- Scrivi commento -- Leggi commenti ce ne sono (2)
Visite totali: (546) - Visite oggi : (1)
Questo giornale non ha scopo di lucro, si basa sul lavoro volontario e si sostiene con i contributi dei lettori Sostienici!
ISSN 2420-997X

Canali social "il dialogo"
Youtube
- WhatsAppTelegram
- Facebook - Sociale network - Twitter
Mappa Sito

www.ildialogo.org GALILEI, LA MATEMATICA, E LA CECITA' DI ODIFREDDI DINANZI A HEIDEGGER E RATZINGER. Due sue riflessioni - con una premessa e alcune note,a c. di Federico La Sala

MATEMATICA, ANTROPOLOGIA, E TEOLOGIA-POLITICA: ALTRO CHE MISTERO! GALILEO GALILEI E’ GALILEO GALILEI ... E LA TRASCENDENZA CRISTIANA NON E’ LA TRASCENDENZA DELL’ENTE CATTOLICO-ROMANO, DEL VATICANO!!! Cerchiamo di "non dare i numeri": il "Logos" non è un "Logo", e la "Charitas" non è la "caritas"!!!
GALILEI, LA MATEMATICA, E LA CECITA' DI ODIFREDDI DINANZI A HEIDEGGER E RATZINGER. Due sue riflessioni - con una premessa e alcune note

PERCHE' LA MATEMATICA? (...) il primo motivo per studiarla: perché chi viene forgiato da una logica ferrea, nella quale un solo segno sbagliato può provocare disastri irreparabili, non si accontenterà più dei non sequitur di Heidegger o di Ratzinger, e rimarrà felicemente sordo alle sirene della metafisica filosofica o teologica.


a c. di Federico La Sala

PREMESSA SUL TEMA:

 


Galileo, il più grande scrittore italiano
La sua lezione: Poesia e conoscenza non si escludono a vicenda

di Piergiorgio Odifreddi (il Fatto, 03.10.2012)

 

  • Anticipiamo parte della lectio magistralis con cui il matematico Piergiorgio Odifreddi inaugurerà domani l’Internet Festival di Pisa

 

Galileo è il più grande scrittore della letteratura italiana di ogni secolo. Affermazione perentoria, questa, che certamente farà sorridere di sufficienza il lettore umanista, pronto a consigliare al matematico di preoccuparsi degli argomenti di sua competenza. Peccato però che l’affermazione sia di uno dei nostri maggiori letterati: la fece infatti Italo Calvino sul Corriere della Sera il 24 dicembre 1967, non mancando di suscitare reazioni e proteste.

Carlo Cassola, ad esempio, saltò su a dire: “Ma come, credevo che fosse Dante! E poi, Galileo era scienziato e non scrittore”. Senza desistere, Calvino rispose precisando il suo pensiero su due piani. Il primo, interno, rilevava che “Galileo usa il linguaggio non come uno strumento neutro, ma con una coscienza letteraria, con una continua partecipazione espressiva, immaginativa, addirittura lirica”. Il secondo, esterno, notava che “Galileo ammirò e postillò quel poeta cosmico e lunare che fu Ariosto”, e che “Leopardi nello Zibaldone ammira la prosa di Galileo per la precisione e l’eleganza congiunte”.

In altre parole, Galileo sarebbe il medio proporzionale fra l’Ariosto e il Leopardi, e i tre identificherebbero un’ideale linea di forza della nostra letteratura.

Inutile dire che Calvino stesso si considerava un punto di questa linea, caratterizzata da una concezione della letteratura come mappa del mondo e dello scibile, e da uno stile intermedio fra il fiabesco realista e il realismo fiabesco. E niente forse esibisce questa comunanza di stili, più delle parallele e quasi identiche metafore che Galileo e Calvino fanno della scrittura stessa, come di un’interminabile e ininterrotta linea creata dal movimento della penna.

Leggiamo, infatti, nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo: “quei tratti tirati per tanti versi, di qua, di là, in su, in giù, innanzi, indietro, e intrecciati con centomila ritortole, non sono, in essenza e realissimamente, altro che pezzuoli di una linea sola tirata tutta per un verso medesimo’”.

