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www.ildialogo.org EUROPA 2013: LA LEZIONE TEOLOGICO-POLITICA DI GIOVANNI BOCCACCIO, A 700 DALLA NASCITA.,di Federico La Sala

PER LA RINASCITA DELL'EUROPA: LA GRECIA, LA MEDIAZIONE DELLA CALABRIA, E IL RINASCIMENTO FIORENTINO. In memoria di Leonzio Pilato....
EUROPA 2013: LA LEZIONE TEOLOGICO-POLITICA DI GIOVANNI BOCCACCIO, A 700 DALLA NASCITA.

Quanto sia decisivo il contributo di Boccaccio per tutto l’umanesimo e il rinascimento fiorentino e (con esso) per tutta la cultura europea, è ancora (al di là delle cerchie degli specialismi) per lo più sconosciuto. E anche da rivedere e ristudiare, più attentamente!


di Federico La Sala


BOCCACCIO, POETA TEOLOGO E FILOSOFO CRITICO.

Breve nota introduttiva ad alcune pagine, riprese dalla "Genealogia deorum gentilium" e dalla "Vita di Dante"

Di Giovanni Boccaccio (1313 -1375), a 699 anni dalla nascita, l’indignazione contro gli oltraggiatori dell’amore della verità (del "Sapere aude!" del suo tempo), che lo accusavano di riaprire e riallacciare i rapporti con la cultura e la lingua dell’antica Grecia, è tutta integra e fortissima - e quanto mai attuale!

Quanto sia decisivo il contributo di Boccaccio per tutto l’umanesimo e il rinascimento fiorentino e (con esso) per tutta la cultura europea, è ancora (al di là delle cerchie degli specialismi) per lo più sconosciuto. E anche da rivedere e ristudiare, più attentamente!

Proprio nei nostri giorni, un papa teologo - in verità, un papa teologo di Mammona - ha rimesso in circolo e in evidenza quanto la furia di Boccaccio fosse giustificata non solo contro gli intellettuali atei e devoti del suo tempo! Anzi, mai come oggi, contro chi (come il ratzingeriano Benedetto XVI) ha mostrato e mostra di riprendere - negando tutta la volontà ecumenica dantesca di Papa Roncalli (Giovanni XXIII, "Pacem in terris") e tutto il lavoro del Concilio Vaticano II - e insistere a portare avanti ossessivamente e perversamente il folle e fondamentalistico programma di Giovanni XXII e del suo cardinale Del Poggetto di distruggere (con il messaggio evangelico anche) la "Monarchia" e le stesse ossa di Dante (1329), brilla in tutta la sua magnificenza la consapevole scelta di Boccaccio di schierarsi a fianco di Dante e di porsi dentro la sua via filosofica e teologico-politica.

Gerusalemme, Atene, e Firenze. Nel "Decamerone", Boccaccio aveva già posto il suo cammino sotto la guida di "Filomena", sotto il segno della Legge, della Giustizia e della Pace - di Melchisedech e di  Solone (Trattatello in laude di Dante).

Certamente, oggi, senza l’eredità degli sviluppi della sua sollecitazione a riprendere e a riallacciare i legami con la cultura e la lingua greca, non apparirebbe (come appare!) del tutto ridicola la proposta del papa teologo di restaurare e modificare (sulle basi di una monca e interessata cognizione filologica) l’evangelica espressione «Questo è il mio sangue... versato per voi e per tutti in remissione dei peccati», con un "per voi e per molti" e spingere l’umanità nella palude dell’ignoranza di , del mondo, e di Dio!

Boccaccio già sapeva che Zeus (ne parla come del dio "che aiuta") era ed è un dio piu’ cristiano del dio cattolico-romano del ratzingeriano Benedetto XVI  ... e sicuramente avrebbe apprezzato e condiviso non solo il "rap" del contadino che da avvocato si conquistò il paradiso, ma anche il "fabliau" di Gianni Rodari.

