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www.ildialogo.org KANT, I NATIVI DIGITALI, DEWEY, E L'ATTIVISMO PEDAGOGICO SENZA FACOLTA' DI GIUDIZIO. Materiali per riflettere: testi di Gianni Rodari, Immanuel Kant, Emilio Garroni, Roberto Casati, e Armando Massarenti,a c. di Federico La Sala

LA SCUOLA, IL WEB, E LA LEZIONE DI KANT. "SAPERE AUDE!": IL CORAGGIO DI SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E L’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’ ...
KANT, I NATIVI DIGITALI, DEWEY, E L'ATTIVISMO PEDAGOGICO SENZA FACOLTA' DI GIUDIZIO. Materiali per riflettere: testi di Gianni Rodari, Immanuel Kant, Emilio Garroni, Roberto Casati, e Armando Massarenti

Un cervello ottuso o limitato, cui non manchi nulla se non una misura conveniente di intelletto e una precisione nei concetti dell’intelletto, può certo agguerrirsi con lo studio, sino a raggiungere anche l’erudizione. Tuttavia, poiché in tal caso manca di solito altresí il giudizio (...), si incontrano non di rado uomini assai eruditi, che nell’uso della loro scienza lasciano spesso scorgere quel difetto giammai emendabile.


a c. di Federico La Sala

 
-  Indice:

 

-  A. Il mondo come scuola 
-  B. La capacità di giudizio 
-  C.  La creatività 
-  D. Scuola, cervello e nuove tecnologie 
-  E. Internet, attivismo e pragmatismo 
-  F. L’assassinio di Kant, i cattivi maestri, e la catastrofe dell’Europa 
-  G. Note


A

Una scuola grande come il mondo

di Gianni Rodari

-  C’è una scuola grande come il mondo. 
-  Ci insegnano maestri, professori, 
-  avvocati, muratori, 
-  televisori, giornali, 
-  cartelli stradali, 
-  il sole, i temporali, le stelle.

-  Ci sono lezioni facili 
-  e lezioni difficili, 
-  brutte, belle e casi cosi.

-  Ci si impara a parlare, a giocare, 
-  a dormire, a svegliarsi, 
-  a voler bene e perfino 
-  ad arrabbiarsi.

-  Ci sono esami tutti i momenti, 
-  ma non ci sono ripetenti: 
-  nessuno può fermarsi a dieci anni, 
-  a quindici, a venti, 
-  e riposare un pochino.

-  Di imparare non si finisce mai, 
-  e quel che non si sa 
-  è sempre più importante 
-  di quel che si sa già.

-  Questa scuola è il mondo intero 
-  quanto è grosso: 
-  apri gli occhi e anche tu sarai promosso.

-  Gianni Rodari


B

Critica della ragione pura

DELLA CAPACITA’ TRASCENDENTALE DI GIUDIZIO IN GENERALE

di Immanuel Kant *

Se l’intelletto, in generale, viene definito come la facoltà delle regole, la capacità di giudizio è allora la facoltà di s u s s u m e re sotto regole, cioè di distinguere se qualcosa cada o no sotto una data regola (casus datae legis).

La logica generale non contiene affatto norme per la capacità di giudizio, e neppure può contenerne. Difatti, in quanto essa astrae da ogni contenuto della conoscenza, non le rimane allora null’altro da fare, che dilucidare analiticamente la semplice forma della conoscenza nei concetti, giudizi, inferenze, e costituire cosí le regole formali di ogni uso dell’intelletto.

Ora, se la logica generale volesse mostrare universalmente, come si debba sussumere sotto queste regole, cioè come si debba distinguere se qualcosa cada o no sotto di esse, ciò non potrebbe accadere altrimenti che di nuovo attraverso una regola. Questa peraltro, proprio per il fatto che è una regola, richiede nuovamente un ammaestramento della capacità di giudizio; ed allora risulta chiaro, che l’intelletto è bensí capace di venir istruito e provveduto mediante regole, ma che la capacità di giudizio è un talento particolare, il quale non può essere insegnato, ma può soltanto essere esercitato.

La capacità di giudizio è quindi altresí l’elemento specifico del cosiddetto ingegno naturale, la cui mancanza non può trovare alcun rimedio nella scuola. In effetti, sebbene la scuola possa doviziosamente porgere e, per cosí dire, inoculare, ad un intelletto limitato, regole prese a prestito dalla conoscenza altrui, tuttavia la facoltà di servirsi rettamente di esse deve appartenere allo scolaro stesso, e nessuna regola, che possa essergli prescritta in questo scopo, si sottrarrà all’abuso, quando manchi una delle dote naturale (l).

