detto di “non dimenticarsi dei poveri”, è stato l’avviso di un inedito che compariva, di una novità che cominciava. La questione è di vedere di quale novità si tratti, se effimera o duratura, se è una novità capace di aprire una nuova fase della storia, se può essere salutata come una prospettiva epocale, come l’aurora di un’epoca nuova.
Per rispondere a questa domanda è necessario porre il pontificato di Bergoglio in prospettiva storica, rispetto al passato e al futuro della storia della Chiesa, e anzi del mondo.
Che cos’è un’epoca nuova? Molte volte nella storia si è avuta l’impressione che cominciasse un’epoca nuova. Uno di questi momenti, secondo Bertolt Brecht, è stato quello di Galilei. Nel suo dramma “La vita di Galilei” Bertolt Brecht pensa che quello sia stato l’inizio di un’epoca nuova: si tratta evidentemente dell’epoca moderna. Scrive Brecht: “È ben noto quale benefico influsso possa esercitare sugli uomini la convinzione di trovarsi alle soglie di un’epoca nuova. Il mondo che li circonda appare ai loro occhi imperfetto, suscettibile dei più luminosi miglioramenti, pieno di possibilità già intraviste e di altre mai prima sognate, docile cera in loro mano”.
Tuttavia quest’epoca nuova, che fu la modernità, che è stata certamente grandissima, è stata anche l’epoca in cui Dio è stato perduto. Se ora con Francesco cominciasse una nuova epoca, un’epoca che potremmo chiamare neo-moderna, potrebbe essere l’età del ritrovamento di Dio. Ed è di buon auspicio che mons. Capovilla, il cardinale che fu segretario di Giovanni XXIII, sapendo di questi nostri incontri di Brescia, mi abbia affidato, da trasmettervi, questa esortazione di papa Giovanni: “Pensare in grande, guardare alto e lontano”.
Le “contraddizioni” di Francesco
Ed io vorrei cominciare citando delle “contraddizioni” di papa Bergoglio.
Ha detto, nell’intervista alla Civiltà Cattolica, che la Chiesa è un ospedale da campo in mezzo alla battaglia; ciò vuol dire che deve volgersi all’essenziale: quando si è feriti, prima di tutto si cura la ferita non si sta a guardare se il ferito ha il colesterolo e gli zuccheri alti. Prima si curano le ferite, poi si pensa al resto. Però ai barboni che vivono nei pressi di Piazza San Pietro il papa offre le docce e fa fare la barba sotto i portici. E ciò perché la non dignità è la ferita! Il rispetto per la dignità anche dei più miseri è la caratteristica di papa Francesco. Ha scritto nella Evangelii gaudium: tutti imparino a togliersi i sandali davanti alla terra sacra dell’altro (E.G. 169, citazione da Es. 3,5). Poi Francesco dopo aver dato ai barboni da mangiare e da farsi fare la barba, li invita alla Cappella Sistina a vedere Michelangelo perché anche loro hanno diritto alla bellezza.
Papa Francesco dice che Dio è misericordia e perdona sempre. Però fa arrestare un arcivescovo pedofilo in Vaticano. Perché la misericordia non è cieca, tra l’arcivescovo e i bambini sceglie i bambini.
Veste di bianco ma porta le scarpe nere: ci vogliono scarpe buone per una Chiesa in uscita, per andare col gregge e percorrere sui monti le vie della pace.
Annuncia il Vangelo urbi et orbi. Ma poi lo spiega a una piccola comunità ogni mattina nella Cappella di Santa Marta.
Esce per la benedizione al popolo appena eletto, ma è lui che si fa benedire.
Dice che il matrimonio è indissolubile, ma i divorziati li vuole in Chiesa.
E’ non violento, ma dice anche che l’ingiusto aggressore non solo “deve” essere fermato, ma “ha diritto di essere fermato”, per non fare più male.