Federico La Sala (24.05.2012)


TESTI:

A) Da: "De Genealogiis deorum gentilium" (Libro XV, cap. VII)

Che molti versi si sono posti in molti luoghi dell’opera non senza cagione.

Non dubito che o questi o altri diranno per qual ragione d’auttorità habbia posto nella mia opra molti versi greci. Il che veramente veggio che non procederà da fonte di carità, anzi da origine di malignità et nequitia. Ma non però, con l’aiuto d’Iddio, mi moverò a sdegno, anzi secondo usanza con humil passo andrò per la risposta.

Dico adunque a questi tali, se no’l sanno, che egli è pazzia cercar dai ruscelli quello che si può havere dai fonti.

Io havea i libri d’Homero, et ancho gli ho, da’ quali si sono tolte molte cose accommodate all’opra nostra, et da questi si può comprendere molte cose dagli antichi essere state raccolte. Da’ quali sì come da ruscelli non è dubbio che havrei potuto pigliarle, et spessissime fiate ne ho tolto; ma alle volte mi ha paruto meglio servirmi del fonte che del ruscello, né una sola volta mi è avenuto che nel ruscello non ho trovato quello di che era abondantissimo il fonte. Onde in tal modo hora la dilettatione et hora la necessità mi hanno nel fonte cacciato.

Oltre ciò, tal’hora gli scrittori si dilettano mischiare delle cose negli scritti che in qualche modo habbiano a fermare il lettore et guidarlo in dilettatione overo riposo, accioché con la troppa continuatione eguale della lettione venendoli noia non cessi dalla lettione et la tralasci. Il che forse talhora hanno potuto fare i versi in quella compartiti. Indi, quello che in propria forma è posto ha possa di rendere più stabili le forze del testimonio, se forse l’oppositore vi repugna.

Là onde adunque quelli che non daranno a me credenza sopra i versi notati di Homero, pigliando la Iliade overo l’Odissea potranno da sé stessi farne paragone, et così si chiariranno s’io havrò scritto cose vere o false. Et se saranno poi vere, mi concederanno miglior fede. Né, oltre questo, io son solo che habbia traposto le cose greche con le latine; l’usanza antica fu tale.

Veggano se gli piace i volumi di Cicerone, leggano gli scritti di Macrobio, riguardino i libri d’Apuleio, et per più non produrne, rivolgano le operette di Massimo Ausonio; che spessissime fiate ritroveranno questi havere fraposto i versi grechi nelle latine scritture.

In questo ho io seguito i loro vestigi. Ma m’imagino che subito diranno, se già questo fu lodevole, hoggi è fatica frivola; attento che non v’essendo nessuno che habbia cognitione delle lettere greche, l’antica usanza si è dimessa.

Ma io in ciò ho compassione della latinità. La quale se in tutto ha tralasciato gli studi greci, di maniera che non conosciamo i caratteri delle lettere, egli va male per lei; percioché, se bene tutto l’Occidente si rivolge ad apprendere la latina lingua, et che paia ch’ella da sé stessa negli studi sia sofficiente, nondimeno se fosse accompagnata con la greca molto più della sola greca sarebbe illustre, attento che non ancho gli antichi Latini hanno cavato tutto il buono dalla Grecia ma molte cose vi restano, et spetialmente da noi non conosciute, le quali sapendole potressimo diventare più dotti. Ma di questo, un’altra fiata.

Questi poi non hanno riguardo a cui dirizzi questa fatica, perché vederebbono ch’io la ho fatta a petitione di un re a cui non meno sono famigliari le lettere greche che le latine, et appresso il quale continuamente dimorano molti huomini greci et dotti, a’ quai non parranno superflui questi versi greci sì come paiono a- i Latini ignoranti.

Ma che tante cose? Acconsentiamo un poco a questi oltraggiatori. Per causa di dimostratione ho scritto et notato dei versi greci. Che sarà poi? Gli prego dirmi, debbo io per ciò essere morso? A cui faccio ingiuria io, se uso delle ragioni mie?

