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www.ildialogo.org KANT, LA CRITICA DELLA FACOLTA' DEL GIUDIZIO, E LA CREATIVITA'. Una indicazione di Emilio Garroni, da rileggere e da riprendere. Una nota di Federico La Sala,

ESTETICA (E NON SOLO) E DEMOCRAZIA. PER LA CRITICA DELLA SOCIETA’ DELL’UOMO A UNA DIMENSIONE ...
KANT, LA CRITICA DELLA FACOLTA' DEL GIUDIZIO, E LA CREATIVITA'. Una indicazione di Emilio Garroni, da rileggere e da riprendere. Una nota di Federico La Sala

Ormai è più che evidente: siamo sempre più intelligenti e sempre più creativi, ma anche sempre più stupidi e cretini – pericolosamente! Come mai?!, come è possibile?! Forse vale la pena svegliarsi dal “sonno dogmatico”, e cercare di raccapezzarci un poco sul problema (...)


 

Ormai è più che evidente: siamo sempre più intelligenti e  sempre più creativi, ma anche sempre più stupidi e cretini – pericolosamente! Come mai?!, come è possibile?! Forse vale la pena svegliarsi dal “sonno dogmatico”, e cercare di raccapezzarci un poco sul problema. Una grande opportunità per cominciare (o ricominciare) a pensarci, è leggere (o rileggere) un importante contributo di Emilio Garroni, intitolato “Creatività”: questo testo, apparso per la prima volta nel 1978 all’interno della “Enciclopedia” Einuadi, è stato ora ripreso in volumetto autonomo, con prefazione di Paolo Virno, dalle edizioni “Quodlibet” di Macerata. In tale saggio,  Garroni (morto nel 2005) fornisce alcune indicazioni di straordinaria produttività, che ancora non sono state ben soppesate, e che meritano di essere riconsiderate con grande attenzione. E, cosa originale e degna di rilievo, è che, al centro del suo discorso al fine di impostare meglio il problema della creatività, emerge in posizione chiave non solo l’indicazione  di una sorprendente ipotesi di rilettura di Kant ma anche la ripresa e il rilancio del programma illuministico kantiano dell’uscita dallo stato di minorità. E per questo, oggi più di ieri,  abbiamo bisogno non solo di una critica delle idee tradizionali - ancora dominanti e diffuse - sulla “creatività” ma anche e soprattutto della nostra (di esseri umani) decisiva e fondamentale  facoltà di giudizio.  

 

Per cominciare, e contribuire a capire tutta la portata del contributo di Emilio Garroni, è da dire che della creatività - la questione di tutte le questioni di tutta l’umanità (non – come la nostra millenaria tradizione  vuole -  solo del genio, dell’artista, del poeta, del visionario o del metafisico), noi (esseri umani) - ancora oggi - non abbiamo trovato risposte soddisfacenti e siamo ancora incapaci di formularla e rispondervi in modo critico (a tutti i livelli). E così, con una facoltà di giudizio e con un’idea confusa di creatività (e, con essa, di creazione),  continuiamo a vivere come sudditi ciechi e zoppi di un’antichissima antropologia (con i suoi riflessi cosmologici e teologici) indegna della nostra stessa umanità (cosmicità e ‘divinità’).

Incapaci di prendere la giusta distanza da noi stessi, di  portare noi stessi al di là noi stessi, non sappiamo ancora nulla né di noi, né del nostro mondo, né di Dio. Detto altrimenti, e semplicemente: siamo ancora ignoti a noi stessi (Nietzsche). E la ragione è presto detta:  abbiamo preferito e preferiamo più le tenebre che la luce, e, anzi, siamo stati e siamo ancora ben intenti a spegnere in tutti i modi possibili e immaginabili la lampada kantiana del “Sàpere aude!”, del coraggio di servirsi della propria intelligenza! Avendo paura della morte e del nulla,  stiamo ancora a trastullarci con l’amletica domanda. (“essere o non essere?”) e non sappiamo nulla (dell’“Essere”) di “Fortebraccio” (Shakespeare, Amleto)! 