Sembrano contraddizioni ma non lo sono, perché la domanda non è: che cosa dice la legge; la domanda è: qual è la via di Dio, qui, oggi?
Papa Francesco annuncia un Dio di misericordia. La misericordia non è solo uno degli attributi di Dio, è l’unica ermeneutica possibile di Dio, almeno secondo la visione, l’ “esegesi” che ne ha dato Gesù di Nazaret. È questo Dio che papa Francesco vuole riportare nel mondo, perché il mondo, pur mentre avanzava nel progresso, ha fatto l’esperienza di che cosa voglia dire l’esilio di Dio, che cosa voglia dire fare tutto “come se Dio non ci fosse”. Significa vivere una finzione, ma non si può vivere facendo finta, una società fondata sulla finzione va in rovina, e non a caso la società del “come se” è finita nei genocidi del ventesimo secolo, e questi continuano tuttora. È questa la ragione per tornare dalla finzione alla realtà. Certo si può dire: Dio non c’è, l’affermazione atea è legittima, ma lo stratagemma di lasciar esistere Dio per permettere alle religioni e alle chiese di continuare, facendo però come se Dio non ci fosse, si è rivelato disastroso; è il “relativismo pratico” a cui si è riferito papa Francesco nella “Evangelii gaudium”, al n. 80: “Questo relativismo pratico consiste nell’agire come se Dio non esistesse, decidere come se i poveri non esistessero, sognare come gli altri non esistessero, lavorare come se quanti non hanno ricevuto l’annuncio non esistessero”.
Per questo papa Francesco cerca di riaprire per il mondo di oggi la questione di Dio. Non per imporre nuovi pesi sulle spalle di un’umanità sofferente, ma perché questa umanità possa tornare a sperare, e ad essere felice. Non a caso la gioia è la parola chiave del pontificato di papa Francesco, e la prima parola del suo documento programmatico “Evangelii gaudium”. Qui, fin dai primi paragrafi, citando il Vangelo e i Profeti, papa Francesco annuncia la gioia: “Forse – scrive - l’invito più contagioso è quello del profeta Sofonia, che ci mostra lo stesso Dio come un centro luminoso di festa e di gioia che vuole comunicare al suo popolo questo grido salvifico. Mi riempie di vita rileggere questo testo: ‘Il Signore, tuo Dio, in mezzo a te è un salvatore potente. Gioirà per te, ti rinnoverà con il suo amore, esulterà per te con grida di gioia’ (Sof 3,17). È la gioia che si vive tra le piccole cose della vita quotidiana, come risposta all’invito affettuoso di Dio nostro Padre: « Figlio, per quanto ti è possibile, tràttati bene … Non privarti di un giorno felice » (Sir 14,11.14). Quanta tenerezza paterna si intuisce dietro queste parole!”.
L’epoca nuova è l’epoca di un Dio che ritorna e dice ai suoi figli: “Trattati bene, non privarti di un giorno felice”.
E se si tratta di questo, è evidente che ciò non riguarda solo i credenti, non solo i cattolici, ma tutti.
10 aprile 2015
A BRESCIA presso il salone Montini di palazzo San Paolo, ospiti dell’Azione cattolica diocesana. L’incontro è stato organizzato da Libreria Paoline, Azione cattolica, Acli, Centro Missionario Diocesano, Missionari Saveriani, Missionari Comboniani, Pax Christi, Società di San Vincenzo de Paoli, Servizio Volontario Internazionale. Dopo un saluto iniziale di Giuliana Sberna, presidente dell’Azione cattolica bresciana, ha introdotto l’incontro Anselmo Palini. Poi il giornalista Massimo Tedeschi del “Corriere della Sera” ha proposto una propria lettura del testo, ponendo anche delle domande. Altre domande sono state poste dai numerosi partecipanti all’incontro.