Se no’l sanno, questo è honore mio et gloria mia, cioè tra Thoscani usare versi greci. Non sono stato io quello che nella patria mia da Vinegia condussi Leontio Pilato, il quale venendo da lunghi viaggi voleva andare all’Occidentale Babilonia? No’l raccolsi nella mia propria casa, et lungamente ve’l tenni? Non procurai con grandissima fatica che fosse accettato tra i dottori dello studio Fiorentino, et fosse condotto a leggere con publico stipendio?

Fui veramente io, io sono stato il primo ch’a mie spese ho fatto ricondurre i libri d’Homero et alcuni altri greci in Thoscani, dalla cui si erano partiti molti secoli innanzi senza mai più ritornarvi; né solamente gli ho condotti in Thoscana, ma nella patria.

Io sono stato il primo tra Latini che da Leontio Pilato privatamente ho udito la Iliade. Io appresso sono stato quello che ho operato che i libri d’Homero fossero letti in publico; et se bene a pieno non ho compreso la lingua greca, almeno ho oprato et mi sono affaticato quanto ho potuto. Et non v’è dubbio che, se lungamente fosse dimorato appresso noi quel huomo vagabondo, che meglio l’havrei compresa.

Ma come che molti auttori greci habbia veduto, nondimeno per dimostratione del mio precettore ne ho compreso alcuni de’ quali secondo il bisogno nella presente opra mi sono servito.

Che male è questo l’havere scritto le favole de’ Greci, de’ quali questo libro n’è pienissimo; dal nome, per causa di dimostratione, si dice esser fatto, ma l’ha- vervi trapposto alcuni versi cavati dalle lettere greche si biasima. Puotè Mario d’Arpino, vinti gli Africani, i Cimbri et i Thedeschi, a guisa del padre Bacco usare del suo licore un beveraggio. Così ancho C. Duellio, che fu il primo che in battaglia di mare vinse i Cartaginesi, dalla cena ritornando a casa puotè sempre usare i lumi di cera, come che queste cose fossero contra il costume dei Romani. Et eglino il sopportarono patientemente; ma meco si corucciano alcuni, se oltre il solito dell’età nostra mescolo qualche verso greco con le scritture latine, et della fatica mia mi piglio un poco di gloria.

Veramente io istimava apportar qualche splendore alla latinità, là dove veggio contra di me haver mosso una nebbia di sdegno. Certamente mi doglio; ma che penso che faranno i dotti, conciosia che questi tali sono ancho per dir l’istesso degli altri. Nondimeno, se bene egli è da curarsene, tuttavia si può sopportare con patientia.

Finalmente prego tutti che sopportino ciò con animo quieto, ricordandosi (Testimonio Valerio) che non è sì humil vita che non sia toccata dalla dolcezza della gloria.

* Boccaccio, Giovanni Geneologia degli Dei. I quindeci libri di M. Giovanni Boccaccio ... tradotti et adornati per Messer Giuseppe Betussi da Bassano


B) da:   "VITA DI DANTE" *

1 - Proposizione

Solone, il cui petto uno umano tempio di divina sapienzia fu reputato, e le cui sacratissime leggi sono ancora alli presenti uomini chiara testimonianza dell’antica giustizia, era, secondo che dicono alcuni, spesse volte usato di dire ogni republica, sì come noi, andare e stare sopra due piedi; de’ quali, con matura gravità, affermava essere il destro il non lasciare alcuno difetto commesso impunito, e il sinistro ogni ben fatto remunerare; aggiugnendo che, qualunque delle due cose già dette per vizio o per nigligenzia si sottraeva, o meno che bene si servava, senza niuno dubbio quella republica, che ’l faceva, convenire andare sciancata: e se per isciagura si peccasse in amendue, quasi certissimo avea, quella non potere stare in alcun modo.

