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www.ildialogo.org SCETTICISMO E VERITA'. I FILOSOFI ITALIANI IGNORANO (ANCORA!) I "PARADOSSI DELL'AUTORIFERIMENTO" E CONTINUANO A VIVERE PRIMA DI COPERNICO, DARWIN E FREUD. A "Topolino e Russell, liberi pensatori", un omaggio di Giulo Giorello - con alcune note,a c. di Federico La Sala

SOTTO UN UNICO CIELO, IN ITALIA (1994-2012), UN POPOLO, UNA REPUBBLICA, UN PRESIDENTE, E IL presidente MENTITORE ISTITUZIONALIZZATO: "FORZA iTALIA"! Ancora uno sforzo ...
SCETTICISMO E VERITA'. I FILOSOFI ITALIANI IGNORANO (ANCORA!) I "PARADOSSI DELL'AUTORIFERIMENTO" E CONTINUANO A VIVERE PRIMA DI COPERNICO, DARWIN E FREUD. A "Topolino e Russell, liberi pensatori", un omaggio di Giulo Giorello - con alcune note

"(...) riportando una sua «intervista con lo spettro» Pippo afferma che per una persona sensata fantasmi e anime disincarnate non esistono, e ribadisce che «questo è proprio quel che dice anche lui», lo spettro medesimo! "


a c. di Federico La Sala

 MATERIALI SUL TEMA:


 Topolino e Russell liberi pensatori
Fanno dello scetticismo la leva contro ogni superstizione

di Giulio Giorello (Corriere della Sera, 09.11.2012)

Nel memorabile Mickey Mouse and the Seven Ghosts (da noi: Topolino nella casa dei fantasmi) di Floyd Gottfredson e Ted Osborne (1936), riportando una sua «intervista con lo spettro» Pippo afferma che per una persona sensata fantasmi e anime disincarnate non esistono, e ribadisce che «questo è proprio quel che dice anche lui», lo spettro medesimo!

Dunque c’è un fantasma che dice che «i fantasmi non ci sono»: la cosa non sarebbe dispiaciuta a Bertrand Russell, specialista in meccanismi logici di questo tipo, tecnicamente noti come paradossi dell’autoriferimento: come «l’insieme di tutti gli insiemi che non appartengono a sé stessi a sua volta appartiene o no a se stesso?». Provate a rispondere affermativamente o negativamente, e vedrete!

Ma nel fumetto il malfidente Topolino ci tiene a ribadire che ci dev’essere un trucco e che una buona pallottola può mettere in fuga qualsiasi apparizione. Per dirla con le parole di Russell in Scienza e religione (1935), potremmo classificare il topo di Walt Disney come un libero pensatore che fa dello scetticismo nei confronti dei fantasmi la leva per scardinare l’edificio delle superstizioni consolidate, nonché la premessa per la spiegazione di pretesi miracoli in termini di leggi di natura.

La crescita della scienza cambia la percezione che gli esseri umani hanno del loro posto nel mondo e del loro destino. Tra il fumetto di Topolino e il libro di Russell, che sono quasi contemporanei, potremmo inserire anche le parole di un pensatore di circa due secoli e mezzo prima, quel Baruch Spinoza che il filosofo britannico considerava una delle figure «più amabili» della storia delle idee.

Nel 1674 Hugo Boxel, funzionario della citta di Gorcum, aveva chiesto al filosofo dell’Etica un parere «circa le apparizioni degli spettri o spiriti notturni» e, viste le perplessità di quell’«acutissimo» personaggio, aveva insistito che si doveva ammettere almeno che «lo spazio incalcolabile che c’è tra noi e gli astri non è vuoto, ma pieno di spiriti che vi abitano, magari distinti» in quelli che abitano regioni «più elevate» e in quelli che frequentano invece zone «più basse» del cosmo. Al che Spinoza gli aveva seccamente ribattuto: «Ignoro quali siano quei luoghi più alti e più bassi che concepisci nella materia infinita, a meno che tu non asserisca che la Terra è il centro dell’Universo: se infatti il Sole o Saturno ne fossero il centro, il Sole o Saturno sarebbero la parte più bassa e non già la terra».