PARTIRE DAL CONCILIO PER UN NUOVO ANNUNCIO DI DIO
A Gussago ieri abbiamo parlato del pontificato di Francesco come del possibile inizio di un’epoca nuova. Può sembrare esagerato o prematuro o apologetico legare a questo pontificato una speranza di epoca nuova, ma è anche necessario rompere la cappa di pessimismo, di disperazione, di fatuità e di violenza che domina il presente momento storico. In questa situazione questo pontificato sembra l’unico varco alla speranza, il che spiega il suo straordinario successo. Però esso contiene anche un mistero, così come nel caso di Giovanni XXIII si parlò di un mistero Roncalli. E il mistero adombrato nel titolo – “Chi sono io” del mio libro, è ripreso nell’ultimo capitolo: “Ce la farà?”.
Questo libro vorrebbe essere uno strumento per tentare di decifrare questo mistero.
Ma prima di tutto bisogna che ci mettiamo nel contesto, perché sono molto importanti il tempo e il luogo da cui si parla.
Per esempio il papa ha detto ai teologi, scrivendo all’Università Cattolica Argentina, che il luogo da cui fare teologia non è quello degli studi a tavolino, ma sono le periferie, perché anche i teologi, come i pastori, devono avere l’odore della strada e del popolo, e il tempo non è quello neutro della staticità ma è il tempo che è percorso dai conflitti, non solo quelli della Chiesa ma anche quelli del mondo, quelli che si vivono lungo le strade.
Così dunque dobbiamo fare anche noi, sapere il tempo e il luogo da cui parliamo.
Tempo di martiri
Il tempo è un tempo di martiri. Il papa li ha ricordati nel “Regina Coeli” di lunedì scorso, il lunedì dell’angelo; ha ricordato i nostri fratelli e sorelle perseguitati, esiliati, uccisi, decapitati; loro sono i nostri martiri di oggi – ha detto – e sono tanti, possiamo dire che sono più numerosi che nei primi secoli.
Dunque il primo dato per capire questo pontificato è che il tempo in cui la Chiesa di Francesco testimonia ed opera, è un tempo di martirio.
In realtà i martiri la Chiesa li ha sempre avuti, non sta qui la novità. Il 24 marzo abbiamo ricordato il martirio di mons. Romero, qualche giorno primo il martirio di Marianella, l’avvocata dei poveri nel Salvador, come abbiamo ricordato il martirio di decine di gesuiti uccisi in America Latina durante i regimi militari, che è poi la storia da cui viene Bergoglio.
Dunque la novità non sono i martiri. La novità è che abbiamo preso coscienza – il papa lo ha rilevato più volte – che il sangue dei martiri si mischia.
Il papa ha ricordato i martiri dell’Uganda, canonizzati cinquant’anni fa: gli aguzzini non chiedevano se fossero cattolici o anglicani o ortodossi; erano cristiani e come tali uccisi.
Il martirio è il luogo dell’ecumenismo realizzato. E il papa dice: se lo realizziamo nella morte, ciascuno con le proprie differenze, perché non è che prima di morire ci si iscrive alla Chiesa romana, perché questo ecumenismo delle differenze, questo poliedro in cui le diverse parti non hanno la stessa distanza dal centro, non lo potremmo realizzare in vita? Lo ha detto con il patriarca Bartolomeo a Costantinopoli, e il patriarca era d’accordo.
