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ISSN 2420-997X

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www.ildialogo.org EDWARD O. WILSON E VICO: LA STORIA SIAMO NOI. Perché cooperare fa bene alla specie. Un suo articolo  - con una nota sulla "Scienza Nuova" (tutta da rileggere) di Vico  ,a c. di Federico La Sala

SOCIOBIOLOGIA E FILOSOFIA. Al di là dei "corsi e ricorsi", il filo della tradizione critica - contro la cecità e la boria dei dotti  ...
EDWARD O. WILSON E VICO: LA STORIA SIAMO NOI. Perché cooperare fa bene alla specie. Un suo articolo  - con una nota sulla "Scienza Nuova" (tutta da rileggere) di Vico  

COME L'UMANITA'  E' ARRIVATA A ESSERE QUELLA CHE E'?  La spiegazione di uno dei più importanti biologi contemporanei. Professore emerito a Harvard, è un esperto di insetti ed è considerato il fondatore della sociobiologia. È appena uscito in Italia il suo libro La conquista sociale della terra (...) 


a c. di Federico La Sala

NOTA:

Il sociobiologo 'riscopre' Vico e non lo sa (e rischia di consegnare i risultati della sua ricerca tra le braccia dei vari sociologismi e biologismi variamente diffusi).

 L'UMANITA' AL BIVIO: VICO E LA STORIA DEI LEMURI (LEMURUM FABULA), OGGI. Un invito alla (ri)lettura della "Scienza Nuova"

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Come l’umanità è arrivata a essere quello che è? Ecco il contributo delle scienze per comprendere uno sviluppo troppo spesso lasciato al sapere umanistico

La storia siamo noi. Perché cooperare fa bene alla specie

di Edward O. Wilson (la Repubblica, 02.03.2013)

  • Uno dei più importanti biologi contemporanei. Professore emerito a Harvard, è un esperto di insetti ed è considerato il fondatore della sociobiologia. È appena uscito in Italia il suo libro La conquista sociale della terra, Raffaello Cortina, pagg. 356, euro 26

Comprendere l’umanità è un compito troppo importante e gravoso per lasciarlo alle scienze umanistiche. Le molte discipline di questa grande corrente del sapere, dalla filosofia al diritto, alla storia e alle arti creative, hanno descritto le particolarità della natura umana con genialità e straordinaria minuziosità, avanti e indietro in trasmutazioni infinite. Ma non hanno spiegato perché abbiamo questa natura qui e non qualcun’altra fra una quantità sterminata di possibilità immaginabili. Sotto questo profilo, le scienze umanistiche non consentono una comprensione piena dell’esistenza della nostra specie.

Dunque, che cosa siamo noi? La risposta a questo grande enigma sta nelle circostanze e nel processo che hanno dato vita alla nostra specie. La condizione umana è un prodotto della storia, e non parlo non soltanto dei seimila anni di civilizzazione, ma di un arco molto più ampio, che risale a centinaia di migliaia di anni addietro. Per dare una risposta a questo mistero bisogna esplorare l’evoluzione nel suo insieme, come un tutto unico e inscindibile, tanto negli aspetti biologici quanto in quelli culturali. E in questo modo la storia umana, vista in tutte le sue sfaccettature, diventa a sua volta la chiave per capire come e perché la nostra specie è sopravvissuta.

Una maggioranza di persone preferisce interpretare la storia come il dispiegarsi di un disegno soprannaturale, al cui autore è dovuta ubbidienza. Ma questa interpretazione rassicurante diventa sempre meno sostenibile man mano che si espande la conoscenza del mondo reale. In particolare, la conoscenza scientifica (misurata in base al numero di scienziati e riviste scientifiche) da oltre un secolo raddoppia di dimensioni a intervalli di dieci vent’anni.

Nelle spiegazioni tradizionali del passato, le storie religiose sulla creazione si mescolavano alle discipline umanistiche per attribuire significato all’esistenza della nostra specie. È tempo di ragionare su quello che possono offrirsi reciprocamente il campo scientifico e quello umanistico, nella ricerca comune di una risposta più fondata e convincente al grande enigma.

Per cominciare, i biologi hanno scoperto che l’origine biologica del comportamento sociale avanzato negli esseri umani è simile a quella riscontrata in altre parti del regno animale. Usando studi comparati condotti su migliaia di specie animali, dagli insetti ai mammiferi, sono giunti alla conclusione che le società più complesse sono emerse attraverso l’eusocialità (la «vera» condizione sociale, parlando in senso generale). I membri di un gruppo eusociale allevano collettivamente le giovani generazioni. Inoltre, applicano un sistema di divisione del lavoro tramite la rinuncia - quantomeno parziale - alla riproduzione personale da parte di alcuni membri, allo scopo di incrementare il «successo riproduttivo» (riproduzione nel corso della vita) di altri membri.

L’eusocialità è un fenomeno particolare sotto due punti di vista. Innanzitutto va rimarcata la sua estrema rarità: su centinaia di migliaia di linee evolutive di specie animali terrestri nel corso degli ultimi 400 milioni di anni, si è venuto a creare un sistema del genere, per quello che siamo in grado di appurare, solo in due dozzine di casi.

A questo aggiungiamo che le specie eusociali conosciute si sono affermate molto tardi, nella storia della vita sulla Terra. Una volta diventato prassi, il comportamento sociale avanzato di livello eusociale si è rivelato uno straordinario successo ecologico. Soltanto due fra le due dozzine di linee evolutive indipendenti, cioè le formiche e le termiti, bastano a dominare il mondo degli invertebrati terrestri. Nonostante contino meno di ventimila specie (sul milione di specie di insetti viventi conosciuti), formiche e termiti rappresentano della metà del peso corporeo complessivo di tutti gli insetti del pianeta.

La storia dell’eusocialità solleva un interrogativo: dato l’enorme vantaggio che assicura, perché questa forma avanzata di comportamento sociale è così rara ed è comparsa così tardi? La risposta sembra data dalla sequenza specifica di cambiamenti evolutivi preliminari propedeutici al passaggio finale all’eusocialità.

