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www.ildialogo.org Papa Francesco è dalla parte del diritto al lavoro e della dignità sul lavoro,a cura di Giuliano Ciampolini

Papa Francesco è dalla parte del diritto al lavoro e della dignità sul lavoro

a cura di Giuliano Ciampolini

Di seguito trovate alcune risposte che ha dato
papa Francesco
nell'incontro con il mondo del lavoro a Genova.
I testi integrali potete leggerli su:
m.vatican.va
VEDI VIDEO SU:
youtube.com
youtube.com

Nessun buon imprenditore ama licenziare la sua gente – no, chi pensa di risolvere il problema della sua impresa licenziando la gente, non è un buon imprenditore, è un commerciante, oggi vende la sua gente, domani vende la propria dignità –, ci soffre sempre, e qualche volta da questa sofferenza nascono nuove idee per evitare il licenziamento. Questo è il buon imprenditore.

Una malattia dell’economia è la progressiva trasformazione degli imprenditori in speculatori. L’imprenditore non va assolutamente confuso con lo speculatore: sono due tipi diversi. L’imprenditore non deve confondersi con lo speculatore: lo speculatore è una figura simile a quella che Gesù nel Vangelo chiama “mercenario”, per contrapporlo al Buon Pastore. Lo speculatore non ama la sua azienda, non ama i lavoratori, ma vede azienda e lavoratori solo come mezzi per fare profitto. Usa, usa azienda e lavoratori per fare profitto. Licenziare, chiudere, spostare l’azienda non gli crea alcun problema, perché lo speculatore usa, strumentalizza, “mangia” persone e mezzi per i suoi obiettivi di profitto.
Quando l’economia è abitata invece da buoni imprenditori, le imprese sono amiche della gente e anche dei poveri. Quando passa nelle mani degli speculatori, tutto si rovina. Con lo speculatore, l’economia perde volto e perde i volti. E’ un’economia senza volti. Un’economia astratta. Dietro le decisioni dello speculatore non ci sono persone e quindi non si vedono le persone da licenziare e da tagliare. Quando l’economia perde contatto con i volti delle persone concrete, essa stessa diventa un’economia senza volto e quindi un’economia spietata. Bisogna temere gli speculatori, non gli imprenditori; no, non temere gli imprenditori perché ce ne sono tanti bravi!

Mi viene in mente di rispondere, all’inizio, con un gioco di parole… Tu hai finito con la parola “riscatto sociale”, e mi viene il “ricatto sociale”. Quello che dico adesso è una cosa reale, che è accaduta in Italia circa un anno fa. C’era una coda di gente disoccupata per trovare un lavoro, un lavoro interessante, di ufficio. La ragazza che me lo ha raccontato – una ragazza istruita, parlava alcune lingue, che era importante per quel posto – e le hanno detto: “Sì, può andare…; saranno 10-11 ore al giorno…” – “Sì, sì!” – ha detto lei subito, perché aveva bisogno di lavoro – “E si incomincia con – credo che abbiano detto, non voglio sbagliare, ma non di più – 800 euro al mese”. E lei ha detto: “Ma… 800 soltanto? 11 ore?”. E il signore – lo speculatore, non era imprenditore, l’impiegato dello speculatore – le ha detto: “Signorina, guardi dietro di Lei la coda: se non le piace, se ne vada”. Questo non è riscatto ma ricatto!