Si è preferito e si preferisce affidarsi e obbedire al “grande codice” della “creatività” della tradizione occidentale (atea e devota), essere governati dalle sue regole – negare le domande che vengono a noi stessi da noi stessi e seguire noncuranti la corrente, come cadaveri o come robot - senza più alcuna consapevolezza e libertà!  

Amici di Platone e di Aristotele, più che amici della verità e di noi stessi, continuiamo da secoli e secoli  a risolvere i nostri problemi con  le regole da loro concepite con la loro grande creatività e abilità! Bisogna riconoscerlo: grazie alla loro creatività,  essi hanno codificato regole potentissime per risolvere i problemi del loro mondo e noi  siamo stati  e siamo così bravi ad applicarle che, facendo esercizi su esercizi, abbiamo  saputo estenderle a tutta la Terra (all’intero universo e all’intero aldilà).

Ma ora sta succedendo che il loro mondo – e la loro creatività  (basata sul riconoscimento e sul ritrovamento dei loro “modelli” pre-registrati e pre-esistenti, codificati  per la eternizzazione del loro mondo e della loro memoria) – ci sta scoppiando intorno, sopra,  e dentro la testa, e non sappiamo più che cosa fare. Sempre più ci rendiamo conto che le loro regole per risolvere i nostri problemi sono inadeguate e inadatte per noi stessi e per la nostra stessa sopravvivenza, ma noi insistiamo ad affrontarli – e sempre più stupidamente - come se fossero esercizi da risolvere, con le loro regole – quelle fondate sul codice della creatività del mondo di Platone e Aristotele!

Noi della creatività nel senso pieno del termine – così come di noi stessi, della nostra facoltà di giudizio, e della nostra libertà! -  non sappiamo più nulla e ovviamente, non sapendo nulla, ricadiamo continuamente nella loro soluzione e nelle braccia del loro re-filosofo (il visioniario-metafisico di turno). Questo il problema e questa l’urgenza: sapere della creazione, della produzione del nuovo, della creatività del comportamento di tutti gli esseri umani e a tutti i livelli, non limitatamente alla sola “creatività” esecutiva – all’abile intelligenza di sudditi o di animali in trappola – nella “caverna” universale (‘cattolica’) di Platone.

 

Bisogna pensare in modo nuovo, e in altro modo – e tenere presente che, se pure tutto viene dall’esperienza, non tutto si riduce all’esperienza. Cominciamo da noi stessi, esseri umani dotati di due mani, di due piedi, due occhi, due orecchi, una testa (con due emisferi cerebrali), una bocca ...   Limitiamoci a considerare la questione partendo dagli organi della vista, dagli occhi. E’ esperienza comune vedere, ma non è affatto comune -  né nella vita culturale né nella vita quotidiana degli esseri umani - pensare nel pieno senso della parola che noi  vediamo ciò che vediamo grazie all’azione unitaria e combinata di tutti e due gli occhi;  e continuiamo a vedere e a pensare come se – avendo una sola testa (e una sola bocca) – avessimo un solo occhio (un solo orecchio, una sola mano e un solo piede)! 

Ci illudiamo di essere tutti e tutte delle grandi ‘volpi’, degli eroi (Ulisse) e delle eroine (Penelope), ma in fondo stiamo solo illudendoci sulla nostra condizione: in verità,  siamo solo e ancora degli esseri umani ‘preistorici’, con un solo occhio, un solo orecchio, una sola mano, un solo piede, una sola bocca,   una sola testa, e …  un solo genere sessuale – degli esseri ciclopici, che hanno paura di aprire tutti e due gli occhi e pensare davvero con una sola testa – all’altezza del nostro presente storico! Nutriti da ‘bibliche’ e ‘platoniche’ illusioni, continuiamo a vivere come dei bambini e delle bambine che non vogliono crescere e, da millenni, a cantare il ritornello di questa ‘visione’ ballando su un solo piede (non solo a livello del senso comune, ma anche e soprattutto della scienza e della filosofia).

