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www.ildialogo.org IL "DIO" DEI MERCANTI E IL SILENZIO DEI FILOSOFI (OLTRE CHE DEI TEOLOGI). «Agàpe eros e philia» nell'orizzonte ratzingeriano. L'intervento di Vincenzo Paglia al festival di filosofia di Modena - con note,a c. di Federico La Sala

FILOLOGIA E TEOLOGIA. LA ’CROCE’ (lettera alfabeto greco = X = "CHI") DI CRISTO NON HA NIENTE A CHE FARE CON IL CROCIFISSO DELLA TRADIZIONE COSTANTINIANA E CATTOLICO-ROMANA. "Se mi sbalio, mi coriggerete" (Giovanni Paolo II)- 
IL "DIO" DEI MERCANTI E IL SILENZIO DEI FILOSOFI (OLTRE CHE DEI TEOLOGI). «Agàpe eros e philia» nell'orizzonte ratzingeriano. L'intervento di Vincenzo Paglia al festival di filosofia di Modena - con note

AGAPECHARITAS. "(...) un amore che non si nutre della mancanza dell’altro (eros) e che nemmeno semplicemente si rallegra della presenza dell’altro (philia), ma un amore, appena concepibile dalla ragione umana, che trova il suo modello culminante in Gesù: un amore per gli altri totalmente disinteressato, gratuito, perfino ingiustificato, perché continua ad agire - ed è il meno che si possa dire - al di fuori d’ogni reciprocità".


a c. di Federico La Sala

 

TEOLOGIA E FILOLOGIA. Note preliminari sul tema:

CHARISSIMI, NOLITE OMNI SPIRITUI CREDERE... DEUS CHARITAS EST (1Gv., 4, 1-8). CARISSIMI, NON CREDETE A OGNI SPIRITO... DIO E' AMORE PIENO DI GRAZIA [gr.:"CHARIS"].

LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!

OBBEDIENZA CIECA: TUTTI, PRETI, VESCOVI, E CARDINALI AGGIOGATI ALLA "PAROLA" DI PAPA RATZINGER ("DEUS CARITAS EST", 2006). Materiali per riflettere

"Di quale Dio parliamo quando parliamo di Dio, e di quale Dio parlano quando parlano di Dio? La domanda è cruciale. Infatti non è per niente chiaro, non è sempre lo stesso, e sovente non è un Dio innocuo" (Raniero La Valle)

DUE PAPI IN PREGHIERA: MA CHI PREGANO?! Bergoglio incontra Ratzinger: "Siamo fratelli". Ma di quale famiglia?! Un resoconto dell’incontro, con note (fls)

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«agàpe eros e philia»

Il festival emiliano esplora il sentimento. Anticipiamo l’intervento di Vincenzo Paglia

Tre nomi per chiamare l’amore (e l’ultima parola non è di Eros)

Al vertice di tutto sta l’«agàpe», il suo modello è Gesù

di Vincenzo Paglia sacerdote, consulente spirituale della comunità di Sant’Egidio, presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia  (Corriere della Sera, 15.09.2013)

In un mondo segnato così profondamente dalla paura e dalla solitudine, e lacerato da conflitti bellici o di civiltà, l’amore resta l’unica via per immaginare un nuovo futuro. Si potrebbe dire: è il tempo dell’«agàpe», il tempo dell’amore per gli altri e non solo per se stessi. Appunto, un amore «agapico». Agàpe, una parola greca, fu scelta dagli autori del Nuovo Testamento per descrivere l’amore di Gesù. In quel tempo non era quasi per nulla usata poiché la cultura greca per dire l’amore preferiva i termini eros e philia.

Gli autori sacri con il termine agape introducevano una nuova e impensata concezione dell’amore: un amore che non si nutre della mancanza dell’altro (eros) e che nemmeno semplicemente si rallegra della presenza dell’altro (philia), ma un amore, appena concepibile dalla ragione umana, che trova il suo modello culminante in Gesù: un amore per gli altri totalmente disinteressato, gratuito, perfino ingiustificato, perché continua ad agire - ed è il meno che si possa dire - al di fuori d’ogni reciprocità.

È davvero un amore fuori regola, fuori norma. L’apostolo Paolo nella Lettera ai Romani afferma: «A stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto; forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. Ma Dio dimostra il suo amore per noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi»( Rm 5, 7-8).