In tutte le specie eusociali analizzate fino a oggi, il passaggio finale è la costruzione di un nido protetto, da cui partono le spedizioni di foraggiamento e dove gli individui giovani vengono allevati fino al raggiungimento della maturità. A costruire originariamente il nido può essere una femmina solitaria, una coppia di individui o un gruppo piccolo e scarsamente organizzato. Una volta realizzato questo passaggio preliminare, per creare una colonia eusociale è sufficiente che i genitori e la prole rimangano nel nido e collaborino all’allevamento di altre generazioni di giovani. Questi assemblaggi primitivi poi si suddividono facilmente in «foraggeri», inclini al rischio, e in genitori e nutrici, avversi al rischio.

Che cos’è che ha consentito a un’unica linea evolutiva di primati di raggiungere il livello raro dell’eusocialità? Le circostanze sono state banali, stando alle scoperte dei paleontologi. In Africa, circa due milioni di anni fa, una specie del genere australopiteco, prevalentemente vegetariano, modificò la sua alimentazione incrementando il consumo di carne. Per procurarsi questa fonte di cibo altamente energetica e dispersa sul territorio, non era molto conveniente andarsene in giro in branchi poco organizzati di individui adulti e giovani. Era più efficiente occupare un accampamento (il nido, appunto) e da lì spedire in giro cacciatori in grado di riportare indietro (uccidendola o raccogliendola) carne da dividere con gli altri. In cambio, i cacciatori ricevevano la protezione dell’accampamento, dove la loro prole veniva tenuta al sicuro insieme agli altri.

Da studi condotti su esseri umani moderni, incluse popolazioni di cacciatori-raccoglitori, la cui vita ci dice molto sulle origini della razza umana, gli psicologi sociali hanno dedotto la crescita mentale innescata dalla caccia e dagli accampamenti. Le relazioni personali fra i membri del gruppo, calibrate al tempo stesso sulla competizione e la collaborazione, hanno acquisito un ruolo predominante. Il processo è stato incessantemente dinamico e difficoltoso, superando largamente in intensità qualunque esperienza analoga dei branchi itineranti e scarsamente organizzati prevalenti nella maggior parte delle società animali.

Serviva una memoria efficiente per valutare le intenzioni degli altri membri del gruppo, prevedere le loro reazioni di volta in volta: e il risultato è stato la capacità di inventare e simulare internamente scenari conflittuali di interazioni future.

L’intelligenza sociale dei preumani ancorati all’accampamento si è evoluta come una sorta di partita a scacchi senza fine. Oggi, al capolinea di questo processo evolutivo, siamo in grado di attivare con scioltezza i nostri banchi di memoria su passato, presente e futuro. Questi banchi di memoria ci consentono valutare le prospettive e le conseguenze di alleanze, legami, contatti sessuali, rivalità, rapporti di predominio, raggiri, fedeltà e tradimenti. Traiamo un piacere istintivo dal racconto di innumerevoli storie sugli altri in quanto attori nel nostro palcoscenico interno. Tutto questo trova espressione nelle arti creative, nella teoria politica e in altre attività di alto livello che definiamo come scienze umanistiche.

Gli aspetti principali dell’origine biologica della nostra specie cominciano a essere messi a fuoco, e con essi le possibilità di un contatto più fruttuoso fra discipline scientifiche e umanistiche. La convergenza fra queste due grandi branche del sapere assumerà un’importanza enorme quando un numero sufficiente di persone ci avrà ragionato su.

Dal versante scientifico, le neuroscienze, la biologia evolutiva e la paleontologia verranno viste in un’ottica differente. Agli studenti verrà insegnata anche la preistoria oltre che la storia convenzionale, il tutto presentato come la più grande epopea del mondo vivente. E sono convinto che guarderemo con maggior serietà anche al nostro posto nella natura. Perché ci siamo esaltati, siamo assurti al ruolo di mente della biosfera, con lo spirito capace di sgomento e balzi di immaginazione sempre più sbalorditivi. Ma continuiamo a essere parte della fauna e flora terrestri: vi siamo legati dall’emozione, dalla psicologia e, non ultimo, da una storia radicata.

È pericoloso pensare a questo pianeta come a una stazione intermedia verso un mondo migliore, o continuare a convertirlo in un’astronave programmata dall’uomo.

Contrariamente all’opinione generale, non ci sono demoni e dei che si contendono la nostra devozione. Siamo frutto del nostro operato, siamo indipendenti, soli e fragili. Capire noi stessi è la chiave per sopravvivere nel lungo periodo, per gli individui e per le specie.

(Traduzione di Fabio Galimberti) © The New York Times



Sabato 02 Marzo,2013 Ore: 16:30
 
 
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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 06/3/2013 12.07
Titolo:PER LA CRITICA DELLE VERITA’ DOGMATICHE E DELLE CERTEZZE OPINABILI
VICO (E KANT), PER LA CRITICA DELLE VERITA’ DOGMATICHE E DELLE CERTEZZE OPINABILI. Una nota introduttiva alla lettura della "Scienza Nuova"

Quando Giambattista Vico, "nel fine dell’anno 1725 diede fuori in Napoli, dalle stampe di Felice Mosca, un libro in dodicesimo di dodici fogli", con il titolo "Principi di una scienza nuova intorno alla natura delle nazioni, per li quali si ritruovano altri principi del diritto naturale delle genti", con un elogio, "l’indirizza alle Università dell’Europa". Per chi non lo ricordasse, siamo già nella fase decisiva della genesi del pensiero illuministico (Kant ha già 21 anni!), nel pieno della "crisi della coscienza europea"(Paul Hazard): nella "età illuminata - come scrive appunto Vico nell’elogio-dedica - in cui nonché le favole e le volgari tradizioni della storia gentilesca ma qualunque più autorità de’ più riputati filosofi alla critica di severa ragione si sottomette" (S.N. 1725).*

Contrariamente a quanto troppo a lungo si è pensato (e questo pesa ancora sulla comprensione della sua opera) Vico non vive fuori dal tempo e dal mondo, e cammina alla grande sulla via aperta da Copernico, Galilei e Cartesio - con i suoi piedi e con la sua testa! Anzi, egli ha lavorato a dare base più ampia e più salda alla rivoluzione scientifica, alla svolta antropologica cartesiana e alla più generale rivoluzione copernicana in filosofia!