Spinoza si collocava nella grande tradizione dell’atomismo di Democrito, Lucrezio ed Epicuro, ma aveva in mente anche Copernico e Galileo, nonché il passaggio dal mondo chiuso aristotelico-tolemaico all’Universo infinito. Da parte sua, il Russell di Scienza e religione dedica non poche pagine alla costellazione d’idee, rompicapi, tecniche d’osservazione e di calcolo che oggi chiamiamo «rivoluzione copernicana», ma vi aggiunge la considerazione di due altre rivoluzioni scientifiche: quella di Charles Darwin nelle scienze della vita e quella di Freud e degli altri protagonisti della «psicologia del profondo» nel campo delle scienze umane.

La darwiniana Origine delle specie (1859) ha rimodellato la nostra immagine del rapporto tra il genere «Uomo» e gli altri organismi viventi; la psicoanalisi ci ha costretto a ripensare la stessa nozione di coscienza e l’idea di un libero arbitrio. Entrambe le concezioni sono entrate in conflitto con abitudini intellettuali spesso legate ai dogmi delle fedi religiose, come già era capitato a Copernico, Bruno e Galileo. In un Universo infinito la Terra non è il centro più di quanto lo sia Saturno o il Sole, e la dimora dell’uomo non gode più di una posizione privilegiata; allo stesso modo, nemmeno l’uomo sotto il profilo evolutivo è qualcosa di «speciale» rispetto al resto del vivente.

Dunque niente fantasmi, niente anime immortali: per dirla col Darwin del Taccuino B (1837-1838): «Per consenso di tutti l’anima è aggiunta, gli animali non l’hanno, non guardano avanti; se decidiamo di lasciar correre libere le congetture, allora gli animali sono nostri compagni, fratelli in dolore, malattia, morte e sofferenza e fame; nostri schiavi nel lavoro più faticoso, nostri compagni negli svaghi; dalla nostra origine essi probabilmente condividono un comune antenato; potremmo esser tutti legati in un’unica rete». Come questa rete della vita sia oggi esplorata da una costellazione di programmi scientifici che vanno dalla fisica e dalla chimica alla neurofisiologia e al complesso delle scienze cognitive è uno dei lasciti migliori del secolo scorso, di cui Russell è stato testimone e protagonista: dalla riflessione sui fondamenti della matematica e la struttura della scienza all’impegno per il rinnovamento dei nostri presupposti etico-politici, per non dire dell’opposizione alle più diverse forme di oppressione.

Al contrario che in altri testi, in Scienza e religione Russell non mette tanto l’enfasi sul conflitto tra queste due forme di vita e di pensiero quanto sulla loro radicale distinzione. Scrive infatti nelle pagine iniziali del libro che «una fede religiosa si distingue da una teoria scientifica perché pretende d’incarnare una verità eterna e assolutamente certa, mentre la scienza è sempre sperimentale, pronta ad ammettere presto o tardi la necessità di mutamenti alle sue attuali teorie, e consapevole che il suo metodo è logicamente incapace di portare a una dimostrazione completa e definitiva».

E avviandosi alla conclusione, sottolinea che «la mentalità scientifica è prudente, sperimentale ed empirica; non pretende né di conoscere l’intera verità né che la sua conoscenza sia interamente vera; sa che ogni dottrina ha bisogno di essere emendata presto o tardi e che il necessario emendamento richiede libertà d’indagine e libertà di discussione».


UN OMAGGIO A COPERNICO, DARWIN E FREUD:

-  AL DI LA’ DELLE "ROBINSONATE" (MARX) E AL DI LA’ DELL’EDIPO (FREUD). INDICAZIONI PER UNA SECONDA RIVOLUZIONE COPERNICANA. I soggetti sono due, e tutto è da ripensare...
-  
FACHINELLI E FREUD NELLA “NAVE” DI GALILEI.