La “scrittura rampante” del Dialogo sui massimi sistemi

Nelle ultime righe del Barone rampante si legge “Questo filo d’inchiostro, come l’ho lasciato correre per pagine e pagine, zeppo di cancellature, di rimandi, di sgorbi nervosi, di macchie, di lacune, che a momenti si sgrana in grossi acini chiari, a momenti si infittisce in segni minuscoli come semi puntiformi, ora si ritorce su se stesso, ora si biforca, ora collega grumi di frasi con contorni di foglie o di nuvole, e poi s’intoppa, e poi ripiglia a attorcigliarsi, e corre e corre e si sdipana e avvolge un ultimo grappolo insensato di parole idee sogni ed è finito”.

E allora, perché avviciniamo Calvino e gli scrittori per il puro piacere di leggere, e Galileo e gli scienziati soltanto per il dovere di conoscere? Non avrebbe senso portare le pagine del Dialogo sulle pubbliche piazze, allo stesso modo in cui Benigni declama i versi della Commedia? Col vantaggio, fra l’altro, di non essere costretti a sorbirci gli anacronismi del povero padre Dante, che con i suoi angeli e demoni oggi ci appare più un precursore dei fumettoni alla Dan Brown, che il cantore di una moderna visione del mondo? In fondo, “a voler dir lo vero”, sono proprio le bassezze cosmologiche, teologiche, filosofiche e politiche della Commedia a renderla così adatta agli altissimi spettacoli del nostro maggior comico.

Ma non sempre e non tutti abbiamo voglia di ridere, e a volte qualcuno potrebbe desiderare la seria lettura di pagine che fossero nobili e alte anche per il pieno contenuto, e non soltanto per la vuota forma. E che quelle di Galileo lo siano.

La nave su cui Galileo naviga letterariamente costituisce uno dei laboratori in cui si eseguono gli ideali esperimenti scientifici del Dialogo, e il fatto che su di essa la vita si svolga nella stessa identica maniera che sulla Terra, ad esempio per quanto riguarda la caduta di una palla di piombo o il volo di un insetto, dimostra la relatività galileiana: il fatto, cioè, che le leggi della meccanica sono invarianti rispetto a sistemi in moto uniforme, che risultano dunque indistinguibili fra loro da questo punto di vista.

Sulla Luna prima di Leopardi. E sulle leggi dell’universo prima di Einstein

Tre secoli dopo Albert Einstein userà analogamente treni e ascensori per argomentare a favore, rispettivamente, delle relatività speciale e generale: il fatto, cioè, che anche le leggi dell’elettromagnetismo sono invarianti rispetto a sistemi in moto uniforme, e che gravitazione e accelerazione producono effetti indistinguibili fra loro.

Ma niente dimostra meglio la differenza tra le metafore fini a se stesse della letteratura d’evasione, e quelle mirate a uno scopo della letteratura di divulgazione, dell’uso che Galileo fa della Luna. Prima di lui, e fino all’Ariosto, il viaggio sul nostro satellite e la sua geografia appartenevano infatti al genere fantasy, e i viaggi spaziali erano sorretti da inverosimili propulsioni: dalle trombe d’acqua della Storia vera di Luciano di Samosata all’ippogrifo dell’Orlando Furioso.

Portiamo pure a teatro Dante. Ma insieme a Newton e Galileo

Con la prima giornata del Dialogo la Luna invece cambia faccia. O meglio, mostra per la prima volta il suo vero volto, con i monti e le valli che il cannocchiale ha permesso di scoprire, e appare come la conosciamo oggi grazie alle foto dei telescopi, dei satelliti e degli astronauti. E anche meglio, perché né Galileo, né Keplero hanno avuto bisogno di andarci di persona per capire come si sarebbe vista la Terra dalla Luna, con variopinti risultati che superano ogni sbiadita invenzione poetica.

I poeti dell’inconscio, invece, della Luna sanno soltanto una cosa: che c’`e. Ma anche quelli dilettanti di astronomia non sanno molto di più, visto che persino il Leopardi amante di Galileo continuava a scrivere nel 1819 che la Luna “da nessuno cader fu vista mai se non in sogno”, benché fin dal 1687 Isaac Newton avesse non solo composto il verso che “la Luna cade continuamente verso la Terra”, ma aveva anche calcolato esattamente di quando essa cade.