Sul piano storico e storiografico, è da dire, Vico ha subito la stessa sorte di Kant: incompreso dagli esponenti e dagli interpreti della tradizione razionalistica e illuministica, è stato ucciso e fagocitato come un ’santo’ della ’preistoria’ della grande "instaurazione" (o, meglio, restaurazione) idealistico-hegeliana. E, così, dai neoidealisti italiani (innanzitutto, Benedetto Croce con "La filosofia di Giambattista Vico", 1911) - ad eccezione di Enzo Paci("Ingens Sylva",1949) - fino a oggi (si cfr. Giambattista Vico, "La Scienza nuova. Le tre edizioni del 1725, 1730 e 1744", Bompiani, Milano 2012, con "saggio introduttivo" e "introduzione" alla S.N. del 1730 e del 1744 di Vincenzo Vitiello), non si è stati ancora né capaci di intendere né di essere giusti affatto nel giudicare la nuova arte critica di Vico né conseguentemente il grande prodotto della sua "mente heroica": la "Scienza Nuova"!

Eppure Vico, proprio nel 1725, parlando di sè in terza persona ("Vita di Giambattista Vico scritta da se medesimo"), lo scrive chiaramente: con la sua "nuova arte critica", "con la fiaccola di tal nuova arte critica", egli scopre "tutt’altre da quelle che sono immaginate finora le origini di quasi tutte le discipline, sieno scienze o arti (...). Scuopre altri princìpi storici della filosofia, e primieramente una metafisica del genere umano, cioè una teologia naturale di tutte le nazioni, con le quali ciascun popolo naturalmente si finse da se stesso i propi dèi per un certo istinto naturale che ha l’uomo della divinità, col cui timore i primi autori delle nazioni si andarono ad unire con certe donne in perpetua compagnia di vita, che fu la prima umana società de’ matrimoni; e si scuopre essere stato lo stesso il gran principio della teologia dei gentili e quello della poesia de’ poeti teologi, che furono i primi nel mondo e quelli di tutta l’umanità gentilesca".

COME E’ POTUTO GIUNGERE A QUESTE SCOPERTE? Qual è il ’segreto’, da dove la ’forza’ della sua "nuova arte critica"? Vico lo premette subito, all’inizio del suo racconto autobiografico e il senso è chiaro: si tratta di uscire da secoli di labirinto segnati dalla "doppiezza" di verità dogmatiche e certezze opinabili e seguire attentamente il principio del "verum ipsum factum".

SCIENZA NUOVA, 1725. "Napoli. Sole: gioia di vivere"(Paul Hazard)! "In quest’opera - scrive lo stesso Vico, con onestà e fierezza - egli ritruova finalmente tutto spiegato quel principio, ch’esso ancor confusamente e non con tutta distinzione aveva inteso nelle sue opere antecedenti". E immediatamente spiega e precisa: "Imperciocché egli appruova una indispensabile necesità, anche umana, di ripetere le prime origini di tal Scienza da’ princìpi della storia sacra, e, per una disperazione dimostrata così da’ filosofi come da’ filologi di ritrovarne i progressi ne’ primi auttori delle nazioni gentili, esso (..) discuopre questa nuova Scienza".

Che cosa sta dicendo Vico? Nient’altro se non come, alla luce del suo principio, e con un "doppio sguardo", ha lavorato criticamente ed è giunto ai suoi risultati: ha tenuto presente - sullo sfondo e parallelamente - i principi della storia sacra (la verità rivelata - della nazione ebraica) e ha lavorato al contempo sulla tradizione delle nazioni gentili (la verità storica - della tradizione greca e romana).

Il risultato qual è stato? Ha ritrovato - come è detto nel titolo dell’opera - altri (diversi da quelli tradizionalmente ritenuti tali) "principi del diritto naturale delle genti" non incompatibili con quelli della tradizione sacra! E, con questo, non solo e soprattutto ha aperto una importante e decisiva via a una ragione nuova, ma anche a un’inedita (critica e cristiana) possibilità di rifondazione del discorso del neoplatonismo cattolico-rinascimentale della conciliazione della tradizione degli Ebrei e della tradizione dei Gentili. Nel solco della linea di Dante, Boccaccio, di Bruno, di Galilei, amico di ebrei ma non dello spinozismo, egli guarda lontano. La “mente eroica” di Vico ha dato il “via!”. La rivoluzione copernicana in filosofia è già iniziata: “Sàpere aude!” (Orazio-Kant). [continua]

Federico La Sala

http://www.ildialogo.org/cEv.php?f=http://www.ildialogo.org/filosofia/interventi_1362501182.htm
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 07/3/2013 21.53
Titolo:continuazione - VICO: NON INVENTO IPOTESI
“DIGNITA’ DELL’UOMO” ED “EROICI FURORI”. All’origine della svolta antropologica di Vico, e del più generale ‘ri-orientamento gestaltico’ del 1725, c’è la disavventura “per la quale disperò per l’avvenire aver mai più degno luogo nella sua patria” (le critiche al “Diritto universale” e l’impossibilità di “conseguire la cattedra” di diritto romano, a cui ambiva, nel 1723) e tuttavia anche il conforto e la consolazione del “giudizio di Giovan Clerico” apparso nella seconda parte del volume XVIII della Biblioteca antica e moderna, all’articolo VIII” ((op. cit., pp. 33-34).

Ovviamente Vico non si arrese e non si arrende e, consapevole e fiero di sé, così scrive di se medesimo nel 1725: “Ma non altronde si può intender apertamente che ‘l Vico è nato per la gloria della patria e in conseguenza dell’Italia, perché quivi nato e non Marocco esso riuscì letterato, che da questo colpo di avversa fortuna, onde altri arebbe rinunziato a tutte le lettere, se non pentito di averle mai coltivate, egli non si ritrasse punto di lavorare altre opere. Come in effetto ne aveva già lavorata una divisa in due libri” (p. 34).

