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www.ildialogo.org PENSARE UN ALTRO ABRAMO: GUARIRE LA NOSTRA TERRA. Una lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla),di Federico La Sala

A JACQUES DERRIDA E A FRANZ KAFKA, IN MEMORIA. "Potrei, per me, pensare un altro Abramo" (J. Derrida, "Abramo, l’altro", 2003 Galilée - 2005 Cronopio).
PENSARE UN ALTRO ABRAMO: GUARIRE LA NOSTRA TERRA. Una lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla)

(...) Ciò che è successo in Sudafrica. Può succedere anche a Gerusalemme... Se l’ho persuasa, e ritiene che nelle cose dette ci sia un granellino di verità, agisca, agisca subito (...)


di Federico La Sala

 

 

I DUE CORPI DEL PAPA-RE E LA NOSTRA SOVRANITA’.

Lettera aperta al filosofo Karol Wojtyla (in occasione della visita di Giovanni Paolo II a Gerusalemme) *

Caro WOJTYLA

sono anch’io un filosofo e Le scrivo in quanto tale. Non ho scritto molto, né sono tanto famoso come Lei, ma, se permette e vuole, desidererei sottoporre alla sua attenzione alcune mie idee e riflessioni relative al comportamento della persona, di cui Lei è autorevole e strettissimo collaboratore e consigliere, il Papa Giovanni Paolo II.

Entriamo subito in argomento. Il Suo recente, spettacolare, MEA CULPA, lo trovo inconsistente e, per così dire, furbetto ("Di voi pastor s’accorse il Vangelista, / quando colei che siede sopra l’acque / puttaneggiar coi regi a lui fu vista; [...] Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, non la tua conversion, ma quella dote / che da te prese il primo ricco patre!": Dante, Inf., XIX, vv 105-7, 113-7).

Mi spiego, velocemente: ha notato i segni (io, di origini contadine, a queste cose sono stato abituato da mia madre, mio padre, e dai miei nonni e dalle mie nonne, a farci attenzione: sono piccole conoscenze tecniche di interpretazione che servono - come dice il Galileo della Toscana, non della Galilea, per vedere come va il cielo e per leggere il grande libro della Natura e del mondo, non per capire come si va in cielo) apparsi, nella carne, sulla fronte del Papa (L. Accattoli, Spunta un "graffio" sulla fronte. La Santa sede: "Nulla di grave", Corriere della Sera, 19.04.2000)? Sono due vere e proprie piccole corna, da capretto. E, come Lei sa, molti possono essere i significati del fatto: i fatti sono stupidi - diceva giustamente Nietzsche (ma anche Marx e Freud... ma lasciamo correre. Torniamo al problema).

L’ interpretazione, la più ovvia, è che la gatta, il diavolo, o, più semplicemente, lo stesso Papa - agitandosi nel sonno e nei sogni (per i tanti conflitti latenti sul fronte interno ed esterno del suo Stato), si sia graffiato con le proprie mani - ha messo lo zampino... e tracciati i graffi-ti. Comunque sia, io trovo la cosa molto interessante, e da rifletterci su.

Io penso che, da parte sua, sia meglio invitarLo a farlo. Glielo dica: Papa, si guardi allo specchio, rifletta su se stesso. E lo faccia, sia persuasivo, con il suo cuore e con la sua intelligenza. Glielo dica: Ora, Basta! Non può andare nella Terra Santa con quella faccia, non può più giocare a fare il furbo... deve togliersi di dosso le insegne imperiali di quello Stato Romano del passato, che, con la fede delle armi e con le armi della fede, dovunque arrivava faceva il deserto e lo chiamava pace!

Glielo dica - Gli illumini la mente: il Dio dei nostri padri, come dicono gli ebrei, e come diceva Pascal come Kierkegaard, faceva tutto il contrario, trasformava il deserto in giardini, nel deserto portava l’acqua, non induceva [ripetiamo. 23.03. 2000 d. C) e non induce in tentazione nessuno il Padre nostro, non chiedeva né chiede sacrifici di esseri umani (come il dio di quelli e di quelle che tenevano per Baal e che ne dicevano di menzogne!) ma di caproni e capretti...

Glielo dica: Ora, Basta! Lo fermi... prima che si identifichi con l’agnello da sacrificare al suo dio, o che il suo dio vuole sacrificare, e trovi coloro che fanno il ‘gioco’ dello specchio e lo sacrifichino. O, per caso e per assurdo, questi già esistono e sono tutti i suoi Generali che hanno iniziato la lotta di tutti contro tutti (sono solo uomini... Giuseppe e i suoi fratelli!) per prendere il Suo posto e vestire le insegne della Sua carica?

Nessun essere umano è un agnello [Lezione del Dio della Vita ad ABRAMO e ISACCO: Non confondete Baal (l’amore d uno solo, cieco, egoistico, narcisistico, ed edipico) con Me. Io sono UNO, l’Unità dell’uno e dell’altro (di tutte e due). L’Amore non induce in tentazioni! 23.03.2000 d.C] - solo nel sogno, nella follia, o nel gioco vero e terribile della guerra-specchio, questo avviene. Lo svegli: questo è il ‘gioco’ del dio delle menzogne e degli imbrogli - altro che il Dio dei nostri padri e delle nostre madri, degli uomini e delle donne di tutto il mondo.

Caro Illustre collega, riconsideriamo la questione fondamentale - è più attuale che mai. E vediamo, da uomo (io sono colui che sono...) a uomo (io sono colui che sono...) e, più correttamente, da esseri umani (=gli animali che hanno la capacità e la facoltà di ascoltare, pensare, e parlare a un altro animale, e dire io sono colui che sono capace di trattare l’essere umano che ho in me, fuori di me, come un animale ... che non ha questa capacità e facoltà, e lo fa), di sciogliere l’enigma, e finire la partita tra filosofi atei, materialisti, scettici, spiritualisti... e poi vedrà e valuterà se darsi da fare, subito, e di corsa, per salvare il suo Papa dalle grinfie del diavolo - cioè, di quei problemi che si mettono di traverso e rischiano di bloccarlo o farlo cadere rovinosamente. E noi, noi tutti e noi tutte, con lui.

Riepiloghiamo, e chiariamo, per sommi capi: 
-  1) La tradizione ebraica ci dice che " il Signore [SOVRANO, RE, PAPA, SAPIENTE...] è il nostro Dio, il Signore è UNO solo", e che il posto e il ruolo, di questo Uno che regge e governa il Tutto, sul piccolo tutto della nostra Terra, può essere occupato e interpretato solo da un Uomo, Israele, appunto, Giuseppe....e così anche nel campo della tradizione cattolico-romana, fino a Giovanni Paolo II, il Suo Papa; 
-  2) La tradizione greca ci dice che il principio di tutte le cose, è Uno solo, la Natura, che l’Uno è il Dio, l’Essere, che non ha ... né esseri né il Non essere (Parmenide); e che, infine, l’UNO, al di sopra degli esseri e del non -essere e dello stesso Essere, è il Bene, la Misura-Valore di tutte le ricchezze, materiali e spirituali (Platone). Pitagora, come Parmenide, e come Platone (e anche Aristotele) interpreta la cosa come Parmenide: solo l’Uomo che sa giungere a conoscere l’Idea del Bene-Valore può diventare sapiente e re , come e un DIO, sposare la DEA Giustizia (e possedere l’Idea del Bene-Valore).