Perciò un medico, un giudice, o un uomo politico, può avere in capo molte belle regole patologiche, giuridiche o politiche, al punto da poter diventare egli stesso un profondo insegnante in proposito, e tuttavia cade facilmente in errore nell’applicazione di esse, o perché manca di capacità naturale di giudizio (sebbene non manchi d’intelletto), ed egli può sì intendere l’universale in abstracto, ma non sa distinguere se un caso in concreto sia subordinato ad esso, o anche per il fatto che egli non è stato sufficientemente addestrato per questo giudizio, mediante esempi e pratica diretta. Questa è anche la sola e grande utilità degli esempi: il fatto, cioè, che essi acuiscono la capacità di giudizio.

In effetti, per quanto riguarda la correttezza e la precisione della comprensione intellettuale, gli esempi piuttosto recano di solito un certo danno, poiché solo di rado essi soddisfano adeguatamente alla condizione della regola (come casus in terminis), oltre al fatto che essi indeboliscono spesso lo sforzo dell’intelletto per cogliere, universalmente e indipendentemente dalle circostanze particolari dell’esperienza, le regole nella loro adeguatezza, e perciò abituano infine ad usare tali regole piú come formule che come proposizioni fondamentali. Gli esempi sono cosí le dande della capacità di giudizio, delle quali non potrà mai fare a meno colui che manchi del talento naturale di tale capacità.

Peraltro, sebbene la logica generale non possa fornire alcuna norma alla capacità di giudizio, le cose stanno tuttavia ben diversamente riguardo alla logica trascendentale, cosicché sembra quasi, che quest’ultima abbia, come suo vero e proprio compito, il correggere e il garantire - mediante regole determinate - la capacità di giudizio nell’uso dell’intelletto puro.

In effetti, come mezzo per procurare all’intelletto un’estensione nel campo delle conoscenze pure a priori, e quindi come dottrina, la filosofia non sembra affatto necessaria, o piuttosto, sembra essere male applicata, poiché in tal modo si è guadagnato poco o punto terreno, nonostante tutti i precedenti tentativi; al contrario, come critica, per prevenire i passi falsi della capacità di giudizio (lapsus judicii) nell’uso dei pochi concetti puri dell’intelletto che noi possediamo, la filosofia viene impiegata a questo fine (sebbene l’utilità sia in tal caso solo negativa) in tutta la sua acutezza ed abilità indagatrice.

La peculiarità detta filosofia trascendentale consiste tuttavia nel fatto che oltre alla regola (o piuttosto alla condizione universale di regole), la quale viene data nel concetto puro dell’intelletto, essa può al tempo stesso indicare a priori 1l caso, cui tali regole debbono essere applicate.

La causa della preminenza, che a questo riguardo essa ha su tutte le altre scienze didattiche (al di fuori della matematica), sta per l’appunto nel fatto, che essa tratta di concetti, i quali debbono riferirsi a priori ai loro oggetti, cosicché la validità oggettiva di tali concetti non può essere mostrata a posteriori, póiché tale prova non toccherebbe per nulla la loro dignità.

La filosofia trascendentale, piuttosto, deve esporre al tempo stesso - secondo caratteristiche universali ma sufficienti - le condizioni sotto cui gli oggetti possono venir dati in accordo con quei concetti; in caso contrario, questi ultimi sarebbero privi di qualsiasi contenuto, quindi semplici forme logiche e non già concetti puri dell’intelletto.

Questa dottrina trascendentale della capacità di giudizio conterrà dunque due capitoli: il p r i m o tratta della condizione sensibile, che è la sola sotto cui possano venir usati i concetti puri dell’intelletto, cioè tratta dello schematismo dell’intelletto puro; il s e c o n d o, invece, tratta dei giudizi sintetici, che discendono, sotto queste condizioni a priori, dai concetti puri dell’intelletto, e stanno a fondamento di tutte le altre conoscenze a priori, ossia tratta delle proposizioni fondamentali dell’intelletto puro.

-  1. La mancanza di capacità di giudizio è propriamente ciò che si chiama stupidità, e contro tale difetto non c’è assolutamente rimedio. Un cervello ottuso o limitato, cui non manchi nulla se non una misura conveniente di intelletto e una precisione nei concetti dell’intelletto, può certo agguerrirsi con lo studio, sino a raggiungere anche l’erudizione. Tuttavia, poiché in tal caso manca di solito altresí il giudizio (secunda Petri), si incontrano non di rado uomini assai eruditi, che nell’uso della loro scienza lasciano spesso scorgere quel difetto giammai emendabile.

I. KantCritica della ragione pura, Adelphi edizioni, Milano 1979, pp. 214-217 (Analitica trasc. - Libro II. Introduzione). L’espressione "secunda Petri", che per Kant vale "Giudizio", rimanda a Pietro Ramo e alla sua "Logica".