Mossi adunque più così egregii come antichi popoli da questa laudevole sentenzia e apertissimamente vera, alcuna volta di deità, altra di marmorea statua, e sovente di celebre sepultura, e tal fiata di triunfale arco, e quando di laurea corona secondo i meriti precedenti onoravano i valorosi; le pene, per opposito, a’ colpevoli date non curo di raccontare. Per li quali onori e purgazioni la assiria, la macedonica, la greca e ultimamente la romana republica aumentate, con l’opere le fini della terra, e con la fama toccaron le stelle. Le vestigie de’ quali in così alti esempli, non solamente da’ successori presenti, e massimamente da’ miei Fiorentini, sono male seguite, ma intanto s’è disviato da esse, che ogni premio di virtù possiede l’ambizione; per che, sì come e io e ciascun altro che a ciò con occhio ragionevole vuole guardare, non senza grandissima afflizione d’animo possiamo vedere li malvagi e perversi uomini a’ luoghi eccelsi e a’ sommi oficii e guiderdoni elevare, e li buoni scacciare, deprimere e abbassare. Alle quali cose qual fine serbi il giudicio di Dio, coloro il veggiano che il timone governano di questa nave: perciò che noi, più bassa turba, siamo trasportati dal fiotto, della Fortuna, ma non della colpa partecipi.

E, come che con infinite ingratitudini e dissolute perdonanze apparenti si potessero le predette cose verificare, per meno scoprire li nostri difetti e per pervenire al mio principale intento, una sola mi fia assai avere raccontata (né questa fia poco o picciola), ricordando l’esilio del chiarissimo uomo Dante Alighieri. Il quale, antico cittadino né d’oscuri parenti nato, quanto per vertù e per scienzia e per buone operazioni meritasse, assai il mostrano e mostreranno le cose che da lui fatte appaiono: le quali, se in una republica giusta fossero state operate, niuno dubbio ci è che esse non gli avessero altissimi meriti apparecchiati.

Oh scellerato pensiero, oh disonesta opera, oh miserabile esemplo e di futura ruina manifesto argomento! In luogo di quegli, ingiusta e furiosa dannazione, perpetuo sbandimento, alienazione de’ paterni beni, e, se fare si fosse potuto, maculazione della gloriosissima fama, con false colpe gli fur donate. Delle quali cose le recenti orme della sua fuga e l’ossa nelle altrui terre sepulte e la sparta prole per l’altrui case, alquanto ancora ne fanno chiare. Se a tutte l’altre iniquità fiorentine fosse possibile il nascondersi agli occhl di Dio, che veggono tutto, non dovrebbe questa una bastare a provocare sopra sé la sua ira? Certo sì. Chi in contrario sia esaltato, giudico che sia onesto il tacere.

Sì che, bene ragguardando, non solamente è il presente mondo del sentiero uscito del primo, del quale di sopra toccai, ma ha del tutto nel contrario vòlti i piedi. Per che assai manifesto appare che, se noi e gli altri che in simile modo vivono, contro la sopra toccata sentenzia di Solone, sanza cadere stiamo in piede, niuna altra cosa essere di ciò cagione, se non che o per lunga usanza la natura delle cose è mutata, come sovente veggiamo avvenire, o è speziale miracolo, nel quale, per li meriti d’alcuno nostro passato, Dio contra ogni umano avvedimento ne sostiene, o è la sua pazienzia, la quale forse il nostro riconoscimento attende; il quale se a lungo andare non seguirà, niuno dubiti che la sua ira, la quale con lento passo procede alla vendetta, non ci serbi tanto più grave tormento, che appieno supplisca la sua tardità.