 

Dopo Copernico, e dopo la rivoluzione copernicana di Kant, ancora non ci siamo imbarcati e ancora non sappiamo nulla dell’esperienza della nave (cfr.: G. Galilei Dialogo sopra i due massimi sistemi) e, ovviamente, pensiamo e crediamo che ciò  (dall’essere più piccolo al più grande – in terra, in cielo, e in ogni luogo e in ogni tempo) che noi vediamo davanti a nostri occhi sia l’“oggetto” e che noi, esseri umani (dal più piccolo al più grande – in terra, in cielo, e in ogni luogo e in ogni tempo), siamo il “soggetto” e il “fondamento” di ciò che vediamo, segniamo e nominiamo, con la nostra testa  con un solo occhio, con un solo orecchio, con una sola mano, e con la nostra  mono-tona bocca  e … con il nostro unico genere sessuale – quella dell’Adamo terrestre e dell’Adamo celeste, del “dio” in terra e del “Dio” in cielo! In questo orizzonte sacrale (ateo e devoto), in cui “un uomo più una donna - come ha scritto Franca Ongaro Basaglia - ha prodotto, per secoli, un uomo”,  s’inscrive il potere della “creatività” e della “dignità dell’uomo” (Pico della Mirandola) – quella dell’Homo sapiens sapiens (Linneo, 1758), dell’ “uomo supremo” e del “dio supremo”! E questa è la “verità” del geocentrico e antropocentrico (ma più correttamente si dovrebbe dire ‘andro-pocentrico’, perché qui si parla appunto di “andro-pologia”, e di  “andr-agathia”, cioè della comunità e del dio degli “uomini valorosi”, degli “uomini virtuosi”) dello Spirito  Assoluto occidentale:  dell’”Io che è Noi, e Noi che è Io” (Hegel)!   

Ora, per capire meglio quanto premesso e, al contempo, la novità del discorso portato avanti da Garroni, conviene partire da questa sua considerazione: “Kant è sicuramente più noto come il filosofo delle “condizioni a priori dell’esperienza”, che non come il teorico della “creatività”: e, anzi, per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, svolto soprattutto nella terza Critica e negli scritti adiacenti, egli è stato più volte non del tutto correttamente interpretato o addirittura frainteso”.

Questo il cuore del problema: qui, sotto le vesti di una normale e attenta precisazione filologica, in verità, c’è una dichiarazione di portata enorme: una assunzione di coscienza e di responsabilità decisiva  per restituire a Kant  tutta la sua grandezza e a noi stessi e a noi stesse la possibilità di diventare esseri umani maggiorenni -  uscire da interi millenni di labirinto e da uno stato di minorità di lunghissima durata. E cominciare a capire, infine, quanto questa incomprensione sia stata e sia  all’origine della nostra passata e presente catastrofe culturale – la catastrofe dell’intera cultura europea.

Ciò che la considerazione di Garroni mette in evidenza è qualcosa che  generazioni e generazioni di studiosi e studiose dell’opera di Kant non hanno ancora colto nel suo pieno senso: l’aver egli inaugurato “un apriorismo di tipo nuovo, caratterizzato dall’istanza di risalire dal condizionato, dai fatti stessi, in un certo senso alle loro condizioni, adeguate e necessarie, di possibilità”, non è un divertimento scolastico di un bravo filosofo, ma l’anima e la premessa del suo progetto illuministico-critico, della sua volontà di restituire alla nostra (di ogni essere umano) “facoltà di giudizio”  tutta l’autonomia e tutta la libertà sua propria.