Ma c’è anche un’altra novità. Non solo abbiamo preso coscienza che il sangue dei cristiani si mischia, ma che si mischia il sangue di tutte le fedi. Li vediamo con le tuniche arancioni prima di essere sgozzati: ci sono cristiani, d’oriente e di occidente, ma ci sono anche sunniti, sciiti, sefarditi, curdi. Non c’è solo un sangue ecumenico, c’è un sangue e un martirio interreligioso, c’è un sangue e un martirio di gente religiosa e non religiosa, laica e secolare, credente ed atea. La “nostra aetate” di cui parla il Concilio, è l’età di un martirio senza frontiere, né etniche, né religiose, è l’età di un dolore universale, di un umanità sofferente. A Poggioreale, al carcere di Napoli, lontano dai clamori, dalle telecamere tenute fuori del portone chiuso, il papa si è messo a tavola con uomini scartati di tutte le religioni e di diverse culture. E se lunedì scorso al “Regina Coeli” il papa ha ricordato i martiri cristiani, nel messaggio di Pasqua “urbi et orbi” ha pregato per tutte le vittime dei conflitti e delle violenze in corso, ha pregato per la Siria, per l’Iraq, per la Libia, per la pace con l’Iran, per la pace tra Israele e Palestina, senza ascoltare chi vorrebbe che egli prendesse le difese dei cristiani perseguitati contro i musulmani e contro tutti gli altri.
Dunque, è dalla presa di coscienza di questa umanità martire, di questo dolore universale, che nasce la Chiesa del III millennio, la Chiesa di papa Francesco, la Chiesa ospedale da campo, la Chiesa delle periferie, degli scarti, degli esclusi, la Chiesa dei poveri che non solo subiscono l’ingiustizia ma lottano contro l’ingiustizia, la Chiesa che denuncia la dittatura spietata del denaro, la Chiesa che denuncia questa economia che uccide, un’economia senza un volto e uno scopo veramente umano.
Ed è di fronte a questa umanità martire, che per Bergoglio prende tutto il suo senso la croce, il cristianesimo della croce, non perché il cristianesimo ami i patiboli, anzi li aborre, anche quello del figlio di Dio, ma perché l’amore, fino al patibolo è l’unico rimedio, è l’unico antidoto al martirio. Il peccato che ha origine nell’uomo che uccide il fratello, giunge al termine ed è cacciato fuori dal figlio dell’uomo e perciò da ogni uomo, che muore per il fratello. Questa è la catechesi sul peccato originale che papa Francesco ha fatto prima a Gerusalemme e poi a Redipuglia: “Uomo dove sei?” è la domanda che papa Francesco fa rivolgere da Dio non a Adamo, ma a Caino.
Il luogo del Concilio
E riguardo al luogo da cui parliamo: siamo a Brescia, la città di padre Manziana, di padre Caresana, di Franco Salvi, di Ludovico Montini, ma anche la città del Concilio, alimentato e fatto vivere nei libri della Morcelliana e della Queriniana, ma soprattutto preso in mano e portato a compimento con coraggio da Paolo VI, da papa Montini.
Ora, quello che papa Francesco ha fatto è stato di tirar fuori il Concilio dalle secche in cui si era insabbiato e di riaccenderne la spinta propulsiva. Lo ha fatto canonizzando papa Giovanni, il padre del Concilio, e soprattutto togliendo di mezzo l’alibi che con forza insuperabile ne impediva l’attuazione. L’alibi era quello della continuità, non vi devono essere conflitti né turbamenti, la Chiesa è sempre quella, mai si è potuta sbagliare, il deposito non si tocca, si è sempre fatto così, i fedeli non devono essere disturbati, i vescovi tanto meno, le chitarre stonano, l’eucarestia non deve sembrare un desinare, gli abbracci di pace sono troppo effusivi, nessuno oltre al prete deve parlare nella messa, il divorziato risposato non può fare la comunione finché il primo coniuge non muore, come è soave la pace dei cimiteri. Questo ideale di una Chiesa immobile come un Budda è stato rovesciato da papa Francesco che ha portato la Chiesa in sala di rianimazione, l’ha voluta sempre in uscita, sempre a infangarsi dove i fiumi sono in piena e il cammino è precario, perché il problema non è che la Chiesa rimanga sempre uguale a se stessa, e che nemmeno uno “iota” cambi della sua dottrina, ma che essa trovi la luce “negli abissi profondi delle sue fondamenta”, perché “il domani della Chiesa abita sempre nelle sue origini”, come Francesco ha detto alla Congregazione per i vescovi il 27 febbraio 2014. Riscoprire sempre e di nuovo l’origine, per andare avanti, questa è la riforma della Chiesa: dividendosi, anche, come è sempre accaduto al primo vento di riforme; ma è adulta una Chiesa che sia, come i coniugi, capace di reggere la discussione, il litigio, il conflitto, purché prima di sera si faccia la pace.