Con il termine agàpe si esprime quindi un amore impensabile per la ragione se Dio stesso non lo avesse rivelato. L’agàpe è infatti l’essere stesso di Dio. Quindi è l’essere stesso Dio a spingerlo a uscire da sé per scendere in mezzo agli uomini.

L’incarnazione è un mistero centrale nella fede cristiana. Essa si differenzia da tutte le altre fedi perché, più che una religione che divinizza l’uomo, è la religione di un Dio che per amore si fa uomo. Non solo, quest’uomo accetta anche di essere crocifisso, e per amore. Nella «croce» appare il culmine dell’amore con la sua vittoria definitiva sull’egoismo.

Semiòn Frank, filosofo russo, scrive: «L’idea di un Dio disceso nel mondo, che soffre volontariamente e prende parte alle sofferenze umane e cosmiche, l’idea di un Dio-uomo che soffre, è la sola teodicea possibile, la sola "giustificazione" convincente di Dio». Qui vi è tutta l’originalità dell’agàpe, tutta la sua paradossalità, e soprattutto la sua forza irresistibile: l’agàpe è la risorsa più forte per edificare un mondo nuovo liberato dalla legge inesorabile dell’amore per sé. (...)

L’agàpe, culmine dell’amore, non elimina l’eros e la philia, non le accantona, se così posso dire, semmai le purifica dalle ambiguità e le esalta per una loro dinamica positiva. Nella cultura greca, eros era concepito come un dio senza volto, una sorta di divinità originaria, un principio di vita potente che strappa dalla vita quotidiana producendo una discontinuità inimmaginata nella vita di chi ne viene coinvolto. La discontinuità si presenta improvvisa, non è né progettata né voluta, e spinge con prepotenza l’amante ad annullarsi nell’amato, sia nella prospettiva esaltante della luce che nell’altra, anch’essa ugualmente esaltante, della morte.

In ogni caso, al di là degli esiti, eros è una energia originaria che strappa via dalla casa abituale, dalla vita ordinaria. Non a caso Platone, nel Simposio, lo definisce a-oikos, senza casa. Il grande pericolo che eros fa correre è perciò quello di essere strappati via da ogni sede, da ogni dimora, da ogni casa, senza un approdo che sia stabile.

Da un punto di vista non teologico cristiano, eros è pura avventura, come lo rappresentano le grandi figure, i grandi miti della contemporaneità: l’Ulisse dantesco, il Faust, il Don Giovanni, sono tutte figure che mollano gli ormeggi, perché che nessuna casa può contenerli. Ma eros da solo, senza un orizzonte, non basta. In sintesi, potremmo dire, che tutti abbiamo pulsioni d’amore, tutti sentiamo spinte ad amare o sentimenti d’amore che ci muovono, ma - è papa Ratzinger a scriverlo nell’enciclica Deus caritas est - «i sentimenti vanno e vengono. Il sentimento può essere una meravigliosa scintilla iniziale, ma non è la totalità dell’amore».

La philia - che traduciamo normalmente con «amicizia» - esprime un’altra dimensione ancora dell’amore. Ordinariamente viene pensata come una forma attenuata dell’amore, un sentimento più debole, meno impegnativo, meno esigente, casto per di più, segno di una innegabile limitatezza!

Molto meno cantata dell’amore, la philia è tuttavia non meno protagonista nella vicenda umana. Un bell’esempio di philia lo rileviamo nella triplice domanda d’amore di Gesù a Pietro dopo la risurrezione, quando lo interroga sull’amore. Gesù chiede al discepolo: «Mi ami?» (phileis me?). Qui non è l’eros che parla, ma un sentimento che chiede una compartecipazione stretta, duratura, perenne. È come se gli chiedesse: «Sei veramente mio, mi appartieni, ci co-apparteniamo?» Nella philia i due - e questa è la differenza fondamentale con eros - rimangono tali, non vi è una dinamica identitaria, non si risolvono in uno. I philoi sono inseparabili, ma tale appartenenza non impedisce loro di sussistere come tali nella propria identità. Anzi, sussistono perché «stanno bene insieme». Semmai, il rischio in tale dinamica è l’appagamento nella coappartenenza, una sorta di piacevole ma rischiosa chiusura.