Ciò che traspare dal  lavoro di Garroni è, in generale, non solo una certezza, ma anche e più una salutare sollecitazione a svegliarsi e a pensare nuovamente il senso della rivoluzione copernicana di Kant. A ben rifletterci, invero, ciò significa che noi - ancora oggi - non abbiamo affatto capito che i “prolegomeni ad ogni metafisica futura che si vuole come scienza” o, che è lo stesso, i prolegomeni ad ogni scienza futura  che si vuole come metafisica,  dicono di una svolta  ancora tutta da pensare

Sul filo di indicazioni già di Luigi Scaravelli (cfr.: “Critica del capire”, e, soprattutto, “Scritti kantiani”), il grande merito e il grande contributo di Garroni sta non solo nell’aver cominciato a mettere a fuoco lo stretto legame che corre nella ricerca di  Kant,  tra il lavoro relativo all’esame delle condizioni a priori che rendono possibile l’esperienza, svolto nella Critica della ragion pura, e il lavoro svolto nella Critica del Giudizio (sulla fondamentale “facoltà di giudizio”, sia del “giudizio determinante” sia del “giudizio riflettente” e, quindi, sia sul problema della scienza e del’arte sia sul “problema della creatività” in generale).

Ma anche e soprattutto – seguendo l’indicazione di Kant - nel cominciare a  trarne le conseguenze  e nell’attivare coraggiosamente la sua propria “facoltà di giudizio”,  cominciando a porre domande su tutto – e a tutti i livelli (dagli animali agli esseri umani, dalla natura alla cultura - fuori dalle vecchio ordine e dal tradizionale codice  della “caverna” platonica e del suo rapporto soggetto-oggetto) – valorizzando contributi e ricerche di  scienziati, filosofi e, in particolare, linguisti, che hanno in qualche modo ripreso o riscoperto del tutto autonomamente elementi del programma di Kant  e, così, permesso di ricominciare a illuminare  meglio il discorso della sua Critica della facoltà del giudizio.  

 

Con Kant, infatti, Garroni comincia ad aprire tutte e due gli occhi, ricomincia a ‘vedere’ meglio, e subito, e con entusiasmo, traccia una mappa per riannodare il filo con la strada della critica e  spingersi oltre, e più a fondo! Per lui, ora, tutto comincia a diventare più chiaro, e comincia a dire quanto ha capito: ciò che ha impedito e impedisce il sorgere e “la messa a punto del  problema della creatività è uno schema epistemico assai antico, tale per cui l’unica strada praticabile per giustificare, fondare, spiegare, l’osservabile sembrava essere quella di risalire dall’osservato a “qualcosa di anteriore” che ne fornisse per somiglianza il modello. […] Si tratta – egli continua – di una categoria epistemica profonda, nel senso che è una condizione di possibilità di esplicite espressioni culturali (quasi un’episteme, nel senso di Foucault) ed investe l’orientamento complessivo delle strutture sociali e individuali, non soltanto la loro dimensione intellettuale”. E la sua struttura portante sta “in quella concezione – che viene detta “referenzialismo” – del “segno” come “rappresentante delle “cose”, con la mediazione di stati rappresentativi interni […] E’ una concezione antichissima, che nasce probabilmente dalla primitiva concezione ontologica del linguaggio (la parola come l’essenza stessa: così che il possesso della parola permetteva il controllo magico della cosa) e risale nella sua forma classica soprattutto ad Aristotele”.

 

Kant è il punto di svolta: le condizioni di possibilità della conoscenza non vengono “più ricercate in qualcosa di preesistente, in un modello ontologico ideale, o in un luogo di modelli ideali, che – soli – consentono di parlare del mondo reale come appare e come è conosciuto”.  Ciò che ancora non abbiamo capito è che Kant va alla radice e ci porta fuori del vecchio programma centrato sul “come conosciamo”: il suo problema – come è possibile la conoscenza scientifica (e non)? –  è la risposta più radicale, e più adeguata, all’altezza della nuova Terra e del nuovo Cielo, scoperti dalla nuova fisica, e alla navigazione dell’umanità nell’“oceano celeste” (Keplero a Galilei, 1611).