Le ho reso l’idea di chi ha nella tradizione greca chi ha il diritto di avere in mano la Bilancia e la Misura delle cose e della società? Mi spiego meglio: un figlio (uomo) di Madre Natura, con la conoscenza - furba e astuta, come quella di Zeus (Meti) e di Ulisse (Atena) - di chi non sa del proprio (e di tutti e tutte) padre, nega di non saperlo, lo uccide, e prende il suo posto, quello del RE, il Padre di tutti gli uomini (e quindi anche di lui stesso) e di tutte le donne (e quindi anche della donna che è sua madre) della Città - e si fa sposo della stessa REGINA, la Madre-Città, di tutti (quindi anche di lui stesso!) e tutte (quindi anche della donna che è sua madre), e della stessa Madre Natura.

Chiariamo. Egli, l’uomo-figlio, cieco, ignorante e avido di potere, prende il posto del Padre-RE (di tutti e tutte) e sposa (si allea con) la donna-madre, che ha preso il posto della Madre-REGINA (di tutti e tutte). Ella, cieca e ignorante, avida di potere e corresponsabile (con l’uomo-sposo, della negazione del loro figlio, e della negazione della loro stessa sovrana e reciproca RELAZIONE di Amore e di Amicizia e della vita di loro stessi), come e più del figlio, sposa (si allea con) l’uomo-figlio e, alla fine, resasi conto di cosa ha fatto, si impicca ...

Come l’uomo, così la donna, sono caduti nella stessa trappola - dello specchio, della morte e della cecità... Siamo, alla preistoria - di ciò che è tuttora la nostra storia, all’omicidio del padre Laio, all’incesto, alla follia e alla cecità di Edipo e al suicidio della madre Giocasta, alla peste, alla morte della Città - e della stessa Natura...

Il mio grande amico ebreo, Sigmund Freud, ne ha parlato molto e ha messo a disposizione di tutti e di tutte la chiave per risolvere l’enigma della Sfinge di Tebe di Grecia, come della Tebe di Egitto, del Faraone e di Mosè.

Mi auguro che Lei e il Suo Papa lo conosciate, e che non l’abbiate solo condannato!, e che lo ‘incontriate’ - certamente sarà pure lui a Gerusalemme. E mi auguro che l’incontro a Gerusalemme con il popolo di Israele, di Giuseppe e tutti gli altri fratelli, e con lo stesso Sigmund Freud, sia l’occasione per chiarirsi le idee e ristabilire rapporti di giustizia, verità, di amore e amicizia..

Ricordi tutte queste cose al Papa, quando insieme a tutto il popolo di Israele ("I figli di Giacobbe furono dodici. I figli di Lia: il primogenito di Giacobbe, Ruben, poi Simeone, Levi, Giuda, Issacar e Zàbulon. I figli di Rachele: Giuseppe e Beniamino. I figli di Bila, schiava di Rachele: Dan e Nèftali. I figli di Zilpa, schiava di Lia: Gad e Aser": Genesi, 21-26), riaffermerà e ripeterà dentro di sé le parole-chiavi "Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è Uno solo".

Forse Ognuno dell’uno e l’altro campo, armato della propria fede, non potrà non riconoscere l’errore e capire la cecità in cui, insieme ai greci e ai romani, era - ed eravamo tutti e tutte - caduto, e, tutti e tutte apriranno gli occhi, si riconosceranno, e si abbracceranno come figli e figlie dello stesso UNO, il DIO dei nostri padri e delle nostre madri - la RELAZIONE di AMORE e di AMICIZIA, che fa di ogni io di fronte a un altro io, di tutti e tutte, re e regine, figli e figlie dello stesso Dio (così dentro di sé, così nella famiglia, nella società civile, e nello Stato).

Il Padre nostro di Gesù, il figlio del popolo ebraico e della Madre Terra, era ed è lo stesso Padre nostro di Giuseppe e Maria! Dinanzi a Gesù, nel suo tempo, siamo stati tutti ciechi e tutte cieche: era troppo luminoso per i nostri occhi, e tutti e tutte - come ha detto il nobilissimo e straordinario figlio del popolo ebraico, Franz Kafka - abbiamo abbassato e dovuto abbassare gli occhi ... e poi ci siamo dimenticati di riaprirli e alzarli. Oggi, forse, possiamo capire... e prima che sia troppo tardi.

Ciò che è successo in Sudafrica. Può succedere anche a Gerusalemme... Se l’ho persuasa, e ritiene che nelle cose dette ci sia un granellino di verità, agisca, agisca subito. Anche il Suo Papa, forse, lo sa, e sotto il Sinai ha detto: "Dobbiamo fare presto". Cosa voleva dire? Questo? Allora, glielo ricordi. Consigli il suo Amico. Lo esorti a portare a compimento la sua grande Riforma della Chiesa Cattolica, che faccia un grande dono a stesso, a suo padre e a sua madre, e a tutti gli uomini e a tutte le donne, e al Dio dei nostri padri e delle nostre madri. Lo solleciti a togliersi dal posto che occupa, e a dichiarare che mai più nessun uomo e nessuna donna più lo faccia.

Egli lo sa già, e benissimo. Glielo ricordi! Solo Dio è il Signore - Egli è il Padre nostro - di tutti i nostri padri e di tutte le nostre madri, degli uomini e delle donne, senza nessuna eccezione ed esclusione, di tutto il Pianeta Azzurro - della Terra, la Madre nostra.

Come ha deciso di fare, e sta facendo, già dal 1995, Nelson Mandela, con Frederik De Klerk, Desmond Tutu, anche ebrei e cattolici, tutti i popoli, e tutti gli uomini e tutte le donne, possono ritrovare la fiducia in se stessi e se stesse e la speranza e, finalmente, fare la pace, fare la verità, e "GUARIRE LA NOSTRA TERRA"...

Intorno a noi, la Terra, c’è il "cielo puro" e il "libero mare" - come scriveva Nietzsche, non ci sono gli extra-terrestri, che ci verranno a salvare o a distruggere. Gli extra-terrestri siamo noi! Cosa vogliamo fare? Forse ci conviene deporre le armi e cominciare a dialogare in spirito di verità. Cominciamo.

La discussione è appena agli inizi, continuiamo .... La ringrazio della umana e filosofica attenzione e La saluto. Molto cordialmente.
-  Milano, 21.03.2000 d.C. Federico La Sala

*Cfr. Federico La Sala, L’enigma della sfinge e il segreto della piramide. Considerazioni attuali sulla fine della preistoria in forma di lettera aperta (a Primo Moroni, Karol Wojtyla e, p. c., a Nelson Mandela), Edizioni Ripostes, Roma-Salerno 2001, pp. 41-48.