Sulla terra ci sono poche gioie più grandi di quelle che sperimentano lavorando, come ci sono pochi dolori più grandi dei dolori del lavoro, quando il lavoro sfrutta, schiaccia, umilia, uccide. Il lavoro può fare molto male perché può fare molto bene. Il lavoro è amico dell’uomo e l’uomo è amico del lavoro, e per questo non è facile riconoscerlo come nemico, perché si presenta come una persona di casa, anche quando ci colpisce e ci ferisce. Gli uomini e le donne si nutrono del lavoro: con il lavoro sono “unti di dignità”. Per questa ragione, attorno al lavoro si edifica l’intero patto sociale. Questo è il nocciolo del problema. Perché quando non si lavora, o si lavora male, si lavora poco o si lavora troppo, è la democrazia che entra in crisi, è tutto il patto sociale. E’ anche questo il senso dell’articolo 1 della Costituzione italiana, che è molto bello: “L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro”.
In base a questo possiamo dire che togliere il lavoro alla gente o sfruttare la gente con lavoro indegno o malpagato o come sia, è anticostituzionale. Se non fosse fondata sul lavoro, la Repubblica italiana non sarebbe una democrazia, perché il posto di lavoro lo occupano e lo hanno sempre occupato privilegi, caste, rendite. Bisogna allora guardare senza paura, ma con responsabilità, alle trasformazioni tecnologiche dell’economia e della vita e non rassegnarsi all’ideologia che sta prendendo piede ovunque, che immagina un mondo dove solo metà o forse due terzi dei lavoratori lavoreranno, e gli altri saranno mantenuti da un assegno sociale.

Dev’essere chiaro che l’obiettivo vero da raggiungere non è ilreddito per tutti”, ma illavoro per tutti!
Perché senza lavoro, senza lavoro per tutti non ci sarà dignità per tutti. Il lavoro di oggi e di domani sarà diverso, forse molto diverso – pensiamo alla rivoluzione industriale, c’è stato un cambio; anche qui ci sarà una rivoluzione – sarà diverso dal lavoro di ieri, ma dovrà essere lavoro, non pensione, non pensionati: lavoro.
Si va in pensione all’età giusta, è un atto di giustizia; ma è contro la dignità delle persone mandarle in pensione a 35 o 40 anni, dare un assegno dello Stato, e arràngiati. “Ma, ho per mangiare?”. Sì. “Ho per mandare avanti la mia famiglia, con questo assegno?” Sì. “Ho dignità?” No! Perché? Perché non ho lavoro. Il lavoro di oggi sarà diverso. Senza lavoro, si può sopravvivere; ma per vivere, occorre il lavoro. La scelta è fra il sopravvivere e il vivere. E ci vuole il lavoro per tutti.
Per i giovani… Voi sapete la percentuale di giovani dai 25 anni in giù, disoccupati, che ci sono in Italia? Io non lo dirò: cercate le statistiche. E questo è un’ipoteca sul futuro. Perché questi giovani crescono senza dignità, perché non sono “unti” dal lavoro che è quello che dà la dignità. Ma il nocciolo della domanda è questo: un assegno statale, mensile che ti faccia portare avanti una famiglia non risolve il problema.
Il problema va risolto con il lavoro per tutti. Credo di avere risposto più o meno…

I valori del lavoro stanno cambiando molto velocemente, e molti di questi nuovi valori della grande impresa e della grande finanza non sono valori in linea con la dimensione umana, e pertanto con l’umanesimo cristiano. L’accento sulla competizione all’interno dell’impresa, oltre ad essere un errore antropologico e cristiano, è anche un errore economico, perché dimentica che l’impresa è prima di tutto cooperazione, mutua assistenza, reciprocità. Quando un’impresa crea scientificamente un sistema di incentivi individuali che mettono i lavoratori in competizione fra loro, magari nel breve periodo può ottenere qualche vantaggio, ma finisce presto per minare quel tessuto di fiducia che è l’anima di ogni organizzazione. E così, quando arriva una crisi, l’azienda si sfilaccia e implode, perché non c’è più nessuna corda che la tiene. Bisogna dire con forza che questa cultura competitiva tra i lavoratori dentro l’impresa è un errore, e quindi una visione che va cambiata se vogliamo il bene dell’impresa, dei lavoratori e dell’economia.
 