E’ la “Scienza nuova in forma negativa”: nel primo libro - ancora e di nuovo - “andava a ritrovare i principi del diritto naturale delle genti dentro quegli dell’umanità delle nazioni, per via d’inverisimiglianze, sconcezze ed impossibilità di tutto ciò che ne avevano gli altri inanzi più immaginato che raggionato” (p. 34). Ma anche su questo lavoro cade “un colpo di avversa fortuna”! Allora Vico cambia marcia: “ristrinse tutto il suo spirito in un’aspra meditazione per ritrovarne un metodo positivo, e sì più stretto e quindi più ancora efficace”, e “nel fine dell’anno 1725, diede fuori in Napoli”, il suo capolavoro: la “Scienza nuova” (la prima!).

NON INVENTO IPOTESI: "HYPOTHESES NON FINGO" (Isaac Newton, Principi matematici della filosofia naturale, 1713 - si cfr. Nota). Vico ha smarrito la sua diritta via, ma non ha disperato di sé e non si è si perso nel “divagamento ferino per la gran selva della terra”: non è giunto “ a stordire ogni senso di umanità”! Ha lavorato eroicamente, ed è venuto fuori dall’“immenso oceano di dubbiezze” e ha trovato la “sola picciola terra dove si possa fermare il piede”, dove “una sola luce barluma: che ‘l mondo delle gentili nazioni egli è stato pur certamente fatto dagli uomini (...) che i di lui principi si debbono ritruovare dentro la natura della nostra mente umana e nella forza del nostro intendere, innalzando la metafisica dell’umana mente (finor contemplata dell’uom particore per condurla a Dio com’eterna verità, che è la teoria universalissima della divina filosofia) a contemplare il senso comune del genere umano come una certa mente umana delle nazioni, per condurla a Dio come eterna provvidenza, che sarebbe della divina filosofia la universalissima pratica; e, ‘n cotal guisa, senza veruna ipotesi (ché tutte si rifiutano dalla metafisica), andarli a ritrovare di fatto tra le modificazioni del nostro umano pensiero nella posterita’ di Caino innanzi, e di Cam, Giafet dopo l’universale diluvio” (p. 185).

LA STORIA DELL’UMANITA’: UNA FATICA DI ERCOLE. Quanto dura sia stata la lotta per superare ostacoli e avversità “nel divagamento ferino della gran selva” e giungere a scoprire “questa unica verità” (la “picciola terra”, “la sola luce”), Vico non lo nasconde (né a se stesso né a chi voglia capire il suo lavoro di rifondazione critica della ragione storica e della ragione filosofica e teologica dommatica - anzi, invita a profittare) e così chiarisce: “noi, in meditando i princìpi di questa Scienza, dobbiamo vestire per alquanto, non senza una violentissima forza, una sì fatta natura e, ‘n conseguenza, ridurci in uno stato di somma ignoranza di tutta l’umana e divina erudizione, come se per questa ricerca non vi fussero mai stati per noi né filosofi, né filologi. E chi vi vuol profittare, egli in tale stato si dee ridurre, perché, nel meditarvi, non ne sia egli turbato e distolto dalle comuni invecchiate anticipazioni” (p. 185).

“PRINCIPI DI UNA SCIENZA NUOVA” (1725): UN “CANTO” DI VITTORIA. Nella “Idea dell’opera, nella quale si medita una Scienza dintorno alla natura delle nazioni, dalla quale è uscita l’umanità delle medesime, che a tutte cominciò con le religioni e si è compiuta con le scienze, con le discipline e con le arti”, nell’indicare il contenuto del “libro primo” - con orgoglio e con una punta di sana ironia napoletana - premette un verso di Virgilio (“Ignari hominumque locorumque erramus: Ignoranti sia degli esseri umani sia dei luoghi erriamo)e così scrive:. “Necessità del fine e difficoltà de’ mezzi di rinvenire questa Scienza entro l’error ferino de’ licenziosi, deboli e bisognosi, di Ugone Grozio, e de’ gittati in questo mondo senza cura o aiuto divino di Samuello Pufendorfio, da’ quali le gentili nazioni son pervenute” (p. 171). [continua]
Nota

ISAAC NEWTON.

Hypotheses non fingo, ("Non formulo ipotesi") è la celebre espressione con la quale Isaac Newton esprimeva l’impossibilità di andare al di là della descrizione dei fenomeni per cercarne la causa. Gli studi di Newton spaziarono in molti campi della fisica ( ottica, meccanica classica) e della matematica (calcolo infinitesimale) e per questo è riconosciuto come uno dei padri della scienza moderna. Nel condurre le sue ricerche sulla legge gravitazionale Newton rinunciò a definire la forza di gravità limitandosi a descrivere i suoi effetti. -L’affermazione Hypotheses non fingo lascia dunque spazio a ogni tipo di interpretazione, metafisica o strettamente meccanicistica ma senza sostenerne alcuna. La famosa frase, è contenuta nella seconda edizione dei Principia del 1713, precisamente nella sezione finale intitolata Scolio Generale.
- Lì vi si legge: "[...] In verità non sono ancora riuscito a dedurre dai fenomeni la ragione di queste proprietà della gravità, e non invento ipotesi. Qualunque cosa, infatti, non deducibile dai fenomeni va chiamata ipotesi; e nella filosofia sperimentale non trovano posto le ipotesi sia metafisiche, sia fisiche, sia delle qualità occulte, sia meccaniche. [...]"
- (Cfr.: Newton, Opere, Vol. 1. Principi matematici della filosofia naturale, a cura di Alberto Pala, Classici della scienza, Torino UTET, 1997, pagg. 801-802 - da: Wikipedia, l’enciclopedia libera).
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 10/3/2013 22.29
Titolo:continuazione - UN FATTO ANTROPOLOGICO INDUBITALE ...
Nel 1725, Vico scrive “di se medesimo” che ha scoperto "tutt’altre da quelle che sono immaginate finora le origini di quasi tutte le discipline, sieno scienze o arti”. Che tale affermazione non sia il frutto della fantasia di un visionario, ma la determinata e fiera consapevolezza di un grande filosofo e di un grande scienziato, è più che evidente nella dichiarazione coeva della “Scienza nuova”, ove precisa in modo inequivocabile che i principi del mondo delle nazioni gentili - “senza veruna ipotesi (ché tutte si rifiutano dalla metafisica)” - bisogna “andarli a ritrovare di fatto tra le modificazioni del nostro umano pensiero”.