Sabato 10 Novembre,2012 Ore: 17:17
 
 
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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 10/11/2012 18.54
Titolo:"I PRINCIPI DELLA MATEMATICA" DI BERTRAND RUSSELL
FRANCO VOLPI e "I PRINCIPI DELLA MATEMATICA" DI BERTRAND RUSSELL: "Ave­va la vocazione dell’organizzatore oltre che quella dello studioso. Sotto questo aspet­to va elogiato per il Dizionario del­le opere filosofiche (Bruno Monda­dori, 2000) che reca il suo nome al frontespizio, ma si avvale di de­cine e decine di collaboratori per le singole voci.

Di più: Volpi, insie­me ad altri, curò nel 1988 l’edizio­ne tedesca di questo Lexicon der philosophischen Werke, poi ampliata nel 1999; infine la sistemò per gli italiani.

Le polemiche corse all’usci­ta sono ormai evaporate e oggi ci rendiamo conto che l’aver dimenticato - o volutamente non ospita­to - i Principles of Mathematics di Bertrand Russell, non è peccato che richiede assoluzioni speciali"(Cfr. Armando Torno, Franco Volpi, la filosofia al di là del nichilismo, Corriere della Sera, 15.04.2009).
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 12/11/2012 12.51
Titolo:SCETTICISMO E VERITA'. Il metodo di Kant ...
ANTITETICA DELLA RAGION PURA

di Immanuel Kant *

Se Tetica è ogni insieme di dottrine dommatiche, io intendo per Antitetica, non affermazioni dommatiche del contrario, ma il conflitto di conoscenze secondo l’apparenza dommatiche (thesin cum antithesi), senza che si annetta all’una piuttosto che all’altra uno speciale diritto all’assenso.

L’Antitetica, dunque, non si occupa punto di affermazioni unilaterali, ma prende a considerare le conoscenze universali della ragione solo pel conflitto di esse tra loro e per le cause di tal conflitto. L’Antitetica trascendentale è una ricerca intorno all’antinomia della ragion pura, le sue cause e il suo risultato.

Quando noi rivolgiamo la nostra ragione non semplicemente, per l’uso dei princìpi dell’intelletto, agli oggetti dell’esperienza, ma ci avventuriamo ad estenderla al di là dei limiti di questa, allora vengon fuori proposizioni sofistiche, che dalla esperienza non possono né sperare conferma, né temere confutazione; ciascuna delle quali non soltanto è in se stessa senza contraddizione, ma trova perfino nella natura della ragione le condizioni della sua necessità; solo che, disgraziatamente, il contrario ha dalla parte sua ragioni altrettanto valide e necessarie di affermazione.

Le questioni che si presentano naturalmente in una tale dialettica della ragion pura, son dunque: 1) In quali proposizioni propria mente la ragion pura è soggetta inevitabilmente a una antinomia. 2) Su quali cause si fonda questa antinomia. 3) Se nondimeno, e in qual modo, alla ragione, in questo conflitto, resti aperta una via alla certezza.

Un teorema dialettico della ragion pura deve, dunque, avere in sé questo, che lo distingua da tutte le proposizioni sofistiche: che non concerna una questione arbitraria, che non si solleva se non per un certo scopo voluto, ma sia una questione siffatta, che ogni ragione umana nel suo cammino vi si deve necessariamente imbattere; e in secondo luogo, che così essa come la contraria porti seco non soltanto un’apparenza artificiosa, che, se uno l’esamini, dilegua tosto, ma un’apparenza naturale e inevitabile, che, quando anche uno non ne sia più ingannato, illude pur sempre, sebbene non riesca più a gabbare; e però può bensì esser resa innocua, ma non può giammai venire estirpata.

Una tale dottrina dialettica non si riferirà all’unità intellettuale di concetti d’esperienza, ma all’unità razionale di semplici idee, le cui condizioni - poiché primieramente, come sintesi secondo regole, essa deve accordarsi con l’intelletto, e pure, insieme, come unità assoluta di essa, con la ragione, - se essa è adeguata all’unità della ragione, saranno troppo grandi per l’intelletto, e se proporzionata all’intelletto, troppo piccole per la ragione; dal che deve sorgere un conflitto, che non si può evitare, donde che si prendano le mosse.