Sul tema, in rete, si cfr.:

 

 

-  NEL NOME DI DIO E DELLO STATO. L’ASSASSINIO DI KANT, I CATTIVI MAESTRI E LA CATASTROFE DELL’EUROPA ... 
-  CHI E’ DIO? CHI E’ STATO? E CHI SIAMO NOI?! UN’ALTRA CONCEZIONE DI DIO E’ POSSIBILE? Una nota di Antonio Gnoli sulle riflessioni di Carlo Galli e Piero Stefani, con appunti per una nuova lettura di Kant

-  "IO E DIO". VITO MANCUSO, DA CATTOLICO, CREDE ANCORA CHE IL DIO (CHE SALVA) DELL’ ALLEANZA CHIESE AD ABRAMO DI SACRIFICARE ISACCO (...E A GIUSEPPE DI SACRIFICARE GESU’!) E CERCA DI PRENDERNE LE DISTANZE.



Venerdì 30 Settembre,2011 Ore: 11:13
 
 
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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 30/9/2011 16.16
Titolo:WANGARI MAATHAI: GUARIRE LA TERRA, GUARIRE NOI STESSI
GUARIRE LA TERRA, GUARIRE NOI STESSI

di WANGARI MAATHAI *

Durante i trent’anni e piu’ che ho passato come ambientalista e attivista per i diritti democratici, la gente mi ha spesso chiesto se la spiritualita’, differenti tradizioni religiose e la Bibbia in particolare mi avessero ispirato, ed avessero influenzato il mio impegno o il lavoro con il Green Belt Movement (Gbm). Consideravo la conservazione dell’ambiente ed il dare potere alla gente comune come un tipo di vocazione religiosa? C’erano lezioni spirituali da apprendere ed applicare agli sforzi ambientalisti o alla vita in generale?

Quando iniziai questo lavoro nel 1977 non ero motivata dalla mia fede o dalla religione in generale. Stavo invece letteralmente e praticamente pensando a come risolvere problemi concreti. Volevo aiutare le popolazioni rurali, in special modo le donne, a soddisfare le necessita’ di base che mi descrivevano durante i miei seminari e laboratori. Mi dicevano che avevano bisogno di acqua pulita, potabile; di cibo nutriente in quantita’ adeguata; di reddito; di energia per cucinare e riscaldare.

Percio’ quando mi facevano le domande sulla spiritualita’, all’inizio, io rispondevo che non pensavo allo scavare buche ed al mobilitare le comunita’ affinche’ difendessero o curassero gli alberi, le foreste, le fonti d’acqua e il suolo, l’habitat delle specie selvatiche, come a un lavoro spirituale. Inoltre, non ho mai differenziato le attivita’ "spirituali" e quelle "laiche". Dopo qualche anno, sono arrivata a riconoscere che i nostri sforzi non erano limitati al piantare alberi, ma che stavamo anche piantando semi di un tipo diverso, quelli necessari per dare alle comunita’ la fiducia in se stesse e la conoscenza necessarie a riscoprire la loro vera voce ed a rivendicare i loro diritti (umani, ambientali, civili e politici). Il nostro scopo divenne espandere quello che chiamiamo "spazio democratico", uno spazio in cui cittadini comuni possono prendere decisioni per se stessi a beneficio proprio, della propria comunita’, del proprio paese e dell’ambiente che li sostiene.

In tale contesto, cominciai ad apprezzare il fatto che ci fosse qualcosa che ispirava e sosteneva il Green Belt Movement e coloro che partecipavano alle sue attivita’. Molte persone provenienti da gruppi e regioni differenti ci contattarono perche’ volevano condividere il nostro approccio con altri. Capii che il lavoro del Green Belt Movement era guidato da alcuni valori intangibili. Essi erano: amore per l’ambiente, gratitudine e rispetto per le risorse della Terra, capacita’ di darsi potere e di migliorare se stessi, spirito di servizio e volontariato. Insieme, questi valori incapsulavano l’aspetto intangibile, sottile, non materialistico del Green Belt Movement come organizzazione. Ci permettevano di continuare a lavorare anche quando i tempi si facevano difficili.

Naturalmente, so bene che tali valori non sono appannaggio del Green Belt Movement. Essi sono universali. Non possono essere toccati o visti. Non possiamo dar loro un valore monetario: in effetti, sono impagabili. Questi valori non sono contenuti in specifiche tradizioni religiose, ne’ uno deve far professione di fede per essere guidato da essi. Sembrano piuttosto essere parte della nostra natura umana, ed io sono convinta che siamo persone migliori perche’ li abbiamo, e che l’umanita’ e’ migliore avendoli piuttosto che non avendoli. Dove questi valori sono ignorati, li rimpiazzano dei vizi come l’egoismo, la corruzione, l’avidita’ e lo sfruttamento.

Nel processo in cui aiutiamo la Terra a guarire, aiutiamo noi stessi.

Per quel che posso dire attraverso le mie esperienze e le mie osservazioni, credo che la distruzione fisica della Terra si estenda anche a noi. Se viviamo in un ambiente ferito, dove l’acqua e’ inquinata, il cibo e’ contaminato da metalli pesanti e residui plastici, e il suolo e’ praticamente immondizia, cio’ ci affligge, influisce sulla nostra salute e crea ferite a livello fisico, psicologico ed esistenziale. Degradando l’ambiente degradiamo sempre noi stessi.

[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59@libero.it) per averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente testo di Wangari Maathai, ripreso da "Yes! Magazine" del 26 settembre 2011, estratto dal libro "Replenishing the Earth: Spiritual Values for Healing Ourselves and the World"]

DANIELE BARBIERI RICORDA WANGARI MAATHAI *

"Arokoma kuuraga" - che tu possa domire la’ dove piove - e’ l’augurio tradizionale del popolo keniota a una persona morta. Nel suo libro "Solo il vento mi pieghera’" Wangari Maathai aggiunse: "per me quel luogo e’ intriso di rugiada, percio’ e’ verde. Forse il paradiso e’ verde".

Wangari Maathai e’ morta, per un tumore, a 71 anni. Nobel per la pace nel 2004 con questa motivazione: "La pace nel mondo dipende dalla difesa dell’ambiente" e l’aggiunta che la sua azione per i diritti delle donne ha ispirato moltissime persone e ha saputo conciliare la scienza e l’ideale democratico.

Di fronte a quel Nobel inatteso, la Maathai non si scompose: scavo’ la terra e vi mise una pianticella. "Perche’ quel che faccio", continuava a ripetere, "e’ molto semplice: pianto gli alberi".