C

CREATIVITA’

-  ESTETICA (E NON SOLO) E DEMOCRAZIA. PER LA CRITICA DELLA FACOLTA’ DI GIUDIZIO E DELLA CREATIVITA’ DELL’ "UOMO SUPREMO" (KANT). 
-  
CREATIVITA’: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETA’ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Da Emilio Garroni, una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico. 
-  Una nota di Federico La Sala


D

scuola, cervello e nuove tecnologie

Computer in aula? Con cautela

di Roberto Casati (Il Sole-24 Ore, 27 marzo 2011)

Di questi tempi bisogna premettere a una discussione su scuola, cervello e nuove tecnologie, una sfilza di robuste dichiarazioni di intenti. «Attenzione, sono critico, ma non sono un luddista! Le nuove tecnologie sono fondamentali! Ed è fondamentale capire come il cervello si adatta alle sue estensioni tecnologiche». L’ho detto, forse ora i miei lettori sono ben disposti? Perché vorrei mettere in evidenza alcuni punti critici della letteratura recente, riassunta da Armando Massarenti in un lungo articolo nel primo numero del 2011. Si tratta di una lista di problemi aperti che sottendono molte dimensioni diverse; le righe a mia disposizione sono poche, poco più di un tweet a punto, ma voglio soprattutto suggerire che abbiamo a che fare con un paesaggio a molte dimensioni, e che le scorciatoie siano purtroppo in costante agguato per riportarci di continuo a una visione appiattita del fenomeno scuola.

Neuro-x: il cervello e l’educazione

Come la neuroestetica, la neuroeducazione è un programma di ricerca fatto di risposte roboanti; ma quali sono le domande? Come per la neuroestetica, la ragione del l’assenza di domande è nota da tempo e tranquillamente ignorata. Se non si caratterizzano in modo adeguato i comportamenti sotto esame non si sta rispondendo a nessuna domanda scientifica sulla spiegazione di quei comportamenti. Lo studio neurologico della dislessia, o dell’incapacità di produrre frasi grammaticali, o del "piacere di imparare", non esiste senza una caratterizzazione funzionale di questi fenomeni, che è appannaggio delle scienze cognitive. Ora, non c’è dubbio che mostrare meravigliose immagini del "cervello in azione" abbia il suo irresistibile fascino e continuerà a catturare fondi per ricerche costose e distraenti. Peggio: fornirà la motivazione per politiche di intervento di cortissimo respiro, che sarebbero "convalidate" dalla pubblicazione delle immagini. Per esempio:«Il cervello si attiva di più quando fai una ricerca su Google che quando guardi la televisione», così mostra uno studio. Resistete! Chiedetevi che cosa significa! Magari vuol dire che il cervello non sta ottimizzando le sue risorse, che lotta contro mille segnali e non riesce a concentrarsi.

Perché insegnare la musica e perché abbiamo le classi miste?

Guardiamo a degli studi cognitivi. Uno studio ha mostrato l’influenza dell’apprendimento della musica sulla capacità di ragionamento geometrico. Uno studio mostra che i risultati scolastici di ragazze che competono con altre ragazze sono migliori di quelli di ragazze che competono con dei ragazzi. Domanda: è questa la ragione per cui fate studiare musica ai vostri figli, se lo fate? Preferireste che vostra figlia venisse iscritta in una classe solo femminile?

E perché insegnare a scrivere?

L’antropologo Dan Sperber aveva già mostrato in modo vivido la china pericolosa del ragionamento sulle tecnologie. Già ora potete dettare i vostri testi con Dragon. Se i programmi diventassero ancora di poco migliori, a che pro imparare a scrivere a mano, con penna o tastiera? Sareste d’accordo che i vostri figli non imparassero a scrivere? (E viceversa: uno studio mostra che alcuni videogiochi migliorano alcune capacità cognitive: è una ragione per far entrare i videogiochi in classe?).

Su cosa stiamo deliberando?

Questi esempi mostrano che le discussioni attuali sono soprattutto sui mezzi. «Se vogliamo ottenere migliori risultati in matematica, dobbiamo usare il metodo x e fare y». Ma deliberare sui mezzi e non sui fini significa accettare senza discussione che si sia già deliberato sui fini. La normatività implicita è quella del successo scolastico: un successo individuale, che si misura con indicatori di varia natura, che verranno poi aggregati nel successo di scuola o di una nazione relativamente ad altre scuole o nazioni, eccetera. La normatività implicita è che la scuola fornisca soprattutto una specie di servizio di training e magari anche coaching per estrarre migliori performance dai suoi studenti. (E, certo, già chiamarlo "successo" ha le sue connotazioni.) Ma che cosa succede a voler troppo misurare?