Ed ecco l’agàpe che supera ambedue, senza tuttavia escluderle. In effetti, con la parola agàpe si entra nella logica di stampo trinitario ove non c’è l’annullamento nell’altro e neppure la coappartenenza. C’è di più: la generazione di un altro nel circolo dell’amore.

La raffigurazione emblematica dell’agàpe è l’icona della Trinità di Rublev, con i tre angeli attorno alla mensa. Agàpe è la relazione Padre-Figlio, così come Gesù la testimonia, che implica come terzo elemento quella relatio non adventitia di cui parla Agostino. La relazione tra le prime due persone, infatti, distinte e tuttavia filoi nel modo più profondo ed essenziale, obbliga a pensare la Relazione stessa come una terza figura. L’agàpe comporta una trascendenza tra i due che è appunto la «Relazione» stessa nella sua eternità, nella sua necessità. L’agàpe è interna a questa dialettica dei due e insieme li trascende entrambi. Amante e amato si trascendono in un terzo: che è la loro «relazione». Questa è agape nel linguaggio neotestamentario e nella teologia cristiana. Il suo nome è Spirito Santo e la sua azione è sconvolgente.



Martedì 17 Settembre,2013 Ore: 17:58
 
 
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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 17/9/2013 18.14
Titolo:C’era una volta un’Acca....
L’Acca in fuga

- di Gianni Rodari

- C’era una volta un’Acca.

- Era una povera Acca da poco: valeva un’acca, e lo
- sapeva. Perciò non montava in superbia, restava
- al suo posto e sopportava con pazienza le beffe
- delle sue compagne.
- Esse le dicevano:

- E così, saresti anche tu una lettera dell’alfabeto?
- Con quella faccia?

- Lo sai o non lo sai che nessuno ti pronuncia?

- Lo sapeva, lo sapeva. Ma sapeva anche che all’estero ci
- sono paesi, e lingue, in cui l’acca ci fa la sua figura.

- " Voglio andare in Germania, - pensava l’Acca,
- quand’era più triste del solito. - Mi hanno detto
- che lassù le Acca sono importantissime ".

- Un giorno la fecero proprio arrabbiare. E lei, senza
- dire né uno né due, mise le sue poche robe in un
- fagotto e si mise in viaggio con l’autostop.

- Apriti cielo! Quel che successe da un momento
- all’altro, a causa di quella fuga, non si può
- nemmeno descrivere.

- Le chiese, rimaste senz’acca, crollarono come sotto i
- bombardamenti. I chioschi, diventati di colpo troppo
- leggeri, volarono per aria seminando giornali, birre,
- aranciate e granatine in ghiaccio un po’ dappertutto.

- In compenso, dal cielo caddero giù i cherubini:
- levargli l’acca, era stato come levargli le ali.

- Le chiavi non aprivano più, e chi era rimasto
- fuori casa dovette rassegnarsi a dormire all’aperto.

- Le chitarre perdettero tutte le corde e suonavano
- meno delle casseruole.

- Non vi dico il Chianti, senz’acca, che sapore
- disgustoso. Del resto era impossibile berlo, perché
- i bicchieri, diventati " biccieri", schiattavano in
- mille pezzi.

- Mio zio stava piantando un chiodo nel muro, quando
- le Acca sparirono: il "ciodo" si squagliò sotto il
- martello peggio che se fosse stato di burro.

- La mattina dopo, dalle Alpi al Mar Jonio, non
- un solo gallo riuscì a fare chicchirichi’: facevano
- tutti ciccirici, e pareva che starnutissero.
- Si temette un’epidemia.

- Cominciò una gran caccia all’uomo, anzi, scusate,
- all’Acca. I posti di frontiera furono avvertiti di
- raddoppiare la vigilanza. L’Acca fu scoperta nelle
- vicinanze del Brennero, mentre tentava di entrare
- clandestinamente in Austria, perché non aveva
- passaporto. Ma dovettero pregarla in ginocchio: Resti
- con noi, non ci faccia questo torto! Senza di lei, non
- riusciremmo a pronunciare bene nemmeno il nome di
- Dante Alighieri. Guardi, qui c’è una petizione degli
- abitanti di Chiavari, che le offrono una villa al mare.
- E questa è una lettera del capo-stazione di
- Chiusi-Chianciano, che senza di lei
- diventerebbe il capo-stazione di Ciusi-Cianciano:
- sarebbe una degradazione

- L’Acca era di buon cuore, ve l’ho già detto. È rimasta,
- con gran sollievo del verbo chiacchierare e del pronome
- chicchessia. Ma bisogna trattarla con rispetto,
- altrimenti ci pianterà in asso un’altra volta.