Prima donna nel Centrafrica a laurearsi (in biologia) e a ricevere un Nobel. Fondo’ nel 1977 il Green Belt Movement che ha piantato 40 milioni di alberi in Kenia e altri Paesi africani per combattere l’erosione. Ma - spiegava - bisogna anche difendere gli alberi che ci sono, e Wangari Maathai nel suo Paese e’ stata insultata, bastonata, sfrattata, denunciata perche’ fermava chi buttava giu’ foreste per costruire alberghi di lusso. Nella sua biografia racconta di quando, barricata in casa, disse ai poliziotti venuti a prenderla: "So che dovete arrestarmi. Ma anch’io sto facendo il mio lavoro e non vi apriro’ la porta. So che avete freddo. Vi preparero’ una tazza di the ma non ho piu’ latte. Se vi do’ i soldi andate a comprarlo?". Per la cronaca i poliziotti, dopo una breve consultazione, andarono a prendere il latte.

Nel suo "La religione della terra" (in italiano presso Sperling & Kupfer, come il precedente) uscito quest’anno, Maathai spiego’ che scavare buche o difendere gli alberi non e’ un lavoro particolarmente spirituale ma che questi sforzi spargono "semi di altro tipo: quelli necessari a curare le ferite inflitte alle comunita’, depredate della loro autostima". E i quattro principi del Green Belt Movement partono da qui: "1. Amore per l’ambiente. 2. Gratitudine e rispetto per le risorse della terra. 3. Autopotenziamento e automiglioramento. 4. Spirito di servizio e volontariato".

In un famoso articolo del 2007 (per "The Globalist") ha raccontato la lotta del Kenia per l’indipendenza e la sua... per lo stesso motivo. Come donna era discriminata in ogni modo. Protesto’. "Da allora le docenti continuarono ad essere pagate meno degli uomini che facevano il loro stesso lavoro, ma a me e a un’altra ribelle fu conferito il titolo di ’professore maschio onorario’". E ancora: "Spesso incontro donne che hanno aspettato che quella sicurezza chiamata uomo svanisse dalle loro vite per ricordarsi che avrebbero dovuto proteggere i loro diritti. Donne che dicono: ’L’avrei fatto anche prima, ma lo sai come sono fatti gli uomini’".

Dopo gli anni bui della repressione, anche in Kenia si e’ aperta una speranza e Maathai se ne e’ rallegrata. "Solo il vento mi pieghera’" si chiudeva cosi’: "Sono una delle poche fortunate che ha potuto vedere un nuovo inizio. Ma ho sempre creduto che, non importa quanto sia scuro il cielo, c’e’ sempre un po’ di rosa all’orizzonte ed e’ quello che dobbiamo cercare".

Il 2011 e’ l’anno internazionale delle foreste. Come sempre queste campagne hanno risvolti pratici importanti e molto fumo di bei discorsi. Forse l’esempio di Wangari Maathai, piantare alberi e impedire che vengano abbattuti, e’ la strada giusta. In ogni caso "arokoma kuuraga" per lei.

[Ringraziamo Daniele Barbieri (per contatti: pkdick@fastmail.it) per averci messo a disposizione questo suo articolo originariamente pubblicato sul quotidiano "L’unione Sarda" il 27 settembre 2011 ]

* FONTE:

TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 694 del 30 settembre 2011
Telegrammi della nonviolenza in cammino proposti dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza

Direttore responsabile: Peppe Sini.
Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo,
tel. 0761353532,
e-mail: nbawac@tin.it,
sito: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 30/9/2011 19.33
Titolo:Derrida, "Abramo, l’altro" - Una recensione ....
- Derrida, Jacques, Abramo, l’altro, a cura di Giovanni Leghissa e Tatiana Silla.
- Napoli, Cronopio, 2005, pp. 92, € 10,00, ISBN 88-89446-05-6.

- Recensione di Francesco Tampoia - 07/02/2006 *

Nella Prefazione, abbastanza ampia e articolata se rapportata al testo derridiano, Giovanni Leghissa e Tatiana Silla precisano che il volumetto presenta il testo della conferenza di apertura, affidata allo stesso Derrida, a un convegno dal titolo Judeites. Questions pour Jacques Derrida, svoltosi a Parigi dal 3 al 5 Dicembre 2000.

Dalle prime pagine leggiamo che “Derrida ha sempre negato che una sorta di ebraicità sia all’opera in quel peculiare modo di fare filosofia che è la decostruzione” (p. 10), che il filosofo ha sostenuto con forza che non esiste un decostruzionismo al singolare: “La decostruzione, in quanto interrogazione permanente dell’eredità del proprio luogo, delle proprietà e dell’appropriazione, ha di mira ciò che precede tutte le filiazioni e le derivazioni”(p. 11-12). Lungi dall’assegnare legittimità a questa o a quella politica dell’identità, la decostruzione intende smontare la certezza pacificante e consolatoria che solitamente accompagna le ricostruzioni del passato, perché la decostruzione si pratica nella consapevolezza di muoversi all’interno di un magma (chora) confuso e sfuggente che precede e accomuna idee e oggetti mondani. Rispondendo alla domanda principale posta al convegno, Derrida afferma che se è lecito parlare di ebraismo, a suo riguardo, si tratta dell’ ebraismo di un marrano. “Il marrano, in senso proprio, è colui che ha dovuto tradire la propria origine ebraica costretto a farlo non solo per salvarsi la pelle, ma anche per salvare qualcosa del proprio ebraismo” (p. 13) e pertanto “l’identità che il marrano custodisce, dovendo rimanere nascosta, dovendo esporsi al rischio di cancellazione, si fa alterità, si trasforma in qualcosa che non può essere esibito in forma pura” (p. 14).

I prefatori fanno riferimento a un testo, in parte gemello alla conferenza Abramo, l’altro, una vera e propria autobiografia di Derrida, Circumfessiones, pubblicato nel 1991, in cui si ha l’impressione che Derrida voglia smontare il genere autobiografia-filosofica confrontandosi con le Confessioni di sant’Agostino. Adottando sapientemente la decostruzione, il confessare di non confessare o per non confessare, Derrida scrive: ”Sono uno di quei marrani che non si dicono ebrei nemmeno nel segreto del loro cuore, non per essere dei marrani che vengono riconosciuti come tali da una parte o dall’altra della frontiera pubblica, ma perché dubitano di tutto, non si confessano mai, né mai rinunciano ai Lumi, costi quel che costi, pronti a farsi bruciare, o quasi. (p. 15). In Circumfessiones, non ancora tradotto in italiano, il filosofo riscopre frammenti, echi, evoca ricordi che mescola abilmente con l’autobiografia di sant’Agostino, mentre si accorge che sta imitando, mimando, decostruendo il capolavoro agostiniano. Gioca con alcune analogie e, riportando frasi dal testo latino delle Confessioni, dichiara il suo amore e l’immensa ammirazione per sant’Agostino, si apparenta, per alcuni tratti e movenze al Petrarca del Secretum, pone delle domande al santo non solo sulle sue confessioni, ma anche sulla sua politica, esercita, insomma, una decostruzione a due insieme con lui. Del resto la somiglianza con le vicende personali di Agostino non è peregrina. La terra di origine, il Magreb, Georgette, la madre di Derrida, una specie di Monica giudea, che morì in Europa, a Nizza, la ribellione giovanile, i compromessi e le difficoltà di un provinciale che cerca il successo nella metropoli, etc. Ma fra Derrida e Agostino vi è ben altro. La tradizione teologica di Agostino è la quintessenza del logocentrismo occidentale, e la deconstructione derridiana vuole essere la decostruzione del logocentrismo dell’intera tradizione occidentale religiosa e laica.