La legge di Campbell

Dice che l’ufficializzazione di un sistema di misura ha l’effetto perverso di imporre comportamenti strategici. Se lo scopo di un sistema educativo è che gli studenti riescano a passare un certo tipo di esame, il sistema si adatta e tralascia l’insegnamento di materie potenzialmente importanti che non sono valutate all’esame. Si finisce con l’insegnare a passare esami, il che comporta, incidentalmente, che gli esami stessi perdano di valore diagnostico. Passiamo alle tecnologie:

La legge di Casati

È l’inverso della famosa legge di Moore: i processori nei computer che si trovano in qualsiasi momento in una scuola hanno meno della metà della velocità di quelli che si trovano in commercio nello stesso momento. Di fatto, lavorare con loro è come lavorare con una macchina del tempo. Gli insegnanti conoscono benissimo il problema della polvere sui computer: quasi trent’anni di conferme empiriche della Legge di Casati dovrebbero suggerire che sia perfettamente surreale continuare ad «auspicare l’introduzione di nuove tecnologie nella scuola», almeno fintantoché vale la legge di Moore o ci sia una qualche forma di progresso informatico. Come conferma la pubblicità scientemente ansiogena del l’iPhone: «Ora tutto cambia. Di nuovo».

L’insegnante deve competere con lo smartphone?

Ma se l’insegnante non ha l’obbligo di "essere al passo" con la tecnologia, deve forse competere con essa? Anche qui, attenzione alla normatività nascosta. I computer sono vicini all’optimum ergonomico: prendi in mano uno smartphone, maneggi, e scopri da solo come si usa. Quindi: da un lato non ti serve un insegnante che ti spieghi come usarlo, e d’altro lato non c’è competizione possibile con un sistema ergonomicamente ottimale.

Più teoria, più design

Serve invece una robusta dose di comprensione teorica delle tecnologie: spiegare che cosa è un algoritmo, in che modo gli algoritmi di Google determinano il design e in che modo quest’ultimo determina poi le scelte di chi usa le tecnologie. Serve spiegare come si paghino a distanza di anni certe scelte di design riciclato nel grande copia-e-incolla della costruzione del software. Paola Antonelli, la curatrice del MoMA, prevede che nel futuro ci sarà una distinzione tra design teorico e design applicato, e la scuola potrebbe anticipare utilmente questa tendenza.

Il rischio dell’elettrificazione

Il design teorico dice che il design applicato è di corto respiro quando non sfrutta le potenzialità della tecnologia e cerca semplicemente di dare una veste elettrica alle vecchie situazioni di insegnamento. L’immaginazione si ferma dinanzi al quadretto di una classe in cui il banco è sostituito da un terminale, la lavagna di ardesia da una elettronica. Non è questo il luogo di fare proposte alternative, ma piacerebbe vederne di più.

Trasfigurazione del banale

Per esempio, se volete che i vostri studenti usino intelligentemente Wikipedia, insegnate loro non tanto a leggerla e copia-incollare le sue voci, ma a scrivere le voci stesse. (Imparano l’etica della scrittura. Imparano che cosa vuol dire essere spietatamente editati nel giro di poche ore).

Discutiamo ancora dei fini.

Per esempio: La scuola deve adattarsi allo sviluppo della società Vero; forse. Discutiamone. Magari deve aiutare la società a capire se il suo sviluppo sia ineluttabile. Forse può creare delle zone di tranquillità da cui guardare allo sviluppo della società in tutta calma.

Il diluvio dei dati

La discussione sulle nuove tecnologie mette in fondo in luce un potente equivoco sulla scuola. La scuola non è (più, non principalmente) un luogo in cui acquisire informazioni. Le informazioni sono disponibili in misura assai maggiore al di fuori della scuola, nella Rete: da questo punto di vista la scuola non può competere con la Rete. Il vantaggio cognitivo della scuola è di fornire qualcosa che la Rete non potrà mai dare, ovvero un punto di vista diverso sulle informazioni, dato che i sistemi di raccomandazione che lavorano nella Rete («chi ha comprato X ha comprato anche Y») fanno di tutto per inchiodare una persona al suo profilo. O forse, addirittura, la scuola può semplicemente fornire l’idea che un punto di vista sia possibile, dato che le informazioni sono oggi soltanto subìte.

Il mese della lettura

E quindi facciamo fare a scuola agli allievi qualcosa che la società non fa. Per esempio, proteggiamo lo spazio della lettura, sospendendo le classi, facendo leggere a scuola un libro al giorno per una settimana. Insegniamo che leggere un libro è quantomeno possibile.

Il registro nazionale delle buone pratiche

Il sito http://gold.indire.it/gold2/ raccoglie le buone pratiche della scuola italiana. È un po’ difficile da consultare e non è molto ordinato, ma è un passo nella buona direzione, mi pare. Basterebbe poco a farne un sito veramente utile (tag, qualche gerarchia, un sistema di raccomandazioni anche solo provvisorio eccetera). Gli insegnanti sono sulla linea del fronte dell’innovazione pedagogica e non sarebbe male ripensare la scuola a partire dal loro lavoro, che integra costantemente la riflessione sui mezzi con la deliberazione sui fini.