In tal modo Francesco riprende il Concilio e dichiara irreversibile il suo modo di leggere il Vangelo nella cultura di oggi. Lo ha scritto nella lettera all’Università Cattolica argentina il 3 marzo 2015: “Il Concilio Vaticano II è stato un aggiornamento, una rilettura del Vangelo nella prospettiva della cultura contemporanea. Ha prodotto un irreversibile movimento di rinnovamento che viene dal Vangelo. E adesso bisogna andare avanti”.
Ma per riprendere, continuare e sviluppare il Concilio bisogna capire che cosa veramente il Concilio è stato. E forse ora, cinquant’anni dopo, si può capire meglio di quanto allora lo capimmo noi stessi che lo abbiamo vissuto.
Ci sarebbero state, secondo papa Ratzinger e il suo famoso discorso alla Curia del 22 dicembre 2005, due ermeneutiche nella interpretazione del Concilio Vaticano II: un’ermeneutica della continuità e un’ermeneutica della rottura. Ma continuità e discontinuità riguardavano la Chiesa, e infatti papa Ratzinger, pur nella riforma, che ammetteva ci fosse stata, rivendicava la continuità “dell’unico soggetto Chiesa”, ed era ovvio che fosse così. Però tutto sarebbe finito lì se il Concilio si fosse occupato solo della Chiesa e della sua riforma. Ma il Concilio si era occupato anche del contenuto del messaggio, non solo dell’annunciatore, ma dell’annuncio. E qui senza dubbio ci sono state delle novità. Benedetto XVI stesso lo ha affermato quando ha detto che nel rapporto con l’età moderna c’era stata una discontinuità, non perché la Chiesa abbia fatto con essa un concordato o un compromesso, ma perché ha cambiato il suo approccio: sulla libertà, sulla libertà di coscienza, sulla scienza, sullo Stato moderno, sulle altre religioni; la Chiesa ha cambiato il suo pensiero e, se non abbiamo paura delle parole, diciamo pure che ha cambiato le sue dottrine, i suoi concetti teologici.
Ora a cinquant’anni di distanza si vede che proprio in questo rinnovamento dell’annuncio di fede la rivoluzione avviata dal Concilio è stata più importante. Del resto è proprio questo che doveva fare il Concilio, è proprio questo che Giovanni XXIII gli aveva chiesto: un “balzo innanzi nella penetrazione dottrinale e nella formazione delle coscienze”, così che il tesoro della fede fosse reinvestigato (pervestigetur) e annunciato al mondo in quel modo che i nostri tempi richiedono (“ea ratione quam tempora postulant nostra”: discorso Gaudet Mater Ecclesia di Giovanni XXIII dell’11 ottobre 1962).
La mia tesi, la tesi di questo libro, è che papa Francesco proprio per questo è venuto e proprio questo sta facendo: la novità non è principalmente la novità della riforma della Chiesa, la novità è la novità dell’annuncio.
La novità consiste nel riaprire nei confronti del mondo moderno la questione di Dio: sì, la questione morale, sociale, politica, ma a partire dalla questione di Dio. Quale Dio?
Una necessità questa che era già presente prima del Concilio, perché dalla modernità Dio era già stato perduto. Le si era presentato un Dio sbagliato, un Dio che doveva essere di ostacolo al cammino dell’uomo, allo sviluppo delle scienze, del diritto, dello Stato, delle libertà moderne, del pluralismo religioso, e così l’umanità aveva deciso di andare avanti da sé.