Parallela all’aporia ebreo/non ebreo è l’altra autentico/inautentico, in parte mutuata dalle famose pagine del capolavoro heideggeriano Essere e Tempo. Altro tema aporetico, infine, quello dell’ospitalità (cfr. Sull’ospitalità), ripreso in diverse occasioni e nelle sue varie sfaccettature, come lo hanno inteso i Greci, come lo ha affrontato Kant nello scritto Della pace perpetua. Spostandosi oltre Kant, Derrida tende a far debordare la dialettica ospitalità incondizionata/os.condizionata in una sfera etica che oltrepassa il diritto, allo stesso modo della morale stoica o della teologia paolina (vedi Efesini, 2, 19-20), nella convinzione che il principio della legge è la divisione, la separazione.

Dopo aver iniziato il lettore alla conferenza derridiana, mi affretto alla lettura diretta del testo per coglierne i principali passaggi e il nucleo argomentativo. Abramo, l’altro, è impostato dall’inizio alla fine sui due registri, da una parte la presenza di un’identità inammissibile dall’altra la necessità di confrontarsi con il proprio ebraismo, la propria biografia, la propria storia.

Derrida prende lo spunto da una frase tratta da un raccontino di Kafka, “Potrei, per me, pensare un altro Abramo” (p. 31). Cosa significa? Che posso immaginare o concepire, nella sconfinata libertà del mio pensiero un altro Abramo, e forse un altro ancora? E poi, riferendomi al testo biblico, chiedermi ma quale Abramo è stato chiamato? Quale dei diversi Abramo è stato chiamato?

Indubbiamente colui che risponde alla chiamata si prende una certa responsabilità, ha ascoltato, ha sentito la chiamata. Derrida propone alcuni percorsi alternativi, di cui ho già detto nel commento alla Prefazione. Primo: la dicotomia ebreo/non ebreo può essere configurata come una dissociazione tra le persone della declinazione dei verbi, tra i pronomi personali. Secondo: l’alternativa ebreo autentico/ebreo inautentico, di cui si occupò Sartre, in seguito alla lettura di Essere e Tempo di Heidegger mezzo secolo fa, può essere approfondita con l’ausilio dei due filosofi. Terzo. va accettata ed esplorata la dissociazione tra l’ebraicità e l’ebraismo.

Nel trattare in prima persona il suo essere/non essere Ebreo, Derida prosegue: “L’ingiunzione contraddittoria che avrebbe così ordinato la mia vita, mi avrebbe detto in francese: guardati dall’ebraismo - o anche dalla stessa ebraicità. Guardatene per custodirlo, guardatene sempre un po’, guardati dall’essere ebreo per conservarti ebreo o per conservare l’Ebreo in te. Custodisci l’ebreo che è in te, prenditene cura. Pensaci bene, sii vigilante, usa riguardo verso il tuo ebraismo, e non essere ebreo a qualunque prezzo. Anche se tu fossi il solo e l’ultimo a essere ebreo a un simile prezzo, pensaci su due volte prima di dichiarare una solidarietà di tipo comunitario o nazionale, men che meno se legata allo stato-nazione” (p. 41). E qui il filosofo si chiede se la prescrizione della legge che separa ebreo da non ebreo, circonciso da non circonciso, così intensamente vissuta e discussa da S. Paolo, possa essere perennemente valida.

L’ordine, l’ingiunzione sarebbe quella di mantenere il silenzio. Un silenzio scelto, ma anche non scelto di fronte a una condizione esistenziale di colpevolezza apriori, di un debito originario, di un torto congenito “che si trova ovunque e particolarmente presso pensatori sedicenti cristiani, anticristiani o atei come Kierkegaard o Heidegger, perché l’argomentare universale di questa singolare requisitoria viene da me, da sempre, quasi sempre, oscuramente, si salda alla questione della mia appartenenza all’ebraicità o al giudaismo” (p. 43-44).

Parlare o non parlare? Dire o non dire?

L’oscillazione derridiana è un gioco, ma non un doppio gioco, né una qualsivoglia o ingenua opposizione, come erroneamente hanno pensato alcuni lettori e/o critici. Né la pratica decostruttiva derridiana mira a formare delle coppie di opposti binari, uno dei quali acquista gradatamente la preminenza mentre l’altro viene marginalizzato, ancor meno realizza un libero gioco di due opposti, senza alcuna connotazione gerarchica, magari in attesa della sintesi. Il suo dualismo, opposizione dei termini, non è, e non può sussistere come giustapposizione meccanica, a posteriori, esterna, è, invece, simile a una traccia originaria, con valore attivo e passivo, che è dentro e fuori. La traccia per Derrida è prima dell’ente, come un significato in posizione di significante, né il Nostro avverte la nostalgia dell’origine.

In queste pagine ricorda il suo cammino esistenziale e come la parola ebreo gli sia stata appioppata per la prima volta nella lingua francese d’Algeria dei primi anni di vita. Ricorda che “la parola “ebreo” credo di non averla mai sentita all’interno della mia famiglia, né come una designazione neutra e destinata a classificare, né destinata a identificare l’appartenenza a una comunità sociale, etnica o religiosa. “Credo di averla sentita nella scuola di El Biar ed era già carica di quel che si potrebbe chiamare un’ingiuria, in latino iniuria, in inglese iujury, allo stesso tempo un insulto, una ferita e un’ingiustizia, una negazione del diritto piuttosto che il diritto ad appartenere a un gruppo legittimo” (p. 47) Gli è stata affibbiata questa parola, anzi l’espressione sporco ebreo, con l’esplicita attribuzione di una colpa, prima che avesse commesso alcun errore.

Ricorda che ha giocato, senza effettivamente giocare, a soprannominarsi l’ultimo degli ebrei, colui che non meriterebbe il titolo di Ebreo autentico, il marrano che però è ebreo, perché crede che meno ti mostrerai ebreo più e meglio lo sarai. Ricorda ancora che da ragazzo l’osservazione diretta di quello che avveniva agli ebrei ha avuto in lui effetti non simili agli altri ragazzi ”Ma la stessa sofferenza e la stessa compulsione a decifrare i sintomi mi hanno, anche, in modo paradossale e simultaneo, allertato contro la comunità e il comunitarismo in generale, a cominciare dalla solidarietà reattiva, così fusionale e talvolta non meno gregaria, di quel che costituiva il mio entourage ebraico”(p. 56) Gli è rimasta la diffidenza verso il comunitarismo e la diffidenza nei confronti delle frontiere, delle opposizioni, che pure ha sempre visto con rispetto, secondo le procedure della decostruzione, valorizzando i margini, i luoghi di frontiera, le zone franche situate come intercapedine nel mezzo degli opposti, gli è rimasta la diffidenza portatrice di aporeticità che “mi ha dunque spinto a elaborare una decostruzione, ma anche un’etica della decisione o della responsabilità esposta alla resistenza dell’indecidibile, alla legge della mia decisione come decisione dell’altro in me” (pp. 59-60).