Se le parole vogliono significare qualcosa, già il titolo “Principi di una scienza nuova” (con tutto quel che segue) dovrebbe far pensare a un discorso da collocare entro l’orizzonte della rivoluzione scientifica (di Galilei e Newton!) e, già, della rivoluzione copernicana kantiana (1781): a ben vedere, ciò che Vico propone è una nuova concezione dell’uomo, della società, e della storia, all’interno di un nuovo orizzonte filosofico comune a tutte le scienze - senza chiusure e fondamentalismi (e riduzionismi), a nessun livello e di ogni tipo!

La sua convinzione, infatti, è che “ci è mancata finora una scienza la quale, fosse, insieme, istoria e filosofia dell’umanità. Imperciocché i filosofi han meditato sulla natura umana incivilita già dalle religioni e dalle leggi, dalle quali, e non d’altronde, erano essi provenuti filosofi, e non meditarono sulla natura umana, dalla quale eran provenute le religioni e le leggi, in mezzo alle quali provennero essi filosofi” (p. 178). E la sua sollecitazione è quella di ripartire - come è evidente - non dalla metafisica, dalla morale, e dalla religione, ma dall’antropologia!

CHI SIAMO NOI IN REALTA’? All’inizio dei “Principi”, nel capitolo primo del Libro Primo, intitolato “Motivi di meditare quest’opera”, Vico rompe ogni indugio e in una sintesi lucidissima e vertiginosa offre il filo di tutta la sua ricerca e mostra che cosa ha scoperto con “la fiaccola” della sua “nuova arte critica”. E, con una mossa geniale degna del miglior Marx (Introduzione ’57), nell’esposizione della sua indagine parte da un fatto antropologico indubitabile: un istinto naturale, un “comune desiderio della natura umana”, “un senso comune, nascosto nel fondo dell’umana mente”.

Questo è l’attacco e il primo capoverso del suo capolavoro (Scienza Nuova, 1725): “ Il diritto naturale delle nazioni egli è certamente nato coi comuni costumi delle medesime: né alcuna giammai al mondo fu nazione d’atei, perché tutte incominciarono da una qualche religione. E le religioni tutte ebbero gittate le loro radici in quel desiderio che hanno naturalmente tutti gli uomini di vivere eternamente; il qual comune desiderio della natura umana esce da un senso comune, nascosto nel fondo dell’umana mente, che gli animi umani sono immortali; il qual senso, quanto è riposto nella cagione, tanto produce quello effetto: che, negli estremi malori di morte, desideriamo esservi una forza superiore alla natura per superargli, la quale unicamente è da ritrovarsi in un Dio che non sia essa natura ma ad essa natura superiore, cioè una mente infinita ed eterna; dal qual Dio gli uomini diviando, essi sono curiosi dell’avvenire”.

E, così, continua: “Tal curiosità, per natura vietata, perché di cosa propria di un Dio mente infinita ed eterna, diede la spinta alla caduta de’ due principi del genere umano: per lo che Iddio fondò la vera religione agli ebrei sopra il culto della sua provvedenza infinita ed eterna, per quello stesso che, in pena di avere i suoi primi autori desiderato di saper l’avvenire, condannò tutta la umana generazione a fatiche dolori e morte. Quindi le false religioni tutte sursero sopra l’idolatria, o sia culto di deitadi fantasticata sulla falsa credulità d’esser corpi forni di forze superiori alal natura, che soccorrano gli uomini ne’ loro estremi malori; e l’idolatria [è] nata ad un parto con la divinazione, o sia vana scienza dell’avvenire, a certi avvisi sensibili, creduti mandati agli uomini dagli dèi. Sì fatta vana scienza, dalla quale dovette cominciare la sapienza volgare di tutte le nazioni gentili, nasconde però due gran princìpi di vero: uno, che vi sia provvidenza divina che governi le cose umane; l’altro, che negli uomini sia la libertà d’arbitrio, per lo quale, se vogliono e vi si adoperano, possono schivare ciò che, senza provvederlo, altrimenti loro apparterrebbe. Dalla qual seconda verità viene di séguito che gli uomini abbiano elezione di vivere con giustizia; il quale comun senso è comprovato da questo comun desiderio che naturalmente hanno dalle leggi, ove essi non sien tòcchi da passione di alcun proprio interesse di non volerle” (p.172).

Conquistato il fatto antropologico indubitabile, per Vico tutto diventa più chiaro. Egli ha finalmente trovato il filo d’oro per uscire da interi millenni di labirinto: l’ “impresa”e la “dipintura” che illustreranno e accompagneranno la “Scienza Nuova” del 1730 e del 1744, celebrano e precisano in immagini proprio il senso di quest’evento e questa più grande consapevolezza!

Il principio del verum-factum (con le sue articolazioni interne, relative al rapporto Uomo-Dio, vero-vero, religione ebraica e religione dei gentili) è liberato dalle sue ambiguità neoplatoniche e cattolico-rinascimentali e lo stesso programma teologico-politico di Cusano, di Ficino, di Pico della Mirandola, di Michelangelo, di Campanella, di Giordano Bruno (la riconciliazione delle fedi e delle ragioni) è ripreso e rilanciato su una base nuova - scientificamente, teologicamente, e filosoficamente critica.