- Per me che sono miope, sarebbe gravissimo: con
- gli "occiali" senz’acca non ci vedo da qui a lì.
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 17/9/2013 20.49
Titolo:LA "CHARITAS" E IL TUTORAGGIO DI PAOLO DI TARSO....
PAOLO DI TARSO, L’ASTUTO APOSTOLO DELLA GRAZIA ("CHARIS") E DELL’ AMORE ("CHARITAS"), E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO-ROMANO! UNA NOTA

di Federico La Sala *

(...) non equivochiamo! Qui non siamo sulla via di Damasco, nel senso e nella direzione di Paolo di Tarso, del Papa, e della Gerarchia Cattolico-Romana: “[... ] noi non siamo più sotto un pedagogo. Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Galati: 3, 25-28).
- Nella presa di distanza, nel porsi sopra tutti e tutte, e nell’arrogarsi il potere di tutoraggio da parte di Paolo, in questo passaggio dal noi siamo al voi siete, l’inizio di una storia di sterminate conseguenze, che ha toccato tutti e tutte. Il persecutore accanito dei cristiani, “conquistato da Gesù Cristo”, si pente - a modo suo - e si mette a “correre per conquistarlo” (Filippesi: 3, 12): come Platone (con tutto il carico di positivo e di negativo storico dell’operazione, come ho detto), afferra l’anima della vita evangelica degli apostoli, delle cristiane e dei cristiani, approfittando delle incertezze e dei tentennamenti di Pietro, si fa apostolo (la ‘donazione’ di Pietro) dei pagani e, da cittadino romano, la porta e consegna nelle mani di Roma. Nasce la Chiesa ... dell’Impero Romano d’Occidente (la ‘donazione’ di Costantino). La persecuzione dei cristiani, prima e degli stessi ebrei dopo deve essere portata fino ai confini della terra e fino alla fine del mondo: tutti e tutte, nella polvere, nel deserto, sotto l’occhio del Paolo di Tarso che ha conquistato l’anima di Gesù Cristo, e la sventola contro il vento come segno della sua vittoria... Tutti e tutte sulla romana croce della morte.

Egli, il vicario di Gesù Cristo, ha vinto: è Cristo stesso, è Dio, è il Dio del deserto... Un cristo-foro dell’imbroglio e della vergogna - con la ‘croce’ in pugno (e non piantata nella roccia del proprio cuore, come indicava Gesù) - comincia a portare la pace cattolico-romana nel mondo. Iniziano le Crociate e la Conquista. Il Dio lo vuole: tutti i popoli della Terra vanno portati nel gelo eterno - questo è il comando dei Papi e dei Concili, cioè delle massime espressioni dell’intelligenza astuta (quella del Dio di Ulisse e della vergine Atena, non del Dio di Giuseppe e di Maria) del Magistero della Chiesa, alle proprie forze armate... fino a Giovanni Paolo II, al suo cardinale Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, e alla Commissione teologica internazionale, che ha preparato il documento “Memoria e riconciliazione: la Chiesa e le colpe del passato”.

Uno spirito e un proposito lontano mille miglia, e mille anni prima di Cristo, da quello della “Commissione per la verità e la riconciliazione”, istituita in Sudafrica nel 1995 da Nelson Mandela, per curare e guarire le ferite del suo popolo. Il motto della Commissione bello, coraggioso, e significativo è stato ed è: “Guariamo la nostra terra”!

*

Si cfr.: Federico La Sala, L’enigma della Sfinge e il segreto della Piramide, Ripostes, Roma-Salerno 2001, pp.23-25.
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 18/9/2013 09.04
Titolo:GESU' E "GESU"!!! Due note ....
"È significativo che l’espressione di Tertulliano: "Il cristiano è un altro Cristo", sia diventata: "Il prete è un altro Cristo"" (Albert Rouet, arcivescovo di Poitiers, 2010).