Ma, perciò che, come che impunite ci paiono le mal fatte cose, quelle non solamente dobbiamo fuggire, ma ancora, bene operando, d’ammendarle ingegnarci; conoscendo io me essere di quella medesima città, avvegna che picciola parte, della quale, considerati li meriti, la nobiltà e la vertù, Dante Alighieri fu grandissima, e per questo, sì come ciascun altro cittadino, a’ suoi onori sia in solido obbligato come che io a tanta cosa non sia sofficiente, nondimeno secondo la mia picciola facultà, quello che essa dovea verso lui magnificamente fare, non avendolo fatto, m’ingegnerò di far io; non con istatua o con egregia sepoltura, delle quali è oggi appo noi spenta l’usanza, né basterebbono a ciò le mie forze, ma con lettere povere a tanta impresa. Di queste ho, e di queste darò, acciò che igualmente, e in tutto e in parte, non si possa dire fra le nazioni strane, verso cotanto poeta la sua patria essere stata ingrata. [...]

[...] Similemente questo egregio autore nella venuta d’Arrigo VII imperadore fece un libro in latina prosa, il cui titolo è Monarchia, il quale, secondo tre quistioni le quali in esso ditermina, in tre libri divise. Nel primo loicalmente disputando, pruova che a ben essere del mondo sia di necessità essere imperio: la quale è la prima quistione. Nel secondo, per argomenti istoriografi procedendo, mostra Roma di ragione ottenere il titolo dello imperio: ch’è la seconda quistione. Nel terzo, per argomenti teologi pruova l’autorità dello ’mperio immediatamente procedere da Dio, e non mediante alcuno suo vicario, come li chierici pare che vogliano; ch’è la terza quistione.

Questo libro più anni dopo la morte dell’auttore fu dannato da messer Beltrando cardinale del Poggetto e legato di papa nelle parti di Lombardia, sedente Giovanni papa XXII. E la cagione fu perciò che Lodovico, duca di Baviera, dagli elettori della Magna eletto in re de’ Romani, e venendo per la sua coronazione a Roma, contra il piacere del detto Giovanni papa essendo in Roma, fece, contra gli ordinamenti ecclesiastici, uno frate minore, chiamato frate Pietro della Corvara, papa, e molti cardinali e vescovi; e quivi a questo papa si fece coronare. E, nata poi in molti casi della sua auttorità quistione, egli e’ suoi seguaci, trovato questo libro, a difensione di quella e di sé molti degli argomenti in esso posti cominciarono a usare; per la qual cosa il libro, il quale infino allora appena era saputo, divenne molto famoso.

Ma poi, tornatosi il detto Lodovico nella Magna, e li suoi seguaci, e massimamente i cherici, venuti al dichino e dispersi, il detto cardinale, non essendo chi a ciò s’opponesse, avuto il soprascritto libro, quello in publico, sì come cose eretiche contenente, dannò al fuoco. E il simigliante si sforzava di fare dell’ossa dell’auttore a etterna infamia e confusione della sua memoria, se a ciò non si fosse opposto un valoroso e nobile cavaliere fiorentino, il cui nome fu Pino della Tosa, il quale allora a Bologna, dove ciò si trattava, si trovò, e con lui messer Ostagio da Polenta, potente ciascuno assai nel cospetto del cardinale di sopra detto. [...]

* DE ORIGINE VITA, STUDIIS ET MORIBUS VIRI CLARISSIMI DANTIS ALIGERII FLORENTINI, POETE ILLUSTRIS, ET DE OPERIBUS COMPOSITIS AB EODEM, INCIPIT FELICITER.



Giovedì 24 Maggio,2012 Ore: 14:54
 
 
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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 28/5/2012 14.54
Titolo:DA BONIFACIO VIII AD OGGI ........
Delitti e castighi sul soglio di Pietro

di Corrado Augias (la Repubblica, 28 maggio 2012)

Più volte nel corso dei secoli il vento ha scosso la casa di Dio con raffiche anche più intense di quelle attuali. Più volte il fumo di Satana si è infiltrato nelle stanze più sacre dei sacri palazzi, come ebbe a lamentare Paolo VI.