Ma per comprendere meglio questo allontanamento e riavvicinamento dell’umanità con Dio, occorre fare una ricognizione storica di questo processo che praticamente percorre tutto il secondo millennio della religione cristiana.
Fu all’inizio del secondo millennio che si ruppe l’unità della Chiesa, si scomunicarono e si separarono la Chiesa d’Oriente e la Chiesa d’Occidente, quando il papa di Roma fece deporre la bolla di scomunica sull’altare della Chiesa di Santa Sofia a Costantinopoli.
La Chiesa non ha luce propria
Che cosa era successo? Lo hanno spiegato il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo e papa Francesco in occasione del loro incontro ad Istanbul. Tutti e due hanno detto che la Chiesa invece di vedere Dio vedeva se stessa, ha preteso di brillare di luce propria invece di riflettere il fulgore divino, e perciò non ha più capito neanche se stessa,
Secondo il patriarca Bartolomeo, mentre la Chiesa dei primi secoli aveva trasmesso il messaggio autentico del cristianesimo, in seguito si era perduta dietro il miraggio dell’impero cristiano, aveva ceduto allo spirito mondano, in modo da innescare un processo che allontana dalla fonte che illumina la Chiesa, il Cristo morto e risorto, per produrre una Chiesa che vorrebbe brillare da sé. E ha detto papa Francesco sull’aereo di ritorno da Istanbul: “La Chiesa ha il difetto, l’abitudine peccatrice di guardare troppo se stessa, come se credesse di avere luce propria. Ma la Chiesa non ha luce propria. Deve guardare Gesù Cristo. I primi Padri chiamavano la Chiesa “mysterium lunae”, il mistero della luna, perché dà luce, ma non è luce propria, è quella che viene dal sole. E quando la Chiesa guarda troppo se stessa, vengono le divisioni”.
Dunque, se la Chiesa diviene autoreferenziale, si divide, e non solo, ma sfigura se stessa. Così, dopo la divisione dall’Oriente, nell’XI secolo arriva la grande riforma della Chiesa d’Occidente (la “rivoluzione papale”, dicono gli storici) fatta dal papa Gregorio VII e dai suoi successori. Con la riforma gregoriana la Chiesa cattolica si presentava al mondo come il supremo potere terreno, super reges et regna – sopra i re ed i regni – e ha fatto del papa il sovrano con due spade, la spada spirituale e quella temporale, a cui dovesse essere soggetta “ogni umana creatura”
Messe così le cose, la Chiesa non poteva che entrare in conflitto non solo con i Prìncipi, ma anche con un mondo che cercava le sue strade. E se con Galilei cominciò l’epoca nuova, la Chiesa si trovò dall’altra parte, e condannò Galilei. Partì da lì il conflitto tra la Chiesa e il mondo moderno e in tal modo tutta la modernità, in Europa e in Occidente, si è andata svolgendo come un processo di progressiva separazione da Dio.
Perciò, chiusa col Vaticano II questa fase, e ripartito con papa Francesco il processo avviato dal Concilio, questa potrebbe essere ora l’epoca del ritorno di Dio, della gioia del poter ricominciare a credere. Ma qui c’è l’obiezione: che cosa accadrà se passa il carisma di Francesco senza che la Chiesa sia veramente cambiata? E’ da qui che parte la nostra responsabilità, il compito di fare nostro il programma di Francesco, la scelta di adottare la Evangelii Gaudium come la nuova Regola “francescana” della Chiesa e della stessa vita cristiana.
Raniero La Valle
1 Italo Mancini, Come continuare a credere, Rusconi, Milano, 1980.
2 Ivi, pp.22-25.
3 Ivi, p. 23, n. 11.
 



Mercoledì 29 Aprile,2015 Ore: 19:18
 
 
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La chiesa di Papa Francesco

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