______________________________________________________________________

Gesù del messaggio evangelico

- Marco 7,31-37:

- Di ritorno dalla regione di Tiro, passò per Sidone, dirigendosi verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli.
- E gli condussero un sordomuto, pregandolo di imporgli la mano.
- E portandolo in disparte lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e disse: «Effatà» cioè: «Apriti!».
- E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente.
- E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo raccomandava, più essi ne parlavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa; fa udire i sordi e fa parlare i muti!».
"Gesù" del cattolicesimo-romano

***

James Joyce, Finnegans Wake:

"He lifts the lifewand and the dumb speak
- Quoiquoiquoiquoiquoiquoiquoiq"

"Egli brandisce la bacchetta della vita e i muti parlano
- Quoiquoiquoiquoiquoiquoiquoiq" *

Variazioni (mie, fls):

Quàquàquàquàquàquàquàquàquàq
Quoìquoìquoìquoìquoiquoiquoìq...

* Cfr.: James Joyce, Finnegans Wake, Libro Primo V-VIII, Oscar Mondadori, Milano 2001, pp. 195-195 bis.
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 18/9/2013 09.40
Titolo:ROUSSEAU, KANT, E L'ASTUTA MEDIAZIONE DEL "MENTITORE" DEVOTO E ATEO
Liberali, laici e credenti

di Pawel Gaiewski

in “Riforma” - settimanale delle Chiese Evangeliche Battiste Metodiste e Valdesi - del 20 settembre 2013

Il carteggio Scalfari-Bergoglio è già entrato nella storia del pensiero contemporaneo e ho l’impressione che presto leggeremo un instant book contenente l’intera documentazione. Si tratta in ogni caso di un’operazione mediatica senza precedenti. È stato il fondatore del quotidiano La Repubblica con il suo editoriale del 7 luglio ad aprire il dibattito sull’enciclica Lumen Fidei . Dopo un mese esatto Eugenio Scalfari pubblicava nuovamente un testo particolarmente denso, ponendo «al papa gesuita» tre domande «da illuminista» circa la possibilità di salvezza di un non credente, l’assolutezza della verità e il concetto di Dio, inteso come proiezione della mente umana.

Le risposte del papa dovevano dunque arrivare e ovviamente i tempi sono stati calcolati perfettamente: la lettera è datata 4 settembre ed è stata pubblicata esattamente una settimana più tardi. Per dovere di cronaca è giusto segnalare che ad agosto c’è stato anche uno scambio epistolare tra il pastore Peter Ciaccio ed Eugenio Scalfari (si può leggere all’indirizzo Internet http://vociprotestanti . it/2013/08/11/la-risposta-di-eugenioscalfari- al-pastore-peter-ciaccio/).

La risposta di Francesco contiene elementi inediti per un papa ma ben elaborati da altre scuole del pensiero cristiano finora non molto apprezzate dal Vaticano: teologia femminista, teologia della liberazione, teologia del pluralismo religioso. Si tratta prima di tutto della problematizzazione dell’assolutezza della verità a favore della sua dimensione relazionale e del primato della coscienza individuale e di conseguenza della possibilità di salvarsi aperta a chi non crede o crede «diversamente». Entrambi gli argomenti nella teologia contemporanea sono oggetti di un dibattito che è ancora lontano da qualunque conclusione definitiva. La coscienza intesa nel senso della Critica della ragion pratica di Immanuel Kant è un tema caro anche a chi si professa agnostico o ateo.

Chi invece legge la lettera del papa attraverso la lente del pensiero protestante non può che apprezzare l’enfasi sull’amore salvifico e la chiara impostazione cristocentrica dell’intero ragionamento che rasentano i Sola Gratia e Solus Christus della Riforma.

La dimensione in cui bisogna collocare in ogni caso sia la lettera di Bergoglio a Scalfari sia l’enciclica Lumen fidei (redatta, di fatto, dalla coppia Ratzinger-Bergoglio) non è quella del confronto con il pensiero protestante. Il vero problema è l’illuminismo; l’enfasi sulla luce non è casuale.

Tra le pieghe di questo documento, precisamente nel paragrafo 14, il documento critica la celebre esclamazione contenuta nell’ Émile di Jean-Jacques Rousseau: «Quanti uomini tra Dio e me!». Ecco la frase con cui l’enciclica commenta il pensiero del filosofo illuminista: «A partire da una concezione individualista e limitata della conoscenza non si può capire il senso della mediazione».