Un ambiente come quello vaticano sembra fatto apposta per scuotimenti e infiltrazioni data la sua scarsa trasparenza, l’ostinata paura di aprirsi al mondo, l’atmosfera che sempre si crea in una corte dove un sovrano assoluto regna su uomini senza famiglia e dipende dal suo favore l’intera loro vita. Il che spiega quasi da solo perché le storie vaticane abbiano dato vita ad un intero filone narrativo che vede nei romanzi di Dan Brown (celebre "Il Codice da Vinci") solo gli ultimi esempi di un ’amplissima casistica.

Uno degli esempi più antichi di violenza e tradimento consumati per la conquista del soglio di Pietro è quello di cui fu protagonista Benedetto Caetani che costrinse il suo predecessore Celestino V (Pietro da Morrone) ad abdicare per l’impazienza di salire al trono dove regnerà col nome, famigerato, di Bonifacio VIII (1235-1303). Il povero Celestino era un uomo umile e pio, certamente inadatto all’incarico. Ma la violenza con la quale il futuro Bonifacio lo scalzò rimane degna delle più sinistre tradizioni del potere. Dante infatti lo caccerà, ancora vivo, all’inferno.

Il periodo più fecondo dal punto di vista narrativo è quello rinascimentale quando la corte di Alessandro VI Borgia divenne sede di intrighi e di delitti commessi a volte alla stessa presenza del papa. Celebre l’episodio di quando Cesare, figlio del papa e fratello di Lucrezia, assalì nei corridoi vaticani un tal Pedro Caldes, detto Perotto, 22 anni, primo cameriere del pontefice proprio come il Paolo Gabriele di cui si parla in questi giorni. Perotto si tratteneva affettuosamente con Lucrezia cosa che rischiava di compromettere il matrimonio al quale la bellissima donna era stata destinata.

Un giorno che Perotto passava per un corridoio s’imbatté casualmente in Cesare. Intuì da uno sguardo ciò che stava per accadere e cominciò a correre gridando a perdifiato, inseguito dall’altro che aveva estratto il pugnale. La corsa ebbe termine nella sala delle udienze dove Perotto si gettò ai piedi del pontefice implorando protezione. Non bastò. Cesare si avventò su di lui trafiggendolo con tale impeto che "il sangue saltò in faccia al papa" macchiandogli di rosso la bianca tonaca.

Non solo delitti ma anche orge caratterizzavano in quegli anni la corte. Preti e cardinali mantenevano una o più concubine "a maggior gloria di Dio", come scrive sarcastico lo storico Infessura, mentre il maestro di cerimonie pontificio Jacob Burchkardt nota che i monasteri di donne erano ormai "quasi tutti lupanari" poco o nulla distinguendo le religiose dalle "meretrices".

Cronache vivacissime ha lasciato il protonotario apostolico Johannes Burchard. Racconta ad esempio che una sera, a una delle consuete feste date dal papa: «Presero parte cinquanta meretrici oneste, di quelle che si chiamano cortigiane e non sono della feccia del popolo. Dopo la cena esse danzarono con i servi e con altri che vi erano, da principio coi loro abiti indosso, poi nude». La serata si concluse come si può immaginare, il protonotario riferisce dettagli che richiamano altre e assai recenti serate di ugual tenore.

Del resto fu questo tipo di atmosfera, aggiunto alla vendita scandalosa delle indulgenze, a convincere il frate agostiniano Martin Lutero a proclamare quella Riforma (1517) che avrebbe drammaticamente spaccato la cristianità fino ai nostri giorni.