La fragilità degli insegnanti

Certo, non è di grande aiuto sottopagare gli insegnanti e additarli come "fannulloni". E ancor meno utile è farli sentire in colpa per non essere tecnologicamente al passo.

*

-  Il libro e il dibattito I contenuti del libro di Paolo Ferri, Nativi digitali (Bruno Mondadori, pagg. 212, euro 18,00) sono stati in parte anticipati sul primo numero del domenicale di quest’anno. 
-  Gli articoli «
Che cosa sta facendo internet ai vostri neuroni» (sul quale interviene qui Roberto Casati) e «Nel regno dei nativi digitali» hanno suscitato un vasto dibattito nel mondo della cultura e della scuola e sono disponibili nel sitowww.ilsole24ore.com.

-  Paolo Ferri insegna a Milano Bicocca, dove dirige il Lisp (Laboratorio informatico di sperimentazione pedagogica) e l’Osservatorio Nuovi Media NuMediaBios.


E

INTERNET, ATTIVISMO E PRAGMATISMO

Così si realizza il sogno educativo di John Dewey

di Armando Massarenti (Il Sole-24 Ore, 27 marzo 2011)

Leggere Nativi digitali di Paolo Ferri, uno dei maggiori esperti di scuola e nuove tecnologie, avendo in mente i dubbi, puntuali e profondi, che Roberto Casati espone qui a fianco ha prodotto in me un singolare effetto filosofico. E se le risposte ai quesiti di Casati - mi sono chiesto - oltre che a essere in qualche modo presenti nel libro di Ferri, ci spingessero dritti nelle braccia del più grande filosofo-educatore del Novecento, il pragmatista americano John Dewey? Le sue idee di una scuola che educhi alla creatività, all’«arte come esperienza», alla partecipazione attiva, alla cooperazione tra individui non atomizzati, e dunque alla democrazia come "medium cognitivo" per la soluzione dei problemi che si hanno in comune, potevano sembrare difficili, se non impossibili da realizzare ai suoi tempi. Pura utopia, avrebbero detto i conservatori.

Ma non è che invece, proprio grazie alle nuove tecnologie, si stanno rivelando del tutto a portata di mano? E che proprio osservando queste specie di alieni che sono i nativi digitali - alieni per noi, figli di Gutenberg - la scuola immaginata da Dewey diventa non un sogno ma la naturale conseguenza di un sano realismo, basato sulla semplice descrizione e constatazione delle capacità cognitive che già albergano nelle menti dei nostri pargoli?

L’approccio al sapere dei nativi digitali - ci dice Ferri - si basa sull’esperienza, è meno dogmatico del nostro, è attivo e non sopporta che i contenuti vengano semplicemente trasmessi dall’alto, in un rapporto uno-molti, com’è tipicamente quello tra l’insegnante e la classe. La proposta di Ferri è quindi quella di sfruttare a scopi formativi l’"intelligenza digitale" che i nativi sviluppano per conto proprio, fuori dalle aule scolastiche, armeggiando iPad, eBook e smartphone e rimanendo sempre connessi coi loro socialnetwork, non solo per futili motivi, ma per essere sempre pronti a condividere il proprio sapere e a confrontare i propri gusti e le proprie esperienze.

Il learning by doing, la capacità di risolvere problemi, l’interattività, la socialità, la gratuità, la creatività, oltre che a essere tutti concetti profondamente deweyani, sono abilità che i nativi digitali cominciano ad apprendere a partire persino dai loro primi videogiochi. «I giochi - scrive Ferri in uno dei due passi in cui Dewey è ricordato esplicitamente - non si limitano a fornire un fondamento logico per l’apprendimento: ciò che i giocatori imparano è immediatamente utilizzato per risolvere problemi avvincenti che hanno delle conseguenze reali nel mondo del gioco».

E ancora: «Un videogioco può essere considerato come un ambiente immersivo digitale che è costituito da un insieme di problemi da risolvere». «I giochi più efficaci dal punto di vista dell’apprendimento sono i giochi che ammettono una gamma molto vasta di soluzioni» e «il gioco diviene un ambiente esterno digitale che permette di mettere alla prova le differenti rappresentazioni interne delle possibili soluzioni a quel problema».

Più in generale, l’uso di internet e degli altri strumenti digitali sta modificando la configurazione neurale delle nostre menti, che, come ha dimostrato Giacomo Rizzolatti, presenta un elevato tasso di plasticità anche in età adulta. Lo dice anche Nicholas Carr inInternet ci rende stupidi?, da poco pubblicato da Cortina, traendone però conseguenze catastrofiche. Illegittime secondo Ferri, il quale osserva che «una trasformazione e un cambiamento delle attivazioni neuronali sono ormai una prova scientifica ma certamente, come rilevano anche gli studi di Battro, Koizumi e altri neuro scienziati, non siamo ancora in grado di verificare sperimentalmente gli effetti positivi o negativi di questa trasformazione».