Non mi sembra giusto attribuire a Rousseau «una concezione limitata della conoscenza» e ravviso in questo atteggiamento intellettuale una notevole distanza tra le posizioni protestanti e quelle di Ratzinger e Bergoglio. Qualunque forma di mediazione nel rapporto tra Dio e l’essere umano è stata respinta con forza dalla Riforma. Successivamente il motto ginevrino Post tenebras lux e il nostro valdese Lux lucet in tenebris sono stati elaborati in chiave illuminista, dando luogo a un cristianesimo dialogante e accogliente.

Grazie all’influsso del pensiero illuminista le nostre chiese si impegnano oggi per la totale neutralità confessionale dello Stato e delle sue istituzioni, invocando con convinzione gli stessi diritti e doveri per tutte le comunità di fede. In tutto questo siamo «orgogliosamente liberali», parafrasando il succo del discorso tenuto dal moderatore Eugenio Bernardini alla fine dell’ultimo Sinodo. Liberali e laici ma al tempo stesso credenti che annunciano con convinzione Gesù Cristo.

È una cosa che Scalfari e i cosiddetti laici italiani sembrano non comprendere. Scalfari nel suo articolo del 7 agosto (quello contestato dal pastore Peter Ciaccio) liquida il protestantesimo con la seguente definizione: «sette luterane che non hanno impedito la laicizzazione anzi ne hanno favorito l’espansione».

Nel suo commento alla lettera di Francesco, pubblicato il 12 settembre, pur citando l’inizio del Vangelo secondo Giovanni, il nestore del giornalismo italiano esprime una sorta di speranza quasi escatologica concentrata sulla persona di questo papa. Non metto in discussione che Francesco sia un ottimo pastore d’anime e un eccellente comunicatore. La sua empatia è profonda.

Mi preoccupa soltanto il Solus Franciscus che comincia a diffondersi dentro e fuori della Chiesa cattolica romana.
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 02/10/2013 22.53
Titolo:VINCENZO PAGLIA E LA FAMIGLIA del Pontificio Consiglio ...
UN CONVEGNO IN VATICANO DENUNCIA LE FAMIGLIE “SINTETICHE”, «FRUTTO DI UNA SOCIETÀ MALATA»

Adista Notizie n. 34 del 05/10/2013

37314. CITTÀ DEL VATICANO-ADISTA. Proprio mentre su Civiltà cattolica veniva pubblicata la lunga intervista a Bergoglio (vedi notizia su questo numero) nella quale il papa lascia intravedere non un aggiornamento della dottrina ma sicuramente un atteggiamento pastorale meno rigido e più inclusivo nei confronti di divorziati ed omosessuali, in Vaticano (dal 19 al 21 settembre) si svolgeva il Convegno internazionale “I diritti della famiglia e le sfide del mondo contemporaneo” durante il quale di quella prassi più accogliente non si è vista traccia. Anzi alcuni interventi – in particolare quelli di mons. Vincenzo Paglia, presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia, e di Francesco D’Agostino, già presidente del Comitato nazionale di bioetica e ora al vertice dell’Unione giuristi cattolici italiani –, oltre a ribadire per filo e per segno i capisaldi dei «principi non negoziabili», hanno mostrato una durezza inusitata.

Mons. Paglia, auspicando la redazione di una Carta internazionale dei diritti della famiglia – sul modello della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 – ha messo in guardia contro gli «attacchi violentissimi» e le «usurpazioni» cui è sottoposta la «famiglia naturale» composta da un uomo e una donna, fondata sul matrimonio e finalizzata alla procreazione. Un allarme – ha precisato il presidente del Pontificio Consiglio per la famiglia – a cui devono prestare particolare attenzione i Parlamenti e i governi, affinché i processi legislativi non siano inficiati «da pregiudizi ideologici» e «da lobbies che portano avanti interessi di parte». Non lo dice apertamente mons. Paglia, ma è indubbio l’altolà contro ogni tentazione di regolare giuridicamente le unioni civili, sia eterosessuali sia, soprattutto, omosessuali.