Queste affermazioni sofistiche aprono dunque una lizza dialettica, dove ogni parte cui sia permesso di dar l’assalto ha il disopra, e soggiace di sicuro quella che è costretta a tenersi sulla difensiva. Quindi anche i cavalieri gagliardi, s’impegnino essi per la buona o per la cattiva causa, sono sicuri di riportare la corona della vittoria, se badano solo ad avere il privilegio di dar l’ultimo assalto senza essere più obbligati a sostenere un nuovo attacco dell’avversario.

Si può facilmente immaginare, che questo arringo pel passato è stato abbastanza spesso corso, che molte vittorie sono state guadagnate da ambo le parti; ma per l’ultima, che decide la cosa, si è sempre badato che il difensore della buona causa tenesse solo il terreno, e così fosse impedito all’avversario di impugnare più oltre le armi. Come giudici di campo imparziali, dobbiamo mettere affatto da parte, se sia la buona o la cattiva causa quella che i combattenti sostengono, e lasciar che essi se la sbrighino prima tra loro. Forse, dopo essersi l’un l’altro più stancati che danneggiati, essi scorgeranno da se stessi la vanità della loro lotta e si separeranno da buoni amici.

Questo metodo di assistere a un conflitto di affermazioni, o piuttosto di provocarlo da sé, non per decidere alla fine in favore dell’una o dell’altra parte, ma per ricercare se l’oggetto di esso non sia forse una semplice illusione, che ciascuno vanamente s’affanna ad acchiappare, e in cui ei non può nulla guadagnare, quand’anche non gli si resistesse punto: questo metodo, dico, si può chiamare metodo scettico.

Esso è da distinguere del tutto dallo scetticismo, principio di una inscienza secondo arte e scienza1, che spianta le fondamenta d’ogni cognizione, per non lasciarle, possibilmente, in nessuna parte alcuna certezza e sicurezza. Giacché il metodo scettico mira alla certezza, in quanto cerca di scoprire in un tale combattimento, onestamente inteso da ambo le parti e condotto con intelligenza, il punto dell’equivoco, per fare come i saggi legislatori, che dall’imbarazzo dei giudici nell’amministrazione della giustizia ricavano per sé un ammaestramento intorno a ciò che di manchevole e non abbastanza determinato è nelle loro leggi. L’antinomia, che si rivela nell’applicazione delle leggi, è per la nostra limitata sapienza la maggior prova d’esame della nomotetica, per rendere così attenta la ragione, che nella speculazione astratta non s’accorge facilmente dei suoi passi falsi, ai momenti della determinazione dei suoi princìpi.

Ma codesto metodo scettico è essenzialmente proprio solo della filosofia trascendentale; e in ogni modo, può farsene a meno in ogni altro campo di ricerche, solo in questo no.

Nella matematica il suo uso sarebbe assurdo: poiché in essa non può restar nascosta e sfuggire all’occhio nessuna falsa affermazione, in quanto le dimostrazioni vi debbono sempre procedere al filo dell’intuizione pura, e mediante una sintesi sempre evidente.

Nella filosofia sperimentale può bene un dubbio sospensivo esser utile; se non che, nessun malinteso, almeno, è possibile, il quale non si possa facilmente tòr via, e ad ogni modo nell’esperienza devono in definitiva trovarsi gli ultimi mezzi della decisione del dissidio, presto o tardi che essi abbiano a rintracciarsi. La morale può dare tutti i suoi princìpi anche in concreto e insieme le conseguenze pratiche, almeno in esperienze possibili, e così evitare il malinteso dell’astrazione.

Per contro, le affermazioni trascendentali, che si arrogano vedute che si estendono al di là del campo d’ogni possibile esperienza, né si trovano nel caso che la loro sintesi astratta possa esser data in qualche intuizione a priori, né son tali che il malinteso possa esser scoperto mercé una qualche esperienza. La ragione trascendentale non ci permette dunque altra pietra di paragone che il tentativo d’un accordo delle sue affermazioni tra loro stesse, e quindi, prima, di una gara di combattimento tra loro, libera e senza ostacoli; e a questa gara al presente noi vogliamo dar corso.

*Immanuel Kant, Critica della Ragion Pura, Editori Laterza Bari 1966, vol. II, pp. 350-353.

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