Per venire ad anni a noi vicini, una vasta eco ha sollevato una mossa assai ambigua dell’allora segretario di Stato Eugenio Pacelli. Nel 1939, papa Pio XI avrebbe voluto pronunciare un discorso nel decennale del Concordato dove tra l’altro avrebbe denunciato le violenze del regime fascista e la persecuzione razziale dei nazisti contro gli ebrei. Alla vigilia dell’importante allocuzione papa Ratti venne però a morte e Pacelli, che sarebbe stato suo successore, fece prontamente sparire il discorso avendo in mente un diverso tipo di rapporti con le due dittature. Divenuto papa a sua volta col nome di Pio XII, lo dimostrerà. Intrighi e tradimenti all’ombra del trono di Pietro sono tutti accomunati da elementi rimasti invariati nel tempo: ritrosia a dare informazioni e addirittura a collaborare ad eventuali indagini, ostinati silenzi a costo di alimentare le ipotesi peggiori.

Se n’è avuta una prova in occasione della morte, altrettanto repentina, di Giovanni Paolo I, papa Luciani. Ancora una volta l’evento si verificò alla vigilia di una decisione importante con la quale il papa avrebbe riorganizzato la famigerata banca vaticana, in sigla Ior. Così oscure le circostanze dell ’evento che i media anglo-sassoni avanzarono apertamente l’ipotesi di un assassinio. L’autopsia avrebbe probabilmente fugato le voci ma le gerarchie vaticane la rifiutarono preferendo mantenere un silenzio che le ha ulteriormente alimentate.

Il caso più grave di reticenza si è però avuto quando, la sera del 4 maggio 1998, tre cadaveri vennero trovati in una palazzina a pochi metri dagli appartamenti pontifici. Il colonnello Alois Estermann, 44 anni, comandante delle "guardie svizzere"; sua moglie, Gladys Meza Romero di origine venezuelana; il vice-caporale Cédric Tornay, nato a Monthey (Svizzera), 24 anni. Poche ore dopo il portavoce vaticano Joaquin Navarro Valls dette ai giornalisti questa versione: il caporale, in un accesso di collera incontrollata, aveva ucciso il colonnello e sua moglie per poi togliersi la vita. Invano l’avvocato francese Luc Brossolet ha fatto eseguire (in Svizzera) perizie che dimostrano l ’incongruenza grossolana di quella versione. Da allora non è più stata cambiata.
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 09/6/2012 12.35
Titolo:CRISI EPOCALE. Un modello che ha retto per secoli sta mostrando ora crepe ...
I corvi, il papa e la posta in gioco

di Aldo Maria Valli (Europa, 9 giugno 2012)

A questo punto occorre pur dirlo. La vicenda dei corvi è anche la forma espressiva, sotto molti aspetti sciagurata ma efficace, trovata dalle tensioni interne in Vaticano in vista del nuovo conclave. Senza voler mancare di rispetto al papa regnante, sul piano storico non si può ignorare che siamo entrati nella fase fibrillatoria che contraddistingue la fine dei pontificati, quando le forze in campo si muovono per guadagnare le posizioni migliori e raggiungere equilibri e accordi da far contare nel momento della scelta del nuovo papa.

La posta in gioco è il papato che sarà, e il terreno di scontro è la politica attuata da Ratzinger, specie per quanto riguarda la sua lettura del Concilio Vaticano II. In modo felpato, com’è nel suo stile, ma anche molto chiaro nei contenuti, Benedetto XVI ha di fatto riletto il Concilio in senso anti-innovativo. Basandosi sull’idea, incontestabile, che la Chiesa non ha né può avere una carta costituzionale, perché la sua sola “costituzione” è la sacra scrittura, Ratzinger ha però depotenziato l’eredità conciliare per quanto riguarda almeno quattro contenuti fondamentali del Concilio stesso: la collegialità, la liturgia, l’ecclesiologia, l’ecumenismo.

Circa la collegialità, la prassi dei sinodi fa capire di che tipo sia lo svuotamento attuato. Il sinodo, creatura conciliare, nasce per dare voce al confronto fra i vescovi e per far giungere le loro istanze al papa, ma oggi questa è una finzione, perché al posto di un confronto aperto c’è solo un accostamento di voci sotto il controllo del potere centrale della curia, senza un autentico dibattito e senza la possibilità, per ogni vescovo, di interloquire con il papa e di avere da lui qualche risposta concreta.