Che si leggano pure nelle aule e nelle piazze i versi di Dante e Leopardi. Ma che si aggiungano ai programmi di scuola e di teatro anche e soprattutto le prose di Galileo e di Newton, per far gioire la mente con quella che già Pitagora chiamava la Poesia dell’Universo: una poesia che “intender non la puo’ chi non la prova”, e che “non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritta”.


SUL TEMA, SI CFR.:

 

 

HAI VINTO, O GALILEO! L’elogio "laicista" di Piergiorgio Odifreddi diventa per Michele Smargiassi (seguendo De Santillana) un "Hai vinto, Vaticano"!!! Come con Dante, una cecità storiografica (e teologico-politica) di lunga durata

MATEMATICA E ANTROPOLOGIA, ALTRO CHE MISTERO. GALILEO GALILEI E’ GALILEO GALILEI ... E LA TRASCENDENZA CRISTIANA NON E’ LA TRASCENDENZA "DELL’ENTE ...CATTOLICO-ROMANO", DEL VATICANO!!! Cerchiamo di "non dare i numeri": il "Logos" non è un "Logo", e la "Charitas" non è la "caritas"!!!

LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”.

______________________________________________________________________________ 
  • Perché la matematica?

    di Piergiorgio Odifreddi *

    Due settimane fa, l’inserto domenicale del New York Times ha pubblicato un articolo intitolato L’algebra è necessaria? A porsi la domanda non era ovviamente un matematico, o uno scienziato. Bensì, un politologo, preoccupato del fatto che ormai nelle scuole statunitensi la matematica sia diventata un ostacolo obbligatorio, che devono superare tutti coloro che poi vorranno iscriversi a qualunque tipo di corso di laurea all’università, scientifico o umanistico che sia.

    “Pure i poeti o i filosofi devono studiare la matematica alle superiori”, si scandalizzava il povero politologo! E il suo argomento era che è giusto far sudare sulle equazioni o i polinomi gli studenti che se lo meritano, perché vogliono diventare ingegneri o fisici. Ma perché mai torturare gli altri, così sensibili, che vogliono invece scrivere versi o dedicarsi alla metafisica?

    Da noi, queste cose le dicevano Croce e Gentile un secolo fa, e il bel risultato che si ottiene a non far studiare la matematica agli umanisti lo si vede anzitutto dalle loro opere filosofiche, appunto.

    Più in generale, non è certamente un caso che la filosofia analitica, che monopolizza il mondo anglosassone, sia così diversa da quella continentale, che domina nella vecchia Europa. Lo standard di rigore adottato dalla prima è infatti contrapposto allo stile letterario della seconda, e la matematica insegna anzitutto proprio quello standard.

    Questo è il primo motivo per studiarla: perché chi viene forgiato da una logica ferrea, nella quale un solo segno sbagliato può provocare disastri irreparabili, non si accontenterà più dei non sequitur di Heidegger o di Ratzinger, e rimarrà felicemente sordo alle sirene della metafisica filosofica o teologica.

    Naturalmente, la ragione ha una sua bellezza. Dunque, il secondo motivo per studiare la matematica è educare l’occhio o l’orecchio della mente, per essere in grado di vederla o sentirla, questa bellezza. In fondo, nessuno si chiede perché si creano e si fruiscono l’arte o la musica: semplicemente, sono espressioni dello spirito umano, che soddisfano ed elevano chi le intende. Ma pochi sanno che c’è tanta bellezza nei progetti di Fidia, nelle fughe di Bach o nei quadri di Kandinsky, quanta ce n’è nei teoremi di Pitagora, di Newton e di Hilbert.

    Gli esempi non sono scelti a caso. Perché nell’arte e nella musica ci sono, e ci sono sempre state, correnti razionaliste che parlano lo stesso linguaggio della matematica. E capire e apprezzare i loro prodotti richiede lo stesso grado di istruzione, e lo stesso livello di addestramento, che servono per capire e apprezzare i teoremi e le dimostrazioni. In entrambi i casi, all’insegna del motto che, certe cose, “intender non le può chi non le prova”.