Anche in questo dobbiamo seguire Dewey e adottare l’approccio sperimentale dell’imparare facendo, così come gli stessi programmatori di oggi tendono ad assomigliare più a dei bricoleurs che a degli ingegneri. Significativamente Ferri accosta a Dewey un’altra grande educatrice, Maria Montessori, mostrando che «gli studenti stessi sembrano suggerire attraverso il loro "stile di apprendimento partecipativo/digitale" nuove modalità didattiche e nuovi stili didattici ai loro insegnanti. Richiedono, cioè, sempre di più, nuove opportunità di "imparare a fare da soli" (Montessori), di essere indipendenti e individualizzare e socializzare il loro stile di apprendimento».

I nativi digitali paiono richiedere un più intenso dialogo e una maggiore interazione con i docenti da realizzarsi anche attraverso i media digitali, magari all’interno, di ambienti virtuali per l’apprendimento. Non c’è bisogno di dotazioni particolarmente sofisticate. Non è questione di elettrificazione delle aule, ma di capacità di adattare ai nuovi stili cognitivi dei nativi il setting della scuola. È un’operazione metodologica prima che tecnologica. Essenziale per un’ambiente formativo digitale è ad esempio avere banchi mobili e combinabili che facilitino l’apprendimento e l’interazione di gruppo.

Dewey una volta scrisse che «Non è la perfezione la meta ultima della vita, ma il processo incessante di perfezionare, maturare e raffinare». Se il carattere aperto dei nuovi media interattivi può integrarsi con tale processo di continuo affinamento e perfezionamento, culturale e sociale, possiamo dire che il gioco è fatto: avremo prodotto esattamente quegli spiriti critici attivi, capaci di continuare ad apprendere in tutto l’arco della loro esistenza ciò di cui hanno bisogno oggi le società postindustrali basate sul l’economia della conoscenza.


F

L’ASSASSINIO DI KANT, I CATTIVI MAESTRI E LA CATASTROFE DELL’EUROPA.

-  EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!! 
-  
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA. Un breve saggio di Federico La Sala, con prefazione di Riccardo Pozzo.



PER ULTERIORI APPROFONDIMENTI SUI TEMI, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:

-  FIABA, COSTITUZIONE, E FILOLOGIA. A VLADIMIR J. PROPP E A GIANNI RODARI, A ETERNA MEMORIA... 
-  
CESARE SEGRE E PAOLA MASTROCOLA SUL TRENINO DEL BUNGA-BUNGA PEDAGOGICO! Davvero è tutta colpa di Rodari e don Milani? Una riflessione di Giorgio Pecorini, con una nota

 

-   MARIA MONTESSORI - MA DOV’E’ "GIUSEPPE"?! UNA VITA NELLA SCIA DI "MARIA", "MATER ET MAGISTRA", PER TUTTI I BAMBINI DEL MONDO.

-  LA "PROFEZIA" DI MARSHALL MCLUHAN: NARCISO E LA MORTE DELL’ITALIA. Il "rimorso di incoscienza" di Marshall McLuhan

-  Dopo Copernico, l’uomo rotola dal centro verso la "X". Fine dell’"uomo teoretico": Web, Terra, e Mutamenti Antropologici. 
-  PENSIERO LIQUIDO E CROLLO DELLA MENTE. Sulle nuove frontiere della riflessione estetica, un originale saggio di Gaetano Mirabella, scrittore e collaboratore del "McLuhan Program in culture and technology" di Toronto

-  PLATONE, PLATONISMO PER IL POPOLO, E CROLLO DELLA MENTE DELL’UOMO TEORETICO ... 
-  
HANS BLUMENBERG CI SOLLECITA: "USCITE DALLA CAVERNA"!



Martedì 29 Marzo,2011 Ore: 09:42
 
 
Commenti

Gli ultimi messaggi sono posti alla fine

Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 29/3/2011 11.25
Titolo:Come corre la rivoluzione al ritmo di Internet ...

I nuovi media in Medio Oriente
Come corre la rivoluzione al ritmo di Internet

di Carlo Antonio Biscotto (
il Fatto, 29.03.2011)

Le rivolte in Tunisia, Egitto e Libia e le manifestazioni che stanno scuotendo dalle fondamenta l’intero Medio Oriente hanno portato alla ribalta il ruolo politico dei cosiddetti “social media” come strumenti di critica dei regimi e di organizzazione del dissenso.