Più avanti il riferimento al volume di J. P. Sartre, L’antisemitismo. Riflessioni sulla questione ebraica del 1954, letto all’età di vent’anni. Sartre indugia sulla distinzione Ebreo autentico ed Ebreo inautentico con alcune pagine sulla figura del piccolo ebreo che si sente separato dagli altri bambini, escluso, fa una difficile precoce esperienza: “Ecco dunque una sorta di scena primitiva nel corso della quale la rivelazione di una verità rompe ed esclude, lasciando soltanto tracce di turbamento nell’identità, nella distinzione tra il dentro e il fuori, in “in sé” e il “fuori di sé” (p. 68).

Riprendendo l’ambiguità insita nel dualismo autentico/inautentico, aggiunge “quel che semplicemente volevo confidarvi a nome mio, se posso ancora dire così, è che ci tengo a dire “io sono ebreo” o “io sono un Ebreo” senza sentirmi mai autorizzato a precisare un Ebreo “inautentico” o, soprattutto un Ebreo “autentico”, né nel senso limitato e molto francese di Sartre, né tanto meno in un senso che da me potrebbero attendersi degli ebrei più sicuri della loro appartenenza, della loro memoria, della loro essenza o della loro elezione”(p. 83). E tornando, infine, allo spunto iniziale, quello della chiamata: cosa faccio quando, chiamato, rispondo all’appello e tengo a presentarmi come Ebreo? Quale nesso si determina tra il fare e il sapere, tra fede e sapere? “Chiunque sia sicuro (come invece giustamente non lo era l’altro, il secondo Abramo di Kafka), chiunque creda di detenere la certezza di essere stato lui il solo, lui per primo, chiamato come il primo della classe, trasforma e corrompe la terribile e indecisa esperienza della responsabilità e dell’elezione in caricatura dogmatica, con le più temibili conseguenze che si possano immaginare in questo secolo, soprattutto quelle politiche” (pp. 84-85).

La conclusione, si fa per dire, è che non è assicurata la distinzione tra inautentico e autentico, tra ebraismo ed ebraicità. Ne aveva discusso acutamente Freud su Mosé per concludere pressappoco in questo modo: se si domandasse a questo Ebreo (cioè a lui stesso): “Dal momento che avete abbandonato tutti questi caratteri comuni ai vostri compatrioti, che cosa vi resta di ebraico?”, costui risponderebbe: “Molto e probabilmente la stessa sua essenza”. Non potrebbe esprimere subito questa essenza con l’aiuto delle parole”(p. 86). Resta, tuttavia, una certa eredità. Di modo che nel groviglio delle direzioni, religiose, storiche, filosofiche, linguistiche, giuridiche, politiche, nel crogiolo preistorico e proteiforme, archiscrittura, spesso chiamato chora emergono due postulati contradittori: da una parte è là che si trova la condizione per affrancarsi, dall’altra l’affrancamento può essere interpretato come il contenuto stesso della rivelazione o dell’elezione, rifiuto del nihilismo e consapevolezza dello scacco cui deve far fronte l’uomo.

“Che ci sia ancora un altro Abramo, ecco dunque il pensiero ebraico più minacciato ma anche il più vertiginosamente, il più estremamente ebraico che io conosca fino ad oggi” (p. 92). Lungi dall’avallare il nichilismo della distruzione, Derrida ha scelto la decostruzione della metafisica occidentale e, nelle opere degli ultimi anni come Abramo, l’altro, l’autointerpretazione del soggetto.

È il lascito più fecondo della sua filosofia, in particolare della sua ultima stagione che siamo chiamati ad approfondire.

Indice

- Prefazione, Le gallette di Purim.
- Abramo, l’altro.

Gli autori

Jacques Derrida (1930-2004) filosofo e critico letterario, di origine ebraica, è noto come il fondatore del decostruzionismo. Numerosa e molto varia la sua produzione saggistica. Tra le sue opere più note: L’écriture et la différence, De la grammatologie, La voix et le phénomène, La dissémination, Marges de la philosophie, La Carte postale: de Socrate à Freud et au-delà, De l’espirit: Heidegger et la question, Politiques de l’amitié: suivi de l’oreille de Heidegger, Adieu à Emmanuel Lévinas.

* RECENSIONI FILOSOFICHE - ReF, 07/02/2006
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 05/3/2012 21.32
Titolo:L’evento dell’altro. Etica e politica in Jacques Derrida....
Caterina Resta, L’evento dell’altro. Etica e politica in Jacques Derrida. Torino, Bollati Boringhieri, 2003, pp. 138, Euro 14,00

Recensione di Rita Fulco - 19/12/2003 (da: www.swif.uniba.it)

Ascoltare e cor-rispondere nella scrittura. Questo originario mettersi a disposizione della parola e del pensiero ha da sempre consentito a Caterina Resta di confrontarsi con le maggiori questioni filosofiche del nostro tempo e di tradurle in parola con un certo anticipo rispetto alla loro ribalta nel dibattito filosofico.

Questa "preveggenza" aveva caratterizzato anche il suo primo testo su Jacques Derrida (Pensare al limite. Tracciati di Derrida, Milano 1990), una delle pionieristiche monografie italiane - che tutt’oggi resta un punto di riferimento ineludibile per chi intenda occuparsi seriamente di Derrida - sul grande pensatore francese: indubbiamente ha il merito di avere aperto, per prima, alcune piste divenute fondamentali nel dibattito intorno al filosofo. In particolare, gli ultimi due capitoli di quel volume mostravano come il pensiero di Derrida, lungi dal potersi ridurre a un "pensiero della scrittura" come puro esercizio ludico di stile (questo è semmai il limite di tanti suoi mimetici esegeti), fosse aperto a molte altre questioni, altrettanto decisive, la cui portata filosofica è possibile cogliere solo sullo sfondo di alcuni dei suoi più diretti interlocutori. Heidegger, in primo luogo, per quanto riguarda un pensiero dell’evento, inteso anche come cor-rispondere all’ascolto di una parola data, accettazione e accoglimento di una promessa, di un patto che, fin dall’inizio, determina la nostra appartenenza al linguaggio. E Lévinas, per quanto concerne la sempre maggiore attenzione dedicata dall’ultimo Derrida ai risvolti etico-politici e al tema dell’altro in quanto autrui, alla ricerca di un diverso modo di pensare l’entre nous.