    E’ ovvio che certa arte e certa musica, allo stesso modo della matematica, richiedono uno sforzo superiore di quello sufficiente per guardare una pubblicità, orecchiare una canzonetta o leggere un romanzetto. Anche scalare l’Himalaya o le Alpi è più impervio che andare a passeggio, ma solo così si possono conquistare le vette, delle montagne o della cultura. E questo è il terzo motivo per studiare la matematica: perché lo sforzo di concentrazione e lo studio assiduo che sono necessari per fruirla, vengono ampiamente ricompensati dalle altezze intellettuali a cui elevano coloro che li praticano.

    Infine, il quarto motivo per studiare la matematica è che serve. Senza le derivate e gli integrali, non avremmo la tecnologia meccanica ed elettromagnetica, dalle automobili ai telefoni. Senza la logica matematica, non ci sarebbero i computer. Senza la teoria dei numeri, i nostri pin sarebbero insicuri. Senza il calcolo tensoriale, i navigatori satellitari non funzionerebbero. Addirittura, senza la geometria non sarebbe stato scoperto il pallone da calcio.

    Ma senza tutte queste cose, non saremmo comunque meno uomini, o uomini peggiori. Senza la ragione, la bellezza e la cultura, invece, sì. E’ per questo che la giustificazione utilitaristica, che di solito viene invocata per prima, qui appare non solo come last, ma anche come least: cioè, per ultima, anche in ordine di importanza.

    la Repubblica. 28 ago 2012

 



Sabato 06 Ottobre,2012 Ore: 12:27
 
 
Commenti

Gli ultimi messaggi sono posti alla fine

Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 07/10/2012 08.55
Titolo:L'INDICAZIONE CRITICA DI MAX BORN E LA LEZIONE DI KANT ...
LEZIONE CRITICA PER TUTTI (NON SOLO PER I FILOSOFI, MA ANCHE PER I MATEMATICI).

«I filosofi, muovendosi in mezzo al concetto di infinito senza l’ esperienza e le precauzioni dei matematici, sono come navi immerse nella nebbia in un mare pieno di scogli pericolosi, e ciononostante felicemente ignari del pericolo» (Max Born)

____________________________________________________________________

ANTITETICA DELLA RAGION PURA

di Immanuel Kant *

Se Tetica è ogni insieme di dottrine dommatiche, io intendo per Antitetica, non affermazioni dommatiche del contrario, ma il conflitto di conoscenze secondo l’apparenza dommatiche (thesin cum antithesi), senza che si annetta all’una piuttosto che all’altra uno speciale diritto all’assenso.

L’Antitetica, dunque, non si occupa punto di affermazioni unilaterali, ma prende a considerare le conoscenze universali della ragione solo pel conflitto di esse tra loro e per le cause di tal conflitto. L’Antitetica trascendentale è una ricerca intorno all’antinomia della ragion pura, le sue cause e il suo risultato.

Quando noi rivolgiamo la nostra ragione non semplicemente, per l’uso dei princìpi dell’intelletto, agli oggetti dell’esperienza, ma ci avventuriamo ad estenderla al di là dei limiti di questa, allora vengon fuori proposizioni sofistiche, che dalla esperienza non possono né sperare conferma, né temere confutazione; ciascuna delle quali non soltanto è in se stessa senza contraddizione, ma trova perfino nella natura della ragione le condizioni della sua necessità; solo che, disgraziatamente, il contrario ha dalla parte sua ragioni altrettanto valide e necessarie di affermazione.

Le questioni che si presentano naturalmente in una tale dialettica della ragion pura, son dunque: 1) In quali proposizioni propria mente la ragion pura è soggetta inevitabilmente a una antinomia. 2) Su quali cause si fonda questa antinomia. 3) Se nondimeno, e in qual modo, alla ragione, in questo conflitto, resti aperta una via alla certezza.