Che poi la prima “rivoluzione in rete” dell’era moderna abbia avuto per palcoscenico il mondo arabo e non - come molti studiosi prevedevano - l’Asia, è in parte sorprendente, ma non cambia di una virgola l’analisi del fenomeno. Non sono stati, ovviamente, Facebook e Twitter a scatenare le sollevazioni popolari contro regimi brutali, oppressivi, corrotti e impopolari, ma i social network hanno fatto emergere un malcontento diffuso che covava da tempo sotto la cenere.

E L’ONDATA di collera che investe gli autocrati arabi non risparmia nessuno... Come un tam tam, Twitter, Facebook, gli sms, i video, i blog dilagano oltre che in Tunisia, Egitto e Libia anche in Giordania, in Marocco, in Siria, nello Yemen, in Bahrein mentre in aree lontane del mondo - in Cina, ad esempio - le classi dirigenti temono il contagio. Ma il ruolo di Internet non è stato identico in tutti i Paesi. In Tunisia Twitter e Facebook sono stati elementi cruciali per la diffusione di messaggi, ma non hanno dato un contributo significativo nel far conoscere all’estero le ragioni e le dimensioni della protesta.

In Egitto, invece, gli organi d’informazione internazionali, come Al Jazeera, hanno immediatamente puntato i riflettori su quanto accadeva nel Paese. Stando a quanto riferito da Opennet Initiative, Mubarak ha progressivamente oscurato l’accesso a Internet. Non è servito: Google ha ideato un sistema che ha consentito ai rivoltosi di registrare con il cellulare brevi messaggi da postare successivamente in rete. Alcuni provider francesi hanno messo a disposizione connessioni gratuite a chi si collegava dall’Egitto. Diverso lo scenario mediatico in Libia. Anzitutto solo il 5% della popolazione ha accesso a Internet (rispetto al 34% in Tunisia e al 24% in Egitto) e inoltre l’unico provider è controllato dalla famiglia Gheddafi.

MA I GIOVAN Ilibici si sono serviti dei cellulari satellitari, della possibilità di connettersi a Internet con i telefonini di ultima generazione e hanno dato prova di grande inventiva. A lasciare stupefatti è l’accelerazione che le nuove tecnologie hanno impresso alla Storia. Quando l’uomo inventò la polvere da sparo ci vollero secoli prima che le armi da fuoco diventassero strumenti di guerra. Internet ha 20 anni, Facebook 7 e Youtube appena 6. In così poco tempo sono diventate armi letali puntate contro i palazzi del potere.

Cosa avrebbero potuto o potrebbero fare in futuro i dittatori al potere per opporsi alla marea montante di giovani che su Facebook, su Twitter, sui blog, con gli sms, con i video postati su Youtube, chiedono le dimissioni di governi corrotti e maggiore democrazia? Sparare sulla folla e oscurare Internet? Strada poco praticabile. Al mondo ci sono pochi Golia e molti Davide... online. L’economia moderna dipende sempre più da Internet emisure volte ad ostacolare le comunicazioni avrebbero pesanti ricadute sulla situazione economica. La rivoluzione è di nuovo una spontanea sollevazione di popolo. Non ci sono più gruppi di cospiratori clandestini che il potere è quasi sempre riuscito a controllare e a vanificare infiltrandoli e manovrandoli.

QUASI 500 ANNI FA Lutero rivoluzionò società e religione dell’Europa con la stampa. Con l’avvento di Internet e dei social network quel mondo è tramontato. Controllare la stampa e la tv era facile, Internet è quasi impossibile. In una vignetta apparsa su un quotidiano tunisino in lingua francese, un anziano chiede a un giovane: “Ma insomma chi è il nuovo primo ministro?” e il giovane risponde: “Facebook”.


Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 29/3/2011 12.01
Titolo:Dal ’68 francese alla primavera maghrebina
... e noi una democrazia mediam...
Bandiere giovanili, dal ’68 francese alla primavera maghrebina


di Carlo Formenti (

Corriere della Sera, 29.03.2011)


Nel primo Novecento i rivoluzionari europei cantavano «e noi faremo come la Russia» , nel ’ 68 impugnavano il libretto di Mao, ora tocca al Nord Africa. Il 23 marzo scorso il Knowledge Liberation Front - una rete internazionale di movimenti radicali di studenti, precari e lavoratori della conoscenza - ha indetto una conferenza stampa per annunciare tre giorni di mobilitazione contro la «finanziarizzazione delle nostre vite» . Dal comunicato si evince che il primo oggetto di contestazione sono l’aumento delle tasse di iscrizione e i concomitanti tagli di budget che Inghilterra, Francia, Italia e altri Paesi hanno imposto alle università, una scelta, si scrive, funzionale a un progetto di mercificazione della conoscenza e precarizzazione del lavoro culturale.