Questo nuovo lavoro coglie il frutto più recente e maturo del pensiero del filosofo francese, il cui seme Caterina Resta aveva intravisto nel volume del 1990: in un confronto divenuto ormai esplicito e serrato con il pensiero di Lévinas e con la comune radice ebraica - a cui l’autrice dedica un illuminante e importante capitolo, che offre una ricostruzione esaustiva e affascinante del dialogo tra i due grandi filosofi francesi - Derrida intravede nella figura dello straniero e dell’ospite la possibilità di quell’evento dell’altro che, inatteso e inaspettato come il Messia, scardina e interrompe il continuum del tempo cronologico, introducendovi le possibilità inaudite di un tempo kairologico, mettendo radicalmente in discussione lo stesso statuto del soggetto. Un radicale rovesciamento, dunque, dell’ermeneutica della decostruzione derridiana, considerata da molti come esempio di assoluta irresponsabilità del pensiero, occupato unicamente in un estetizzante quanto cinico gioco basato su una pratica nichilistica e distruttiva, volta a smantellare il "logofonocentrismo", nome dato da Derrida alla tradizione del pensiero occidentale. L’originale e acuta interpretazione di Resta mostra come la responsabilità e la giustizia siano, in realtà, gli snodi fondamentali su cui la decostruzione, negli ultimi lavori del filosofo francese, si de-cide - o fosse sin dall’inizio decisa - radicalmente per altri, richiamando in ogni istante a rispondere dell’altro e per l’altro, proseguendo su quei tracciati che già da sempre conducevano a quello che oggi ci sorprende come un rinnovato e dirompente pensiero dell’ospitalità e dell’accoglienza dell’altro, di altri.

Già l’incipit - un breve quanto denso commento, posto quasi ai bordi dell’immagine scelta per la copertina (un particolare della Cena in Emmaus di Caravaggio) - lascia affiorare il tema chiave dell’intero volume: l’evento dell’altro non è rivestito di gloria e onore ma, come il Messia dell’episodio evangelico, "ebraicamente, è lo Straniero che incontriamo per strada, lo Sconosciuto dal quale si ricevono insospettabili ammaestramenti; è il Clandestino senza nome, forse addirittura il Perseguitato, la cui identità di altro uomo è celata per la cecità dei nostri occhi che non ne sanno riconoscere il Volto; è l’Ospite cui dobbiamo accoglienza alla nostra tavola e con il quale siamo chiamati a condividere i pasti alla mensa comune" (p.10).

A quest’ospite non ci si può che rivolgere dandogli del tu, e la scrittura di Derrida si piega al soffio, o al vento impetuoso, dell’altro assumendo la forma dell’apostrofe, quel tono diretto, quasi timbro di voce, che sul foglio bianco si traduce nella signature, la firma, singolare impronta d’esistenza individuale, incrocio di nome e tempo nello spazio dell’incontro che ogni carte postale, ogni lettera, ogni invio dischiude. L’unicità dell’adresse e della signature non delimita uno spazio identitario, ma i bordi di un appello, di uno spazio gravido d’evento, in cui si possano dare cor-rispondenze: "Poco importa, infatti, la presunta identità - miraggio di ogni comunicazione trasparente - del destinatore e del destinatario: quel che davvero interessa, ciò di cui "ne va", è che la destinazione sia ogni volta unica nel suo indirizzo, che ogni volta si indirizzi a te e a nessun altro e che tu [...] semplicemente l’accolga dicendole di sì [...]. Per questo essa, nonostante ogni ’buona volontà’ e intenzione, può non raggiungerti mai, cadere in altre mani, anche quando fossero proprio le tue" (p. 22). L’importanza di questo Ent-sprechen (cor-rispondere) sarebbe impossibile da comprendere senza tenere in giusta considerazione il corpo a corpo che Derrida sostiene con tutto il pensiero di Heidegger, a partire da Sein und Zeit fino a Zeit und Sein, concentrandosi sui temi dell’ascolto e dell’evento, come impegno alla e nella parola.

L’evento non s’inserisce affatto in un orizzonte di prevedibilità e calcolabilità, anzi scardina ogni programma, porta il tempo out of joint, poiché se davvero si sapesse cosa si attende e il momento preciso in cui tale attesa verrà soddisfatta, non ci sarebbe, non si darebbe, alcun evento, ma tutt’al più l’esecuzione di un programma. L’evento arresta il tempo cronologico, interrompe la scansione ripetitiva delle lancette d’orologio e, in una sorta di escatologia messianica, irrompe sulle ali del giovane Kairos dal lungo ciuffo che dobbiamo saper ’acciuffare’: "Non tutto ciò che accade ha dunque il carattere di evento, ma solo quel che e-viene nella sua assoluta e irriducibile singolarità, quell’unico che, nell’attesa, non mi potevo aspettare e che perciò mi sorprende, fino a mozzarmi il fiato" (p. 31).

Ciò non significa che occorra predisporsi al futuro, dimentichi di ogni passato. Anzi, Derrida stesso avverte che non c’è a-venire senza eredità e possibilità di ripetere. Si tratta di intrattenere un rapporto differente con il passato, che non viene conservato sotto forma di archivio onnifagocitante, ma riattivato mediante una decisione, una responsabilità, a cui l’eredità stessa chiama: quella di esserne testimoni, prestando fede all’impegno preso e alla parola data, liberamente. Testimoniare di un’eredità ricevuta in dono non vuol dire trasmetterne esattamente i contenuti: questo è un gesto impossibile alla radice, visto che si eredita sempre a partire da un segreto che l’eredità stessa serba nell’offrirsi a noi, un inattingibile che non si può confidare e che rivela una condizione di radicale finitezza.

Questo pensiero, allora, deve misurarsi costantemente con il limite, ripensare soglie e frontiere, nello spazio, nel tempo, nel linguaggio, nell’infinita differenza di ogni soggetto con sé stesso e nel suo essere assoggettato all’infinita differenza dell’altro, che arriva e, sorprendendomi, mi reinventa: ospite io stesso di me stesso e di colui che arriva, a sua volta ospitante e ospitato. Questo è il cuore dell’ospitalità all’evento, in cui un arrivante assoluto espropria, disidentifica, mette in questione ogni chez soi, in un imprevedibile rovesciarsi di estraneo e familiare, fino a trasformare - come ha ben visto Lévinas - colui che ospita in ostaggio di colui che è ospitato, spingendo la legge dell’ospitalità verso l’impossibile di una giustizia che impone di accogliere l’arrivante senza chiedergli nulla, neanche il nome: "Muta accoglienza, a braccia aperte, nel più perfetto silenzio in cui si apre una porta, quasi che solo esso sia in grado di custodire quel segreto che l’arrivante ci offre in dono e che consente un’ospitalità incondizionata nei confronti dell’altro: lasciarlo straniero nel gesto che lo accoglie, inappropriabile" (p. 49).