«Famiglia sintetica» è invece l’espressione coniata da D’Agostino per definire tutte le famiglie non tradizionali: «Un modo di pensare la famiglia che non è più in grado di percepirne la naturalità e l’universalità», ha detto l’ex presidente del Comitato di bioetica, «perché la percepisce unicamente come costruzione sociale». La famiglia sintetica non è un’unione solida che pensa al futuro, ma assomiglia «ad una macchina, assemblata in base a un progetto, ma le cui parti costitutive potrebbero, ad libitum, essere smontate e rimontate e comunque riutilizzate per costruire un altro meccanismo». «Quando i rapporti sintetici si estinguono – ha proseguito –, di essi può restar traccia nella memoria, individuale o collettiva, ma in essa soltanto; sotto ogni altro profilo della famiglia sintetica non resta nulla, perché di essa non deve restar nulla, perché è proprio per questo che essa è stata pensata e voluta».

Per illustrare meglio la sua idea di famiglia, D’Agostino ha scelto una metafora letteraria: «La mia tesi – spiega – è che la famiglia naturale ha una radice mentre quella sintetica ha una radice romantica», precisando però «che lo spirito romantico è uno spirito malato». «Il infatti – ha argomentato D’Agostino, che insegna anche alla Pontificia Università Lateranense di Roma, facendo ricorso a una serie di immagini ormai ampiamente superate anche dai manuali di storia della letteratura utilizzati dagli studenti delle scuole superiori – è amore per la luce, la serenità, l'ordine, il logos, la compostezza, l'autocontrollo, l’impegno, la fedeltà, la bellezza; non subisce il fascino, né meno che mai la tentazione dell’orrido; odia l'irrequietudine, la sproporzione, l'oscurità, la contraddizione, ogni forma di patetismo, l'irrazionalità, la stravaganza, il tradimento». Il romanticismo, ovviamente, l’esatto contrario. E di conseguenza la «famiglia sintetica», che è «intrinsecamente romantica», «non si fonda su di un progetto, ma sull’immediatezza dei sentimenti», ha detto il presidente dei giuristi cattolici. «Pensa al futuro come orizzonte indiscriminato di possibilità. E quando essa entra in crisi, non assume la crisi come negatività da fronteggiare e da riparare, bensì come apertura di nuove possibilità. La famiglia sintetica non percepisce la scansione dei tempi, né ama modellare o prendersi cura dei ruoli familiari», «le sue passioni si accendono improvvisamente e altrettanto improvvisamente si spengono. Esse hanno il fascino che possiede la sperimentazione pura, non vincolata a finalità predeterminate, completamente cangiante nelle forme e nelle tecniche. La sua identità è analogabile a quell’identità di genere, di cui tanto oggi si parla, che si determinerebbe attraverso impulsi interiori e che si manifesterebbe all’esterno solo nelle modalità, assolutamente non predeterminabili, che il soggetto decide occasionalmente di adottare».

Se questo è il quadro, la «famiglia sintetica non ha futuro e non può averlo», sentenzia D’Agostino che, dopo aver attraversato il ‘700 e l’800, si avventura anche nell’età «Si hanno rapporti con le prostitute, sosteneva Demostene, per soddisfare i propri bisogni sessuali; si hanno rapporti con le etere, per soddisfare le proprie esigenze relazionali; ma ci si sposa, egli concludeva, per avere figli». E «la famiglia sintetica non è in grado di elaborare né di essere espressiva di alcunché di analogo, per la semplice ragione che non tematizza l’esperienza della relazione uomo-donna né come strutturata, né come caratterizzata da durata, ma solo come mera evenienza fattuale». La famiglia sintetica, conclude D’Agostino – che come Paglia si preoccupa di chiudere ad ogni possibilità di riconoscimento giuridico –, coltiva «una duplice pretesa: quella di restare ai margini di ogni sistema ordinamentale e quella, ancor più radicale, di non costituire in nessun caso, essa stessa, un sistema».

La sintesi – ed è l’ultimo riferimento letterario del professore di diritto della Lateranense – è l’affermazione del conte di Suffolk nell’Enrico VI di Shakespeare: «“Beh, a scuola di diritto io sono sempre stato un allievo svogliato; non ho potuto mai piegare la mia volontà alla legge; e perciò piego la legge alla mia volontà”. Di qui il paradosso insolubile della famiglia sintetica: la sua pretesa di essere riconosciuta istituzionalmente, ma non come vincolo, bensì come espressione di libertà arbitraria e insindacabile. Riuscirà il diritto, che è nella sua struttura antiromantico, a difendere la naturalità della famiglia?». (luca kocci)

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