A colpire di più, tuttavia, è il riferimento alle lotte dei giovani insorti nordafricani, descritte come modello da imitare. Un anacronistico rigurgito terzomondista? Basta rileggere gli articoli che gli inviati di tutto il mondo hanno dedicato agli eventi di Tunisia ed Egitto per capire che non si tratta di questo: se i giovani parigini, londinesi e romani possono identificarsi con i ragazzi del Cairo e di Tunisi è perché sanno che si tratta perlopiù di studenti laureati e neolaureati condannati alla disoccupazione, di persone che usano i social network come i coetanei europei, dei quali condividono ormai i valori culturali, e che l’impossibilità di trovare sbocchi occupazionali induce ad attraversare il Mediterraneo e approdare sulla sponda europea in cerca di migliori condizioni di vita.

È quindi del tutto comprensibile che i giovani rivoluzionari europei li considerino «rinforzi» da arruolare nelle proprie battaglie. Comprensibile ma per nulla scontato, nel senso che questa svolta ideologica è un sintomo impressionante della velocità con cui ha camminato la storia negli ultimi decenni: il ’ 68 rivendicava un’università di massa che, si sognava, avrebbe democratizzato la politica e l’economia; ora che l’università di massa minaccia di divenire una fabbrica di precari, ci si specchia nel destino dei giovani diseredati del Maghreb. Che abbia ragione la sociologa della globalizzazione Saskia Sassen quando parla di «terzomondizzazione» dell’Occidente? 




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Siamo una democrazia mediamente ignorante


Un’indagine del Centro per il Libro fa il punto sul mercato editoriale


di Paolo Di Stefano

 (Corriere della Sera, 29.03.2011)

E’ molto interessante l’indagine Nielsen sull’acquisto e la lettura di libri commissionata dal Centro per il Libro presieduto da Gian Arturo Ferrari. Il risultato più rilevante è che solo il 33 per cento della popolazione italiana (un cittadino su tre) ha acquistato almeno un libro nell’ultimo trimestre 2010. Si tratta per lo più di donne (54 per cento), di un pubblico che risiede per la maggior parte tra il centro e il Nord Italia e che ha un profilo giovane (tra i 25 e i 34 anni). La libreria resta il canale preferito (65 per cento), mentre un acquirente su dieci si rivolge a internet. In media il cittadino che compra libri ha speso circa 27 euro in tre mesi, cioè 9 euro al mese, per di più nel periodo più propizio per l’editoria, come quello natalizio, in cui il libro è anche regalo. Gli altri non hanno speso niente.

Dunque, il cittadino italiano ha sborsato in media, per i libri, 3 euro al mese. Se si va sulla lettura, le cose stanno ancora peggio: le persone che hanno letto almeno un libro in tre mesi sono meno degli acquirenti: in tutto, 16.8 milioni. Altro che crescita o decrescita del Pil, c’è un prodotto interno lordo che procede più lentamente di quello economico ed è quello culturale. Non si potrebbe immaginare niente di più catastrofico per lo sviluppo di un Paese.

L’industria editoriale, consegnata nelle mani dei supermanager, non ha dato grandi risultati. O, meglio, se le case editrici stanno economicamente meglio che in passato, il Paese è rimasto culturalmente quello di sempre se non peggio. E se si considera la situazione al sud, la situazione è ancor meno confortante: in Calabria, solo il 6 per cento della popolazione ha acquistato più di tre libri nel periodo preso in considerazione. Non si fa che parlare di ebook, ma rimane un mercato che non sfiora neanche l’uno per cento del totale.

Dunque, in attesa dell’onda digitale eternamente annunciata, parliamo di editoria cartacea. Un altro dato significativo dell’indagine Nielsen è che i libri nettamente più venduti (20 per cento del totale) sono gialli, polizieschi e thriller: cioè tutta quella massa di titoli che un tempo veniva ignorata dai sondaggi in libreria per il semplice fatto che, venendo considerata paraletteratura, finiva in edicola. Ora è la Letteratura per eccellenza. Lo stesso vale per quel 7 per cento che rientra nella categoria della narrativa rosa o d’amore. Ha ragione Ferrari (intervistato da Simonetta Fiori per la Repubblica) quando dice che «la base dei lettori italiani è vergognosamente ristretta e nessuno dà un valore sociale al libro» .

Sarà vero che per migliorare le cose basterebbe che lo Stato investisse 10 milioni l’anno per un quindicennio? Se così fosse, scordiamoci ogni sogno di gloria. Visto che gli investimenti sulla cultura diminuiscono a vista d’occhio. Dice Ferrari che l’unico momento storico in cui lo Stato unitario si è prodigato per allargare la lettura è stato il ventennio fascista: non è un esempio valido, perché bisogna valutare che tipo di libri promuoveva. Fatto sta che, nel dubbio, la nostra democrazia, a giudicare da tutto, si accontenta di avere cittadini mediamente ignoranti.

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