Garroni comincia a capire meglio il senso del  problema di Kant, quanto e come il programma critico-trascendentale sia in continuità con le tensioni del nostro presente, con le ricerche del nostro tempo, con l’acquisizione che “la conoscenza sia – a partire da certe condizioni preliminari di carattere generalissimo (condizioni e non modelli dunque) – una costruzione entro certi limiti “arbitrari” e quindi “creativa”, come lo è per l’epistemologia moderna”.  

La conferma di questo legame strettissimo, Garroni lo ritrova in molti protagonisti della ricerca scientifica in tutti i campi (dall’etologia alla linguistica e alla filosofia), ma è con Chomsky e da Chomsky, che più e meglio il discorso sul problema  della creatività e “l’avvicinamento a Kant” fa un salto di qualità. E, con l’aiuto degli studi linguistici di Noam Chomsky, di Francesco Antinucci, di Tullio De Mauro, e  il contributo (del tutto convincente”) di Wolfram Hogrebe (“Kant e il problema di una semantica trascendentale”, 1974  - opera tradotta in italiano, col titolo dimezzato e mimetizzato: “Per una semantica  trascendentale”, con prefazione di Emilio Garroni, Officina edizioni, Roma 1979),  riesce a portarsi “al di là del linguaggio” e oltre  gli stretti confini dello linguistica (così precisando, in parentesi: “Si intende al di là del linguaggio, non nell’aldilà   della speculazione”)  e così, con grande lucidità e consapevolezza, a trovare il varco per accedere in modo nuovo  all’interno dell’orizzonte kantiano.    

Compresa con Chomsky  tutta l’importanza della distinzione tra la creatività sotto un codice dato (la “rule-governed creativity”) e la creatività “nel senso pieno del termine” (la “rule-changing creativity”), si rende  - sulla spinta dei contributi di Antonucci e De Mauro -  di quanto e di come sia necessario portare  il problema oltre la chomskiana “struttura profonda”, “in quanto struttura già linguistica”, in una struttura intesa “non più come qualcosa di linguisticamente omogeno, quanto piuttosto come un dispositivo eterogeneo, linguistico e non-linguistico, per esempio anche intellettuale e psicologico”, e così scrive e precisa: “In altre parole,  si tratta  non di una presa di posizione antichomskiana, o più in generale antigenerativa, ma di un suo approfondimento ulteriore, che tende a portare al di là del linguaggio. (Si intende al di là del linguaggio, non nell’aldilà della speculazione)”. E a questo punto,  con il conforto e e la spinta del contributo di  Hogrebe, la via a e di Kant è riaperta e ripresa!  Non è che l’inizio: Kant è ancora tutto da rileggere, a partire dalla “Storia universale della natura e teoria del cielo” e dai “Sogni di un visionario spiegati con i sogni della metafisica” (Per prosecuzione del discorso e per approfondimenti, mi sia consentito, si cfr.:  LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”).

 

P. S.

A WOLFRAM  HOGREBE, IN ONORE. Una citazione:   

 

 “E’ solo con Kant – scrive Hogrebe -  che emerse veramente ciò che può essere definito un problema della costituzione; il problema cioè di fornire una serie di regole e di definirle come il quadro nell’ambito del quale sono in generale empiricamente possibili le operazioni cognitive. [….]  Per Kant sono “costitutivi” soltanto i principi che garantiscono un uso di volta in volta determinato delle categorie (intelletto teoretico), delle idee (ragione pratica) e delle finalità (Giudizio estetico). Ciò significa che questi principi e le regole della loro applicazione stabiliscono a priori  il quadro trascendentale di significato nell’ambito del quale soltanto è possibile conoscere scientificamente, volere moralmente e giudicare esteticamente in modo empiricamente comprensibile”.