Un altro valore che in realtà è un disvalore è la tanto osannata “meritocrazia”. La meritocrazia affascina molto perché usa una parola bella: il “merito”; ma siccome la strumentalizza e la usa in modo ideologico, la snatura e perverte.
La meritocrazia, al di là della buona fede dei tanti che la invocano, sta diventando una legittimazione etica della diseguaglianza. Il nuovo capitalismo tramite la meritocrazia dà una veste morale alla diseguaglianza, perché interpreta i talenti delle persone non come un dono: il talento non è un dono secondo questa interpretazione: è un merito, determinando un sistema di vantaggi e svantaggi cumulativi. Così, se due bambini alla nascita nascono diversi per talenti o opportunità sociali ed economiche, il mondo economico leggerà i diversi talenti come merito, e li remunererà diversamente. E così, quando quei due bambini andranno in pensione, la diseguaglianza tra di loro si sarà moltiplicata.
Una seconda conseguenza della cosiddetta “meritocrazia” è il cambiamento della cultura della povertà. Il povero è considerato un demeritevole e quindi un colpevole. E se la povertà è colpa del povero, i ricchi sono esonerati dal fare qualcosa. Questa è la vecchia logica degli amici di Giobbe, che volevano convincerlo che fosse colpevole della sua sventura. Ma questa non è la logica del Vangelo, non è la logica della vita: la meritocrazia nel Vangelo la troviamo invece nella figura del fratello maggiore nella parabola del figliol prodigo. Lui disprezza il fratello minore e pensa che deve rimanere un fallito perché se lo è meritato; invece il padre pensa che nessun figlio si merita le ghiande dei porci.

E’ proprio così! Chi perde il lavoro e non riesce a trovare un altro buon lavoro, sente che perde la dignità, come perde la dignità chi è costretto per necessità ad accettare lavori cattivi e sbagliati. Non tutti i lavori sono buoni: ci sono ancora troppi lavori cattivi e senza dignità, nel traffico illegale di armi, nella pornografia, nei giochi di azzardo e in tutte quelle imprese che non rispettano i diritti dei lavoratori o della natura. Come è cattivo il lavoro di chi è pagato molto perché non abbia orari, limiti, confini tra lavoro e vita perché il lavoro diventi tutta la vita.
Un paradosso della nostra società è la compresenza di una crescente quota di persone che vorrebbero lavorare e non riescono, e altri che lavorano troppo, che vorrebbero lavorare di meno ma non ci riescono perché sono stati “comprati” dalle imprese.
Il lavoro, invece, diventa “fratello lavoro” quando accanto ad esso c’è il tempo del non-lavoro, il tempo della festa. Gli schiavi non hanno tempo libero: senza il tempo della festa, il lavoro torna ad essere schiavistico, anche se superpagato; e per poter fare festa dobbiamo lavorare. Nelle famiglie dove ci sono disoccupati, non è mai veramente domenica e le feste diventano a volte giorni di tristezza perché manca il lavoro del lunedì. Per celebrare la festa, è necessario poter celebrare il lavoro. L’uno scandisce il tempo e il ritmo dell’altra. Vanno insieme.

Condivido anche che il consumo è un idolo del nostro tempo. E’ il consumo il centro della nostra società, e quindi il piacere che il consumo promette. Grandi negozi, aperti 24 ore ogni giorno, tutti i giorni, nuovi “templi” che promettono la salvezza, la vita eterna; culti di puro consumo e quindi di puro piacere. E’ anche questa la radice della crisi del lavoro nella nostra società: il lavoro è fatica, sudore.
La Bibbia lo sapeva molto bene e ce lo ricorda. Ma una società edonista, che vede e vuole solo il consumo, non capisce il valore della fatica e del sudore e quindi non capisce il lavoro. Tutte le idolatrie sono esperienze di puro consumo: gli idoli non lavorano.
Il lavoro è travaglio: sono doglie per poter generare poi gioia per quello che si è generato insieme. Senza ritrovare una cultura che stima la fatica e il sudore, non ritroveremo un nuovo rapporto col lavoro e continueremo a sognare il consumo di puro piacere. Il lavoro è il centro di ogni patto sociale: non è un mezzo per poter consumare, no. E’ il centro di ogni patto sociale.
Tra il lavoro e il consumo ci sono tante cose, tutte importanti e belle, che si chiamano dignità, rispetto, onore, libertà, diritti, diritti di tutti, delle donne, dei bambini, delle bambine, degli anziani… Se svendiamo il lavoro al consumo, con il lavoro presto svenderemo anche tutte queste sue parole sorelle: dignità, rispetto, onore, libertà. Non dobbiamo permetterlo, e  dobbiamo continuare a chiedere il lavoro, a generarlo, a stimarlo, ad amarlo.
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30 maggio 2017 - il manifesto
Competitività e meritocrazia,
l’altra economia secondo Bergoglio
di Andrea Ranieri