Quanto alla liturgia, le simpatie di Benedetto XVI per il rito antico sono note, e da queste derivano le sue scelte. Il concilio, su questo piano, non è mai stato apertamente criticato, ma con l’andare del pontificato sono state ripristinate forme liturgiche decisamente preconciliari e la preoccupazione di Ratzinger per il recupero dei lefebvriani, con tutte le energie spese in proposito, è di per sé eloquente.

Sul piano dell’ecclesiologia, abbiamo un rinnovato centralismo, con il papa e la curia romana in posizione di preminenza, i vescovi nel ruolo di meri esecutori, senza possibilità di vero confronto, e i laici totalmente subordinati, chiamati in causa in funzione di supplenza e solo se del tutto in linea con le indicazioni centrali. La nozione di Chiesa come “popolo di Dio” sembra lontana, persa nelle nebbie di un clericalismo di ritorno.

Infine l’ecumenismo. Anche in questo caso, nessuna sconfessione aperta del concilio, ma se poi si vanno a vedere i comportamenti concreti si nota la regressione. Significativa la giornata di Assisi di un anno fa, dove la preoccupazione di evitare il sincretismo ha svuotato l’incontro di contenuto ecumenico per farlo diventare un pellegrinaggio fatto in comune ma senza reali segni di fraternità, e dove si è preferito accentuare il ruolo dei non credenti, trasportando così il confronto dal piano della preghiera a quello del confronto culturale.

Stando così le cose, mentre la Chiesa (per ammissione dello stesso Benedetto XVI) sta vivendo una pagina “drammatica”, segnata anche dalla disubbidienza di alcuni preti europei che, non trovando altre forme per manifestare le proprie richieste e il proprio disagio, hanno deciso di dire no al magistero su questioni come il celibato, la consacrazione ministeriale delle donne e il divieto di comunione per i divorziati risposati, dentro le sacre mura si confrontano e si scontrano le fazioni: continuare su questa strada che è di sostanziale ridimensionamento dell’eredità conciliare oppure aprire una pagina diversa, all’insegna del confronto tra i punti fermi del concilio, che devono restare tali, e le nuove realtà? Il fatto che il confronto sia emerso secondo le modalità che abbiamo sotto gli occhi, attraverso fughe di documenti, è di per sé significativo.

Quella che vediamo non è soltanto la crisi di questo papato. E una crisi del papato in quanto forma istituzionale. La concentrazione di potere, senza eguali, nelle mani di uno solo, l’influenza inevitabile che il ruolo di capo di stato ha su quello di capo spirituale e la mancanza di veri luoghi di dibattito all’interno della curia stanno determinando una situazione che, specialmente nel confronto con la società della comunicazione, si è fatta insostenibile. Un modello che ha retto per secoli sta mostrando ora crepe sempre più evidenti.

Ma fino a quando la Chiesa, nella sua espressione gerarchica, potrà fingere di non accorgersene? Fino a quando la linea della segretezza potrà essere privilegiata rispetto a quella della trasparenza e la forma dell’assolutismo (che alimenta inevitabilmente manovre oscure e maldicenze) rispetto a un confronto aperto, magari anche duro ma istituzionalizzato? Fino a quando la paura dovrà prevalere sulla fiducia? Questa è la posta in gioco. Questi i veri problemi che i corvi e le conseguenti battaglie fra guardie e ladri hanno portato alla luce.

Queste le vere tensioni che stanno sotto e dietro i fatti di cronaca. Se nella Chiesa cattolica ci fosse un’opinione pubblica sarebbero motivo di dibattito. Ma nella Chiesa una vera opinione pubblica non c’è, perché chi cerca di alimentarla viene costantemente mortificato ed emarginato. Ed anche su questo aspetto, a cinquant’anni dal concilio, bisognerebbe riflettere.

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