 

“A questo riguardo –  continua Hogrebe – va rilevato però che Kant non indica mai come costitutive le categorie (com invece sostiene la maggior parte dei dizionari) ma solo le regole del loro uso oggettivo. Essenziale, dal punto di vista della storia del concetto è, al di là della svolta logico-trascendentale del concetto di costituzione, la nuova contrapposizione “costitutivo-regolativo” introdotta da Kant, la quale caratterizza il potenziale critico della sua filosofia”.  E, poco oltre, continuando,  precisa ancora: “Poiché la distinzione kantiana tra un carattere funzionale (Leistungscharakter ) “costitutivo” ed uno “regolativo” dei principi e delle regole della loro applicazione è legata in ultima analisi alla distinzione tra un “giudizio determinante” ed un “giudizio riflettente”, l’opposizione “costitutivo-regolativo” diviene superflua laddove venga attaccata o rifiutata la differenziazione della Facoltà del giudizio, o, a fortiori, questa stessa Facoltà. Così l’opposizione “costitutivo-regolativo” scompare proprio presso i maggiori pensatori dell’idealismo tedesco. Fichte, Schelling e Hegel non fanno uso di tale opposizione né del termine “costitutivo” con intenti che siano rilevanti da un punto di vista sistematico” (W. Hogrebe, Kant und das Problem einer transzendentalen Semantik, Freiburg/Munchen 1974;  trad. ital.: W. Hogrebe, Per una semantica trascendentale, con prefazione di Emilio Garroni, Officina Edizioni, Roma 1979,  pp. 15-16, senza le note) .  

 

Federico La Sala

 



Domenica 17 Ottobre,2010 Ore: 16:06
 
 
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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 25/3/2012 15.20
Titolo:Epistemic Injustice. «Changing the Ideology and Culture of Philosophy»
Sebben che siamo donne non ci fa paura la filosofia

Il «pensiero femminile» è socialmente discriminato: un condizionamento negativo

La “rabbia” di una filosofa americana del Mit: in questo campo siamo discriminate, molte di noi costrette a lasciare

di Franca D’Agostini (La Stampa, 25.03.2012)

Sally Haslanger è una delle più brillanti filosofe americane: in un articolo su Hypathia confessa che da quanto è arrivata al Mit, nel ’98, si è più volte domandata se non fosse il caso di lasciare la filosofia “C’ è in me una rabbia profonda. Rabbia per come io sono stata trattata in filosofia. Rabbia per le condizioni ingiuste in cui molte altre donne e altre minoranze si sono trovate, e hanno spinto molti a lasciare. Da quando sono arrivata al Mit, nel 1998, sono stata in costante dialogo con me stessa sull’eventualità di lasciare la filosofia. E io sono stata molto fortunata. Sono una che ha avuto successo, in base agli standard professionali dominanti». S’inizia così «Changing the Ideology and Culture of Philosophy», un articolo di Sally Haslanger, una delle più brillanti filosofe americane, apparso su Hypathia .

C’è un problema, che riguarda le donne e la filosofia: inutile negarlo. «Nella mia esperienza è veramente difficile trovare un luogo in filosofia che non sia ostile verso le donne e altre minoranze», scrive Haslanger. E se capita così al Mit, potete immaginare quel che succede in Italia. È facile vedere che, mentre in tutte le facoltà le donne iniziano a essere presenti (anche se rimane il cosiddetto «tetto di cristallo», vale a dire: ai gradi accademici più alti ci sono quasi esclusivamente uomini), in filosofia la presenza femminile scarseggia.