Eviterei di discutere dell’intervento all’Ilva di Papa Francesco come se il centro del suo intervento fosse stata la contrapposizione fra diritto al reddito e diritto al lavoro. Perché anche chi sostiene il diritto al reddito non lo ha mai pensato come una misura sostitutiva alla necessità di creare lavoro. E perché il lavoro a cui pensa chi il diritto al reddito lo contrasta è radicalmente diverso da quello a cui pensa il Pontefice. Dignitoso, stabile, con la possibilità di tanto tempo libero, a partire dalla domenica, con un salario che permetta una vita libera dall’incubo della miseria. Il contrario del precariato e dei voucher, che chi ci governa vorrebbe reintrodurre per legge, dopo averli abrogati per sottrarsi al giudizio del referendum.

Il sostegno al reddito per i disoccupati è la condizione per sottrarsi al ricatto che costringe ad accettare lavori senza diritti e con un salario al di sotto del livello minimo di sussistenza. Quei lavori cioè che Francesco ha bollato come indegni di uno Stato civile. La portata rivoluzionaria dell’intervento all’Ilva sta nel modo un cui ha parlato della figura dell’imprenditore, di competitività e di meritocrazia, mettendo sotto accusa un po’ di parole e di pratiche che sono ormai entrate nel senso comune diffuso, anche a sinistra.

L’imprenditore che risolve i problemi della sua azienda licenziando non è un imprenditore ma un “commerciante”, e dei peggiori, perché tratta come una merce le persone che lavorano. E la competitività nella gestione dell’impresa è un disvalore perché mina la fiducia e la collaborazione fra i lavoratori. Sembra quasi che papa Francesco abbia letto Richard Sennet che nel suo recente libro, Insieme, ci mostra con dovizia di storie e di esempi come lo stimolare la competitività dentro le imprese, la lotta di tutti contro tutti per emergere ed affermarsi, renda le imprese impotenti a reagire alle crisi e insieme incapaci di innovazione produttiva ed organizzativa. La sostituzione della competizione alla cooperazione nella teoria e nella pratica organizzative è una delle cause non ultime della crisi che stiamo attraversando.

Lo stesso per la meritocrazia. Anche qui Francesco sembra conoscere le ragioni che animarono chi ha introdotto il termine. Un vecchio sociologo old labour, ferocemente antiblairiano, Michel Young, che scrisse un libro di fantasociologia, L’origine della meritocrazia, per mostrarci a quali orrori può arrivare una società in cui redditi e potere vengano distribuiti sulla base dei quozienti di intelligenza. La meritocrazia, ci ha detto il Papa, serve a colpevolizzare i perdenti, a voltare le spalle ai poveri e a chi resta indietro, nella scuola, nella società, nei luoghi di lavoro.

Ci pare quella che ha fatto domenica Francesco sia una operazione non banale. Perché ha messo in discussione concetti che hanno attraversato e impregnato anche il campo della sinistra storica. La competività come regolatrice dei comportamenti delle imprese nel mercato e nell’organizzazione del lavoro, e la meritocrazia come modo per regolare le posizioni di potere e di reddito dentro l’economia e la società. E Francesco pare non curarsi proprio della compatibilità economica delle sue affermazioni. Perché l’economia che ci impone le sua compatibilità come fossero una necessità naturale è una economia “astratta”, che volta le spalle di fronte ai “volti” di chi lavora e di chi è disoccupato, alla povertà e all’ambiente. Ed è quella che spinge al consumismo e al debito delle persone e degli Stati come norma del suo funzionamento.

C’è bisogno di un’altra economia sembra dirci Francesco. Che inizi dal valore d’uso delle cose, e dalla dignità delle donne e degli uomini che lavorano come variabile indipendente. Un bel compito, se ne abbiamo la voglia e le forze, per la sinistra che lavora a ricostruirsi.
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Giovedì 01 Giugno,2017 Ore: 23:23
 
 
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La chiesa di Papa Francesco

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