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www.ildialogo.org LA SCOMUNICA ALLA MAFIA CHE LASCIA I PRETI SOLI,don Gennaro Matino

LA SCOMUNICA ALLA MAFIA CHE LASCIA I PRETI SOLI

don Gennaro Matino

Sono passati quindici anni da quando Giovanni Paolo II lanciò il suo anatema alla mafia: “Convertitevi! Un giorno, verrà il giudizio di Dio: mafia non uccidere!”.
Due domeniche fa, sulla spianata di Sibari, papa Francesco ha lanciato la sua sfida definitiva: «La ‘ndrangheta è adorazione del male. La Chiesa deve sempre più spendersi perché il bene possa prevalere. I mafiosi sono scomunicati».
Un grido, mai prima ascoltato, che consegna il no definitivo della Chiesa a qualsiasi compromesso con i poteri mafiosi.
Tuttavia, perché l’appello del papa possa avere davvero una ricaduta oltre il simbolico, che possa incidere nella vita concreta della Chiesa e non restare voce di uno che grida nel deserto, avrebbe bisogno di precisazioni pastorali.
La scomunica ai mafiosi non è e non può essere solo la condanna di un peccatore.
Ogni peccato grave, chiunque lo commetta, porta in se stesso il peso di una scomunica, una esclusione momentanea dalla vita comunitaria.
Comminare una scomunica pubblica è invece prendere coscienza di un sistema di peccato che va oltre il singolo e crea scandalo nella comunità, un’aggressione sistemica che mina la Chiesa e la società nelle sue fondamenta.
Scomunicare la ‘ndrangheta è allora chiedere la conversione del singolo, ma è pretenderla dall’intero sistema malavitoso, ai suoi innumerevoli e nascosti complici, presenti anche nella Chiesa, che lo hanno coperto e giustificato.
È proclamare la completa e totale avversità del credente a tale sistema di vita che è strategia di peccato.
È il richiamo alla Chiesa stessa, a una sua conversione riguardo alla mafia, un richiamo a non essere più complice silenziosa di scelte lontane dal Vangelo passate come tradizione di popolo. Non c’è giustificazione sociale, non c’è analisi storica, non c’è questione ambientale o culturale che giustifichi la mafia.
Purtroppo i sistemi malavitosi per poter sopravvivere necessitano di una forte organizzazione aggregativa che, sapientemente costruita sulle dinamiche dell’affare, ha bisogno di consensi e di riconoscibilità fondata su parole, immagini, riti che trovano nella superstizione terreno fertile, che non sempre ha trovato invece una Chiesa contraria. Anzi, processioni e affari, organizzati da camorra e mafia, spesso hanno incontrato la benedizione di vescovi e preti.
Anche a Napoli, di fronte all’incalzare del fenomeno camorrista, la Chiesa ha dichiarato che non bisogna amministrare i sacramenti a chi ne fa parte.
Tuttavia dai principi alla prassi ecclesiale la strada è irta di difficoltà, soprattutto perché a un sistema del male si risponde con progetti altrettanto sistematici, con indicazioni pastorali precise che possano chiarire alla base ecclesiale come dovrà comportarsi.
La scomunica esclude un battezzato dalla comunione dei fedeli, ora chi dovrà decidere tale pena?
Basta confidare nella coscienza del malavitoso, nel privato delle sue scelte perché la società e la Chiesa possano godere della sua conversione e immaginare in un suo ravvedimento non pubblico lo sfaldarsi del sistema a cui segretamente apparteneva?
Ma se il camorrista, o il mafioso, non ha coscienza del suo essere credente, cosa che è di norma, e chiedesse comunque i sacramenti, chi dovrà decidere la sua esclusione? Le prove degli inquirenti o le sentenze dei magistrati?
La decisione ultima resta alla sensibilità del parroco, spiega il segretario generale dei vescovi italiani, monsignor Galantino.
Anche Vito Mancuso rimanda alla conversione della Chiesa locale e al mutamento del suo atteggiamento pastorale.
Vero in linea di principio, lontano dalla realtà.
Perché sia utile alla comunità credente e alla società la conversione del colpevole e metta il reo nella possibilità di rinnegare la diabolicità del sistema a cui faceva parte è necessario da parte della Chiesa un coraggioso atto pubblico di sua esclusione senza possibilità di errore e, a fronte della sua conversione, per non restare voce senza volontà di cambiamento, l’onere e la responsabilità di dichiararne il suo reinserimento.
Non serve lanciare una scomunica a un criminale pubblico che resti nel privato, non è pedagogico né per la sua conversione, né per ingenerare un cambiamento sociale.
Peraltro pensare che la responsabilità di decisioni ultime, di una scelta così grave, possa ricadere per intero sulle spalle di chi opera quotidianamente tra la gente, lasciare da soli i parroci, che già vivono con coraggio la solitudine delle loro scelte, senza curia e senza scorte, senza garantirli con un atto canonico pubblico di condanna del mafioso, sarebbe offensivo del detto evangelico che invece chiede a chi ha più responsabilità di dare molto di più.
Forse sarebbe utile, prima di dichiarare una guerra, sapere con quale esercito affrontarla.

Articolo pubblicato su Repubblica Napoli il 29.6.2014


Martedì 01 Luglio,2014 Ore: 19:31
 
 
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