Un teorema dialettico della ragion pura deve, dunque, avere in sé questo, che lo distingua da tutte le proposizioni sofistiche: che non concerna una questione arbitraria, che non si solleva se non per un certo scopo voluto, ma sia una questione siffatta, che ogni ragione umana nel suo cammino vi si deve necessariamente imbattere; e in secondo luogo, che così essa come la contraria porti seco non soltanto un’apparenza artificiosa, che, se uno l’esamini, dilegua tosto, ma un’apparenza naturale e inevitabile, che, quando anche uno non ne sia più ingannato, illude pur sempre, sebbene non riesca più a gabbare; e però può bensì esser resa innocua, ma non può giammai venire estirpata.

Una tale dottrina dialettica non si riferirà all’unità intellettuale di concetti d’esperienza, ma all’unità razionale di semplici idee, le cui condizioni - poiché primieramente, come sintesi secondo regole, essa deve accordarsi con l’intelletto, e pure, insieme, come unità assoluta di essa, con la ragione, - se essa è adeguata all’unità della ragione, saranno troppo grandi per l’intelletto, e se proporzionata all’intelletto, troppo piccole per la ragione; dal che deve sorgere un conflitto, che non si può evitare, donde che si prendano le mosse.

Queste affermazioni sofistiche aprono dunque una lizza dialettica, dove ogni parte cui sia permesso di dar l’assalto ha il disopra, e soggiace di sicuro quella che è costretta a tenersi sulla difensiva. Quindi anche i cavalieri gagliardi, s’impegnino essi per la buona o per la cattiva causa, sono sicuri di riportare la corona della vittoria, se badano solo ad avere il privilegio di dar l’ultimo assalto senza essere più obbligati a sostenere un nuovo attacco dell’avversario.

Si può facilmente immaginare, che questo arringo pel passato è stato abbastanza spesso corso, che molte vittorie sono state guadagnate da ambo le parti; ma per l’ultima, che decide la cosa, si è sempre badato che il difensore della buona causa tenesse solo il terreno, e così fosse impedito all’avversario di impugnare più oltre le armi. Come giudici di campo imparziali, dobbiamo mettere affatto da parte, se sia la buona o la cattiva causa quella che i combattenti sostengono, e lasciar che essi se la sbrighino prima tra loro. Forse, dopo essersi l’un l’altro più stancati che danneggiati, essi scorgeranno da se stessi la vanità della loro lotta e si separeranno da buoni amici.

Questo metodo di assistere a un conflitto di affermazioni, o piuttosto di provocarlo da sé, non per decidere alla fine in favore dell’una o dell’altra parte, ma per ricercare se l’oggetto di esso non sia forse una semplice illusione, che ciascuno vanamente s’affanna ad acchiappare, e in cui ei non può nulla guadagnare, quand’anche non gli si resistesse punto: questo metodo, dico, si può chiamare metodo scettico.

Esso è da distinguere del tutto dallo scetticismo, principio di una inscienza secondo arte e scienza1, che spianta le fondamenta d’ogni cognizione, per non lasciarle, possibilmente, in nessuna parte alcuna certezza e sicurezza. Giacché il metodo scettico mira alla certezza, in quanto cerca di scoprire in un tale combattimento, onestamente inteso da ambo le parti e condotto con intelligenza, il punto dell’equivoco, per fare come i saggi legislatori, che dall’imbarazzo dei giudici nell’amministrazione della giustizia ricavano per sé un ammaestramento intorno a ciò che di manchevole e non abbastanza determinato è nelle loro leggi. L’antinomia, che si rivela nell’applicazione delle leggi, è per la nostra limitata sapienza la maggior prova d’esame della nomotetica, per rendere così attenta la ragione, che nella speculazione astratta non s’accorge facilmente dei suoi passi falsi, ai momenti della determinazione dei suoi princìpi.

Ma codesto metodo scettico è essenzialmente proprio solo della filosofia trascendentale; e in ogni modo, può farsene a meno in ogni altro campo di ricerche, solo in questo no.

Nella matematica il suo uso sarebbe assurdo: poiché in essa non può restar nascosta e sfuggire all’occhio nessuna falsa affermazione, in quanto le dimostrazioni vi debbono sempre procedere al filo dell’intuizione pura, e mediante una sintesi sempre evidente.