Qui si incrocia uno dei temi più scottanti che attraversa, come una ferita originaria, le politiche dell’ospitalità: come tenere insieme l’esigenza urgente e imprescindibile della legge dell’ospitalità, che impone un’apertura incondizionata, con le leggi dell’ospitalità, chepretendono di regolamentare giuridicamente un’istanza ontologica, prima che etica, e cioè il fatto che l’altro viene prima di me? In realtà La legge dell’ospitalità ha bisogno delle leggi dell’ospitalità, se non altro come frontiera da superare, limite da trasgredire, per avvicinarsi sempre più a quell’imperativo di assoluta apertura di cui essa è portatrice.

Mentre la giustizia appartiene al registro del dono, con l’incommensurabile responsabilità nei confronti dell’altro, al diritto spetta "comparare l’incomparabile", calcolare, equiparare. Derrida si appella dunque a una dimensione escatologica e messianica della giustizia, senza che ciò rinvii a un particolare orizzonte religioso: si tratta di un "messianico senza Messia", di un "riconoscimento della Torah prima del Sinai", come ha sostenuto Lévinas, da inscrivere nell’ordine di una promessa incondizionata che non può essere garantita a priori da nessun programma politico, speranza di una democrazia a-venire: "Il dio che ama lo straniero avrebbe annunciato non a tutti, ma singolarmente a ciascuno, la legge dell’ospitalità come un umanesimo dell’altro uomo, speranza di ogni umanità a venire" (p. 89).

Come riuscire a essere giusti nello iato tra diritto e giustizia? Che cosa garantisce che una decisione non sia semplicemente legale ma giusta? La decisione di Abramo rispetto al sacrificio del figlio Isacco è da Derrida considerata emblematica, poiché rende impossibile la decisione stessa, assoggettata a due imperativi ugualmente esigenti e, proprio per questo, l’unica davvero responsabile. In questo suo proporsi come esperienza dell’impossibile, la giustizia rivela il suo legame con l’evento, sorprendendo la stessa soggettività del soggetto e rivelandolo esposto ontologicamente all’altro, responsabile prima che libero.

Si annuncia così l’urgenza di una politica che decostruisca ogni orizzonte genealogico, che attribuisce diritti a partire dalla nascita e dalla discendenza, come anche ogni schema basato sulla fratellanza, volto a garantire valore solo alla comunità di sangue, spettri sempre pronti a seminare terrore e morte, anche nella nostra epoca in cui la globalizzazione teletecnica e la conseguente deterritorializzazione, lungi dall’offrire un mondo armoniosamente pacificato, hanno visto la risorgenza di localismi e nazionalismi esasperati, contraccolpo allo sradicamento totale e omologante, che ha privato di ogni possibilità di avere una propria dimora e di poter offrire, quindi, un’ospitalità: "Una politica dell’ospitalità non può non riconoscere lo struggente desiderio della singolarità, dell’idioma, di ciò che è proprio: che altro si avrebbe da offrire all’ospite che ci visita se non il dono della nostra differenza? Perfettamente uguali non saremmo anche necessariamente indifferenti?" (p. 72).

Ogni politica dell’ospitalità, ogni politica a-venire, deve rispondere di un difficile compito: quello di essere fedele alla doppia ingiunzione che impone da un lato il rispetto della singolarità e dall’altro la totale ospitalità offerta a ogni altro in quanto altro, nella costante vigilanza che l’esigenza del sangue e del suolo non rinasca dall’interno del desiderio della dimora e dell’idioma. Rischio sempre presente che apre alla possibilità ineludibile che ogni hospes si trasformi in un hostes, anzi nel più acerrimo inimicus.

La scommessa e la promessa di questa politica a-venire, o meglio di un possibile avvenire della politica, è quella di un "legame che sleghi", di una "comunità di coloro che non hanno comunità", come l’ha chiamata Bataille, amicizia del dis-astro, per usare un’espressione di Blanchot, o amicizia stellare degli astri, secondo le parole di Nietzsche, che sappia rinunciare a ogni comune, a ogni come-uno, in vista di un essere-insieme-altrimenti, fondato sulla con-divisione del segreto. Amicizia nella condivisione del silenzio e della solitudine.

L’intraducibilità e l’intrasparenza, proprie di ogni singolarità, alludono a un resto inappropriabile che rende la separazione insormontabile: "Ma come testimoniare di questo ’tacere tra amici’, del tacere l’uno all’altro, l’uno davanti all’altro, ’come si può stare assieme per testimoniare il segreto, la separazione, la singolarità?’ E, domanda ancora più incalzante, può esservi una politica di o per questa comunità di coloro che non hanno comunità, è possibile ’fondare una politica della separazione?’ Una politica, una democrazia che dovrebbero farsi carico, che dovrebbero cor-rispondere all’intrattabilità di questo tratto, di questo ’tra’ che è la condizione di tutt’altra comunità" (p. 86).

Dunque, la questione urgente è se davvero si possa amare lo straniero in quanto tale, se possa esistere un’aimance indirizzata all’unico, all’amico nella sua totale differenza e inappropriabilità, che non scada in un bene come-unitario distribuito indistintamente ai tutti senza volto: "Al di là del comune e della comunità, non sarà forse ’ospitalità’ il nome di questa aimance, l’altro nome di una politica a-venire?" (p. 88). L’ospitalità, al di là del bene e del male di ogni comunità, dice infatti un altro tempo, dona un altro tempo, nell’attesa di quel Messia che è già da sempre qui e che pure deve ogni volta arrivare, clandestino e straniero: lui che, al di là di ogni nome proprio, nomina proprio il dono del tempo. L’evento dell’altro.

Indice---Introduzione: L’a-venire della decostruzione 1. L’evento dell’altro (I. Gli effetti della scrittura; II. L’apostrofe; III. L’invenzione dell’altro; IV. La responsabilità della risposta) 2. L’evento e (è) l’impossibile (I. L’inatteso; II. Ereditare; III. L’a-venire) 3. Politiche dell’ospitalità (I. Ospitalità; II. Diritto e giustizia; III. Decisione e responsabilità. IV. Una politica a-venire V. Con-dividere il segreto; VI. Messianico senza Messia) 4. Un contatto nel cuore di un chiasmo: Derrida e Lévinas (I. Incroci; II. Il passo al di là; III. Alterità e scrittura; IV. Un’etica prima dell’ontologia. V. Addio; VI. L’accoglienza)

Caterina Resta è ordinario di Filosofia teoretica presso l’Università di Messina, dove insegna anche Filosofie del Novecento. Si è occupata di Martin Heidegger, Friedrich Nietzsche, Ernst Jünger e Carl Schmitt. È interessata, inoltre, al tema della differenza e dell’alterità, avendo approfondito, nell’ambito della filosofia francese, il pensiero di Jacques Derrida, Jean-Luc Nancy e Emmanuel Lévinas. È anche fra i maggiori studiosi di Geofilosofia. Tra i suoi volumi più recenti: La Terra del mattino. Ethos, Logos e Physis nel pensiero di Martin Heidegger (Milano 1998), Stato mondiale o Nomos della terra. Carl Schmitt tra universo e pluriverso (Roma 1999), Passaggi al bosco. Ernst Jünger nell’era dei Titani (Milano 2000, con Luisa Bonesio).

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