PER UNA “BIBBIA CIVILE” RAGIONATA, PER LA“COSTITUZIONE”! Nel capitolo secondo, sempre del Libro Primo, intitolato “Meditazione di una scienza nuova”, Vico dà chiarimenti sulla portata e il senso del suo lavoro e invita a riflettere sulla necessità di elaborare “uno stato di perfezione” (un “quadro costituzionale”!) per meglio orientare il cammino “dell’umanità delle nazioni”. Così scrive: “Ma tutte le scienze, tutte le discipline e le arti sono state indiritte a perfezionar e regolare le facoltà dell’uomo. Però niuna ancora ve n’ha che avesse meditato sopra certi princìpi dell’umanità delle nazioni, dalla quale senza dubbio sono uscite tutte le scienze, tutte le discipline e le parti; e per sì fatti princìpi ne fosse stabilita una certa akmé, o sia uno stato di perfezione, dal quale se ne potessero misurare i gradi e gli estremi, per li quali e dentro i quali, come ogni altra cosa mortale, deve essa umanità delle nazioni correre e terminare, onde con iscienra si apprendessero le pratiche come l’umanità d’una nazione, surgendo, possa pervenire a tale stato perfetto, e come ella, quinci decadendo, possa di nuovo ridurvisi. Tale stato di perfezione unicamente sarebbe: fermarsi le nazioni in certe massime così dimostrate per ragioni costanti come praticate co’ costumi comuni, sopra le quali 1a sapienza riposta de’ filosofi dasse la mano e reggesse la sapienza volgare delle nazioni, e,‘n cotal guisa, vi convenissero gli più riputati delle accademie con tutti i sappienti delle repubbliche; e la scienza delle divine ed umane cose civili, che è quella della religione e delel leggi (che sono una teologia ed una morale comandata, la quale si acquista per abiti), fosse assistita dalla scienza delle divine ed umane cose naturali (che sono una teologia ed una morale ragionata, che si acquista co’ raziocini); talché farsi fuori da sì fatte massime fosse egli il vero errore o sia divagamento, non che di uomo, di fiera”(p. 173).

PICO DELLA MIRANDOLA, “IL MARXISMO E HEGEL”, E L’IRONIA DELLA STORIA. Anche se nel 1974, Lucio Colletti prende con determinazione, “completamente”, le distanze dal “trionfalismo dogmatico con cui, un tempo, [ha] difeso la giustezza di ogni rigo di Marx”(“Intervista politico-filosofica”, Bari 1974) e, benché abbia fatto eroici tentativi per riallacciare i fili della “critica dell’economia politica” con i fili della “critica della ragion pura”, non riesce a venir fuori dalla trappola logica e storica della metafisica dogmatica e dalle macerie degli idealismi, dei marxismi, degli scientismi, e, nel 1994, cade (abbagliato dalla figura del Cavaliere del partito “Forza Italia”!) nel pantano dei liberismi.

Nel “Il marxismo e Hegel” (Laterza, Bari 1969), a difesa di Marx, così scrive: “analisi scientifica e storia, a un parto, cioè scienza-storia e storia-scienza: ecco lo storicismo di Marx; che non è quello di Vico, né quello di Hegel e tantomeno quello di Croce” (p.141).

La catastrofe è già annunciata, e proprio nella parte più importante del lavoro (“a cui l’autore vorrebbe che fosse prestata l’attenzione maggiore”), “negli ultimi due capitoli: dedicati, rispettivamente, al concetto di “rapporti sociali di produzione” e all’idea della società “cristiano borghese” (p. VII). In questi capitoli i problemi della “Scienza nuova” di Vico sono al centro della questione. Tutti i nodi (dal rapporto essere-pensiero al verum-factum, vero-certo, uomo-dio, individuo-società e religione), vengono al pettine intorno al nodo antropologico, ma Vico non c’è - ovviamente!

Per difendere la concezione antropologica di Marx (l’uomo, un “ente naturale generico”) e chiarire il passaggio dal materialismo naturalistico al materialismo storico (contro il “materialismo dialettico” e la sua incapacità di sciogliere il nodo dei Manoscritti del ’44, cioè di intenderne il concetto dell’uomo come “ente naturale generico”), Colletti estrae il concetto di Uomo dal discorso di Pico della Mirandola (“De hominis Dignitate) e di Bovillus (“De Sapiente”) - in particolare, il tema dell’uomo artefice di se stesso, prodotto del suo farsi - e lo trapianta sul terreno del concetto dei “rapporti sociali marziani”, e finisce per perdere ogni lucidità sia sul piano antropologico sia sul piano della critica dell’economia politica e della logica hegeliana.

L’orizzonte ateo-materialistico, e la superficiale (se non inesitente) conoscenza diretta dell’opera di Vico, blocca a Colletti ogni via di uscita (quantomeno in direzione del suo stesso Kant, che era “realista”, e del suo stesso Marx, che non era “marxista”!) e lo acceca definitivamente, riconsegnandolo all’ateismo ateo-devoto non di Croce-Hegel ma di Gentile-Fichte! E, alla fine, per capire qualcosa della “miseria dello storicismo” si rivolgerà a Kar Popper, che della “società aperta e i suoi nemici” sapeva qualcosina!

E’ l’inizio della fine di un percorso “esemplare” - non solo suo, ma di grandissima parte della maggior parte degli intellettuali italiani. A onore e memoria di Colletti, è solo da dire che tenne sempre la schiena dritta e non rinunciò mai al suo diritto di critica di uomo, di cittadino e di intellettuale. A vergogna degli altri, è meglio che tacciamo! E riprendiamo a leggere Vico!

Principi di una scienza nuova”, Napoli 1725 - Per una nuova “Città della Scienza”, Napoli 2013: Che questo suo “meraviglioso libro - come scrisse Paul Hazard alla fine della seconda guerra mondiale - proietti finalmente il suo splendore sull’orizzonte dell’Europa”!
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 11/3/2013 16.49
Titolo:LA BORIA DEI DOTTI: HEGEL, EDWARD O. WILSON, E FERRARIS
"NUOVO REALISMO", IN FILOSOFIA. DATO L’ ADDIO A KANT, MAURIZIO FERRARIS SI PROPONE COME IL SUPERFILOSOFO DELLA CONOSCENZA (QUELLA SENZA PIU’ FACOLTA’ DI GIUDIZIO) DI HEGEL!!!