Nella filosofia sperimentale può bene un dubbio sospensivo esser utile; se non che, nessun malinteso, almeno, è possibile, il quale non si possa facilmente tòr via, e ad ogni modo nell’esperienza devono in definitiva trovarsi gli ultimi mezzi della decisione del dissidio, presto o tardi che essi abbiano a rintracciarsi. La morale può dare tutti i suoi princìpi anche in concreto e insieme le conseguenze pratiche, almeno in esperienze possibili, e così evitare il malinteso dell’astrazione.

Per contro, le affermazioni trascendentali, che si arrogano vedute che si estendono al di là del campo d’ogni possibile esperienza, né si trovano nel caso che la loro sintesi astratta possa esser data in qualche intuizione a priori, né son tali che il malinteso possa esser scoperto mercé una qualche esperienza. La ragione trascendentale non ci permette dunque altra pietra di paragone che il tentativo d’un accordo delle sue affermazioni tra loro stesse, e quindi, prima, di una gara di combattimento tra loro, libera e senza ostacoli; e a questa gara al presente noi vogliamo dar corso.

*Immanuel Kant, Critica della Ragion Pura, Editori Laterza Bari 1966, vol. II, pp. 350-353.
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 10/10/2012 16.10
Titolo:Da Einstein all’ultimo Nobel, se in classe il genio era un somaro ...
- Da Einstein all’ultimo Nobel, se in classe il genio era un somaro
- Spunta la pagella del biologo premiato a Stoccolma: “Un disastro”

- di Elena Dusi (la Repubblica, 10.10.2012)

PER togliersi il sassolino dalla scarpa ci ha messo 64 anni. Ma l’effetto è stato grandioso. Il Nobel per la Medicina John Gurdon, giudicato al liceo troppo stupido per fare lo scienziato, ha dedicato ieri al suo prof una frase pronunciata con un ghigno di vittoria: «Andavo a scuola. A 15 anni seguii il mio primo semestre di scienze. Il professore nel giudizio finale scrisse che la mia idea di questo mestiere era ridicola. Le sue frasi posero fine al mio rapporto con la scienza a scuola».

La pagella della Eton School è incorniciata e appesa nello studio di Gurdon a Cambridge: «Quando gli esperimenti non riescono, mi diverto a pensare che l’insegnante avesse ragione». Il giovane John nel 1949 aveva avuto il punteggio più basso fra i 250 ragazzi del corso di biologia. «È stato un semestre disastroso» scrisse l’insegnante. «Il suo lavoro è stato di gran lunga insoddisfacente. Impara male e i fogli dei suoi test sono pieni di strappi. In una prova ha preso il punteggio di 2 su 50. Spesso si trova in difficoltà perché non ascolta, ma insiste a fare le cose di testa sua. Ho sentito che Gurdon ha intenzione di diventare scienziato. Allo stato attuale, mi sembra una cosa ridicola. Se non può nemmeno imparare i fatti basilari della biologia, non ha chance di fare il lavoro di uno specialista. Sarebbe una pura perdita di tempo per lui e per quelli che dovranno insegnargli».

Quanto ad acume predittivo, il prof di Gurdon era in buona compagnia. Quello di Einstein scrisse: «Non arriverà mai da nessuna parte». E il padre della relatività sembrò dargli ragione quando a 16 anni fu respinto dal Politecnico di Zurigo. Ma non è vero che i suoi punti deboli fossero matematica e scienze, anzi. Einstein aveva voti bassi in francese, geografia e disegno. Peggio di lui Stephen Hawking, che degli anni universitari ricorda «la noia e la sensazione che non ci fosse nulla per cui valesse la pena sforzarsi». L’astrofisico inglese studiava non più di un’ora al giorno, non si sentiva dotato e confessò di aver imparato a leggere a 8 anni. Ma quando a 21 gli diagnosticarono la Sla, ha raccontato, ricevette una frustata: «Capii che sarei morto presto e che c’erano molte cose da fare prima ».