Non sarà forse che le donne sono refrattarie alla filosofia, non la capiscono, non la apprezzano? Stephen Stich e Wesley Buchwalter, in «Gender and Philosophical Intuition» (in Experimental Philosophy, vol. 2), hanno riproposto il problema, esaminandolo nella prospettiva della filosofia sperimentale: una tendenza filosofica emergente, che mette in collegamento le tesi e i concetti filosofici con ricerche di tipo empirico (statistico, neurologico, sociologico, ecc). La prima conclusione di Stich e Buchwalter è che effettivamente sembra esserci una «resistenza» del «pensiero femminile» di fronte ad almeno alcuni importanti problemi filosofici. Stich e Buchwalter si chiedono perché, e avanzano alcune ipotesi, ma non giungono a una conclusione definitiva.

Le femministe italiane di Diotima avrebbero pronta la risposta: la filosofia praticata nel modo previsto da Stich e compagni è espressione estrema del «logocentrismo» maschile, dunque è chiaro che le donne non la praticano: sono interessate a qualcosa di meglio, coltivano un «altro pensiero». Ma qui si presenta un classico problema: in che cosa consisterebbe «l’altro pensiero» di cui le donne sarebbero portatrici? Se si tratta per esempio di «pensiero vivente», attento alle emozioni e alla vita, come a volte è stato detto, resta sempre da chiedersi: perché mai questo pensiero sarebbe proprio delle donne? Kierkegaard, che praticava e difendeva una filosofia di questo tipo, era forse una donna?

Forse si può adottare un’altra ipotesi. Come spiega Miranda Fricker in Epistemic Injustice (Oxford University Press, 2007) le donne subiscono spesso ciò che Ficker chiama ingiustizia testimoniale, vale a dire: ciò che pensano e dicono viene sistematicamente sottovalutato e frainteso. Un’osservazione fatta da una donna che gli uomini non capiscono, per ignoranza o per altri limiti, viene all’istante rubricata come errore, o come vaga intuizione. Fricker cita Il talento di Mr. Ripley: «Un conto sono i fatti, Marge, e un conto le intuizioni femminili», dice il signor Greenleaf. Ma Marge aveva ottime ragioni nel sostenere che Ripley aveva ucciso il figlio di Greeenleaf.

In questa prospettiva il quadro muta. Consideriamo la rilevazione dell’attività cerebrale di un ragazzo e una ragazza che svolgono una prestazione intellettuale «di livello superiore», ossia risolvono per esempio un’equazione difficile. A quanto pare, mentre il cervello del ragazzo si illumina in una sezione molto circoscritta dell’emisfero frontale, il cervello della ragazza si illumina in modo diffuso, diverse zone dell’encefalo sono coinvolte. Ecco dunque la differenza emergere dai fatti cerebrali: le donne - così si dice - avrebbero un’intelligenza aperta e «diffusa». Naturalmente, questa diffusività è un limite: è appunto la ragione per cui le prestazioni intellettuali femminili sarebbero meno rapide ed efficaci. L’ipotesi differenzialista a questo punto ribatte: attenzione, l’intelligenza diffusa è un pregio, ed è il mondo che privilegia rapidità ed efficacia a essere sbagliato.

Ma l’altra ipotesi - che tanto Haslanger quanto Fricker indirettamente sostengono - sembra più ragionevole: se c’è un «pensiero femminile», la sua prima caratteristica consiste nell’essere un pensiero socialmente discriminato, che subisce sistematicamente ingiustizie testimoniali. Il cervello discriminato è coinvolto sul piano emotivo, a causa del grande quantitativo di ingiustizia che ha dovuto subire. E a questo punto il mistero è risolto: provate voi a risolvere un difficile problema filosofico in un ambiente in cui tutto vi dice che non sapete risolverlo. Provate, in più, avendo dentro di voi la rabbia descritta da Haslanger: quella che vi viene dal conoscere questa ingiustizia, che riguarda voi ma anche altre persone, e altre minoranze discriminate (anche tra i neri non ci sono molti filosofi). Poi vedete un po’ se non vi si illumina tutto il cervello.

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