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Il nuovo saggio di Wilson sull’eusocialità

Siamo uomini o formiche?

di Maurizio Ferraris (la Repubblica, 11.03.2013) *

Leibniz ha scritto che l’asino va dritto al fieno senza aver letto una riga di Euclide. Analogamente, il dittatore che per mettere a tacere il dissenso interno dichiara guerra al paese vicino non ha verosimilmente letto il libro curato da Telmo Pievani e tradotto da Cortina, La conquista sociale della terra dell’entomologo di Harvard Edward O. Wilson, ma applica con istinto sicuro (è il caso di dirlo) la teoria della selezione naturale multipla che questi ha proposto nel 2010 con Martin Nowak e Corina Tarnita.

Contrariamente alla teoria del “gene egoista” resa celebre da Richard Dawkins, e d’accordo piuttosto con il proverbio “parenti serpenti”, la socialità umana non evolve in gruppi che condividono i geni e si aiutano a vicenda, ma si articola su un duplice livello. Uno, più alto, è la competizione tra gruppi, e uno, più basso, è la competizione (e non la cooperazione, come vuole Dawkins, e come voleva in precedenza lo stesso Wilson insieme alla maggioranza della comunità scientifica) tra individui all’interno dello stesso gruppo. Nel momento in cui si identifica il nemico (di razza, di classe) il gruppo si ricompatta e mette a tacere gli egoismi individuali, che torneranno a scatenarsi appena passato il pericolo.

Nell’elaborare questa teoria, Wilson mette a frutto le indagini che l’hanno reso celebre, quelle legate al concetto di “superorganismo” presentate in un monumentale volume scritto con Bert Hölldobler e tradotto da Adelphi due anni fa.

Contrariamente al cliché dell’evoluzionismo come esaltazione della lotta di tutti contro tutti, l’idea di fondo è che un livello di “eusocialità”, ossia di stretta collaborazione tra individui nel gruppo, con divisione del lavoro e intere caste che si sacrificano per la comunità, è un vantaggio decisivo per l’evoluzione.

È per questo che le formiche hanno iniziato il cammino dell’evoluzione milioni di anni prima che qualcosa di remotamente simile avvenisse agli ominidi. Tuttavia, nel caso delle formiche, lo sviluppo ha comportato, un solo livello di articolazione, quello sociale. È la comunità nel suo insieme che agisce come un singolo organismo, e acquisisce una potenza che esisteva molto prima di noi e con ogni probabilità esisterà molto dopo che si sarà persa ogni traccia dell’umanità.

Per gli uomini (e per la sterminata filiera di primati che li precede), che partivano da prerequisiti diversi, e in particolare il fatto banale ma decisivo di essere molto più grandi delle formiche, le cose sono andate diversamente. Il corpo più grande ha permesso lo sviluppo di un cervello più complesso, e il cervello ha reso possibili livelli di eusocialità sofisticati, la creazione del linguaggio, degli ornamenti, della religione, e ovviamente della scienza.

Purtroppo ha anche generato l’intima conflittualità che ci caratterizza come esseri umani. Le formiche sanno sempre qual è la cosa giusta da fare, noi invece siamo in lotta non solo con gli altri, ma con noi stessi. Anzitutto, viviamo il conflitto tra egoismo e altruismo, tra il vantaggio dell’individuo e quello del gruppo, tra interesse e sacrificio.

Come se non bastasse, a complicarci la vita rispetto alle formiche, interviene il conflitto tra la parte primitiva e istintiva del cervello, l’amigdala, e la corteccia capace di simboli, coscienza e ragionamenti. Insomma, se il superorganismo tutto d’un pezzo di un formicaio è perfettamente armonioso, noi viviamo un conflitto tra la nostra natura e quello che Aristotele chiamava “seconda natura”. È questo che ci rende pensosi, spirituali, tormentati. Ma il punto essenziale, e filosoficamente decisivo, è che per quanto potente e determinante possa diventare la seconda natura, rivela pienamente la propria provenienza dalla prima.

Anni fa, quando il solo parlare di “natura umana” appariva come il segno di un inaccettabile scientismo, visto che l’uomo era concepito come il frutto esclusivo di una storia e di un linguaggio venuti fuori dal nulla, il libro di Wilson sarebbe stato classificato come antifilosofico.

Ma è vero il contrario: è un libro speculativo ed hegeliano. Perché esattamente come per Hegel, lo spirito - concepito anzitutto come lacerazione - è frutto della natura, e i gradi inferiori si conservano e si superano nei gradi superiori. La cultura è costitutivamente il prolungamento della natura, non c’è indipendenza né salto (né ovviamente infusione soprannaturale). È nel fondo della natura che ha inizio la fenomenologia dello spirito, che non perde nulla del suo interesse e della sua dignità, ma anzi riceve la sua vera luce, dallo spiegare l’uomo attraverso le formiche.

*

- Oggi presenta a Harvard il Manifesto del nuovo realismo (Boylston Hall 403, ore 17). -L’incontro, organizzato da Francesco Erspamer per le attività della Lauro de Bosis Lectureship in the History of Italian Civilization, avviene in concomitanza con la nuova edizione de Il mondo esterno (Bompiani) La conquista sociale della terra di E. Wilson (Cortina a cura di T. Pievani, pagg. 356, euro 26)
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 18/5/2013 20.18
Titolo:Homo symbolicus. Ecco il momento esatto in cui siamo diventati umani
- Homo symbolicus
- Ecco il momento esatto in cui siamo diventati umani

- La diversità rispetto agli altri viventi non è frutto dell’evoluzione, ma di un “evento” improvviso

-di Ian Tattersall (la Repubblica, 17.05.2013)

Noi esseri umani siamo parte a tutti gli effetti del Grande Albero della Vita che abbraccia l’insieme delle cose oggi viventi sulla Terra. E siamo saldamente collocati fra i primati, all’interno dell’ordine dei mammiferi. Ma è innegabile che in noi c’è anche qualcosa di fondamentalmente diverso da ogni altra creatura vivente. A prima vista, naturalmente, la cosa che più salta all’occhio sono le nostre peculiarità fisiche, in gran parte collegate al nostro strano modo di muoverci e riconducibili alla postura eretta e alla bipedalità, l’adattamento dei primi ominidi da cui è disceso tutto il resto.