«Un ragazzo al di sotto degli standard comuni di intelletto » secondo i suoi insegnanti e «una disgrazia per sé e la famiglia» secondo suo padre. Charles Darwin, dopo un’esperienza disastrosa a medicina, fu apostrofato dal genitore così: «Non pensi ad altro che alla caccia e ai cani». Il giovane Charles fu indirizzato verso la carriera religiosa, ma per fortuna della teoria dell’evoluzione risultò un disastro anche lì. Di Thomas Edison a 8 anni il suo maestro disse che era «confuso ». Sua madre lo ritirò dalla scuola dopo tre anni per educarlo personalmente. Non scienziato ma politico, Churchill era secondo il maestro delle elementari «un costante disturbo, sempre pronto a ficcarsi in qualche guaio».

Il sistema educativo anglosassone non è il solo a soffocare i giovani geni. Margherita Hack in terza media fu rimandata in matematica e oggi ricorda: «Studiavo, ma il professore mi aveva preso in uggia. Tenevo sempre gli occhi bassi facendo finta di leggere qualcosa sotto al banco. Ma non avevo nulla, era solo uno scherzo. Un giorno lui si avventò su di me e trovò un giornale dentro alla cartella, che però era chiusa, arrabbiandosi moltissimo. Comunque è vero, la scienza studiata a scuola è molto diversa da quella che si affronta più tardi, come professione ». A disagio con matematica e scienza era anche Rita Levi Montalcini. Ma il futuro Nobel per la medicina attribuì le sue difficoltà al fatto che le medie Margherita di Savoia di Torino puntavano a formare brave spose e madri di famiglia. Non scienziate.
______________________________________________________________________

La scuola, per loro un male necessario

di Piergiorgio Odifreddi (la Repubblica, 10.10.2012)

MA LASCIATA a se stessa rimane sicuramente animale. Con buona pace di Gibbon, è più probabile che la scuola sia sempre necessaria, eccetto nei casi in cui è dannosa. Le porte delle scuole devono dunque rimanere aperte a tutti, eccetto a chi è in grado di sviluppare un pensiero indipendente e di guardare al mondo con uno sguardo non convenzionale. Cercare infatti di imbrigliare una tale persona nel sapere comune può appunto tarpargli le ali, e impedirgli di sviluppare le proprie potenzialità. E se non lo fa, crea comunque un ostacolo contro il quale il genio si trova a scontarsi, a volte in maniera tragica e con risultati fatali.

È il caso di Évariste Galois, ad esempio, l’inventore dell’algebra moderna, che fu rifiutato per due volte all’Ècole Polytechnique per la sua incapacità di superare gli esami convenzionali, e morì in duello a vent’anni. Meno tragici, ma sempre emblematici, sono i casi di Albert Einstein ed Henri Poincaré, i due massimi fisici teorici del periodo a cavallo tra Ottocento e Novecento, che trovarono entrambi molte difficoltà a scuola.

Naturalmente, un genio che non vada a scuola rischia di diventare un fenomeno da baraccone, con una cultura squilibrata e incompleta. Per questo la scuola dovrebbe cercare di «dare a ciascuno secondo i propri bisogni intellettuali, e pretendere da ciascuno secondo le proprie possibilità mentali». Ma chi potrebbe pensare e programmare una tale scuola, se non un genio? Cioè, una delle persone meno adatte a farlo?

Ti piace l'articolo? Allora Sostienici!
Questo giornale non ha scopo di lucro, si basa sul lavoro volontario e si sostiene con i contributi dei lettori

Print Friendly and PDFPrintPrint Friendly and PDFPDF -- Segnala amico -- Salva sul tuo PC
Scrivi commento -- Leggi commenti (2) -- Condividi sul tuo sito
Segnala su: Digg - Facebook - StumbleUpon - del.icio.us - Reddit - Google
Tweet
Indice completo articoli sezione:
Filosofia

Canali social "il dialogo"
Youtube
- WhatsAppTelegram
- Facebook - Sociale network - Twitter
Mappa Sito


Ove non diversamente specificato, i materiali contenuti in questo sito sono liberamente riproducibili per uso personale, con l’obbligo di citare la fonte (www.ildialogo.org), non stravolgerne il significato e non utilizzarli a scopo di lucro.
Gli abusi saranno perseguiti a norma di legge.
Per tutte le NOTE LEGALI clicca qui
Questo sito fa uso dei cookie soltanto
per facilitare la navigazione.
Vedi
Info