Ma la cosa che veramente ci distingue e ci fa sentire così diversi da tutti gli altri esseri viventi è il modo di elaborare le informazioni nel nostro cervello. Quello che solo noi esseri umani facciamo è disassemblare mentalmente il mondo che ci circonda in un vocabolario sterminato di simboli mentali. Questa capacità unica si palesa in ogni aspetto delle nostre vite. Gli esemplari di altre specie reagiscono, più o meno direttamente e in modo più o meno sofisticato, agli stimoli dell’ambiente esterno.

Ma la nostra capacità simbolica ci mette nelle condizioni di immaginare alternative e di porci domande come «Che succede se...? ». E il risultato è che non ci limitiamo a fare semplicemente le stesse cose che fanno le altre creature, solo un po’ meglio: noi gestiamo le informazioni in modo completamente diverso.

Una delle evidenze materiali delle prime opere di menti simboliche è l’ormai famoso motivo geometrico inciso settantacinquemila anni fa su una placca di ocra levigata nella grotta di Blombos, sulla costa meridionale dell’Africa: insieme a molti altri ritrovamenti è l’indizio che centomila anni fa, nel continente nero, tirava aria di cambiamenti comportamentali di vasta portata. Quarantamila anni fa circa, questa rivoluzione comportamentale ancora embrionale trovò la sua piena realizzazione nelle straordinarie pitture rupestri della regione franco-cantabrica. Società simili produssero le prime evidenze dell’avvento della musica, sotto forma di flauti ricavati da ossa di uccello.

Per comprendere le caratteristiche di questo nuovo fenomeno è importante ricordarsi che l’Homo sapiens con capacità cognitive moderne non è semplicemente un’estrapolazione di tendenze precedenti. I ritrovamenti archeologici mostrano piuttosto chiaramente che noi non facciamo le stesse cose che facevano i nostri predecessori, solo un po’ meglio: ricreando mentalmente il mondo noi di fatto facciamo, nella nostra testa, qualcosa di completamente nuovo e diverso. E dal momento che questa innovazione radicale rappresenta una rottura totale con il passato, non siamo in grado di spiegarla ricorrendo alla classica selezione naturale, che non è un processo creativo.

Che cosa successe, allora? La produzione di cognizione simbolica è iniziata in una fase molto recente nella storia del cervello umano. Il nuovo modo di pensare sembra essere nato molto dopo la nascita dell’Homo sapiens come entità anatomicamente distinta, e dunque dopo l’acquisizione del cervello anatomicamente moderno. Non c’è niente di sorprendente in questo, perché le innovazioni comportamentali, e presumibilmente cognitive, di regola sono avvenute durante il periodo di prevalenza delle specie di ominidi esistenti, e non all’inizio.

Tutto questo rende ragionevole giungere alla conclusione che l’innovazione neurale decisiva è stata acquisita come sottoprodotto della grande riorganizzazione evolutiva che ha dato origine all’Homo sapiens come entità fisicamente distinta, circa duecentomila anni fa. In altre parole, questa innovazione è emersa non come adattamento, ma come exattamento, cioè un adattamento nato per assolvere a una certa funzione e che poi finisce per assolvere anche o soprattutto un’altra funzione indipendente da quella originaria. Queste nuove potenzialità, che hanno fornito il sostrato biologico per la cognizione simbolica, sono rimaste «in sonno» fino a quando, sotto l’impulso probabilmente di uno stimolo culturale, non si sono concretizzate.

La mia idea è che questo stimolo è stato l’invenzione del linguaggio, cioè l’attività simbolica per eccellenza. Per noi, linguaggio è praticamente sinonimo di pensiero. Come il pensiero, il linguaggio implica la formazione e la manipolazione di simboli nella mente. E in assenza del linguaggio la nostra capacità di ragionare per simboli è quasi inconcepibile. Immaginazione e creatività sono parte dello stesso processo, perché solo dopo aver creato simboli mentali siamo in grado di combinarli in modo nuovo e di chiedere: «Che cosa succede se...?».

C’è di più: se il linguaggio è venuto dopo le trasformazioni anatomiche dell’Homo sapiens, allora i primi individui linguistici possedevano già, chiaramente, l’apparato vocale necessario per esprimere il linguaggio, apparato che avevano acquisito inizialmente, una volta di più, in un contesto a tutti gli effetti di exattamento.

L’exattamento, tra l’altro, è un evento assolutamente ordinario in termini evolutivi, se si pensa che gli antenati degli uccelli hanno avuto le piume per milioni di anni prima di scoprire che potevano usarle per volare.

Non ci sono dubbi che quello che ci differenzia più di ogni altra cosa dai Neanderthal e da tutti gli altri nostri parenti estinti è il pensiero simbolico: è il pensiero simbolico che spiega perché oggi noi siamo qui e loro no.

La capacità cognitiva specifica della nostra specie, dunque, è un’acquisizione straordinariamente recente, ed è il prodotto immediato di un evento di breve durata e probabilmente casuale, che ha capitalizzato i frutti di centinaia di milioni di anni di evoluzione vertebrata.

Tutto questo a sua volta sembra indicare che noi esseri umani non siamo le creature che siamo grazie a una selezione naturale protrattasi per ere intere. E naturalmente può aiutarci a capire perché i nostri processi decisionali sono così contorti, perché i comportamenti umani sono così spesso irrazionali e autodistruttivi e perché la nostra psiche è notoriamente così impenetrabile.
- (Traduzione di Fabio Galimberti)

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