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ISSN 2420-997X

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www.ildialogo.org "NUOVO REALISMO": NEL CORTILE DI GENTILE, UN POSSIBILE CONCORDATO (SEMPRE CONTRO KANT). FERRARIS APRE A SEVERINO, E TUTTI E DUE CONTRO VATTIMO (E I PENSATORI "DEBOLI"). L'intervento di Severino e la risposta di Ferraris - con note,a c. di Federico La Sala

FILOSOFIA E POLITICA: LA "NUOVA" ALLEANZA PER UNA FILOSOFIA SENZA PIU' "FACOLTA' DI GIUDIZIO" E PER LA GLORIA DELL'"UOMO DELLA PROVVIDENZA" NELL'APPARIZIONE DEL TUTTO ....
"NUOVO REALISMO": NEL CORTILE DI GENTILE, UN POSSIBILE CONCORDATO (SEMPRE CONTRO KANT). FERRARIS APRE A SEVERINO, E TUTTI E DUE CONTRO VATTIMO (E I PENSATORI "DEBOLI"). L'intervento di Severino e la risposta di Ferraris - con note

FERRARIS: "non prevedevo che un grande filosofo (che considero non un fenomeno, ma una cosa in sé: una persona con caratteristiche insostituibili e indipendenti dal mio pensiero) come Severino decidesse di intervenire sul realismo con tanta ampiezza e profondità. Lo ringrazio di nuovo, e spero che trovi questa risposta soddisfacente, o almeno tale da aprire un dialogo".


a c. di Federico La Sala

NOTE SUL TEMA:

KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI"). Una pagina di Kant e una nota di Federico La Sala

GIOVANNI GENTILE E IL SONNO DOGMATICO PRESENTE: STATO DI MINORITA’ E FILOSOFIA COME RIMOZIONE DELLA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. Una ’lezione’ di un Enrico Berti, che non ha ancora il coraggio di dire ai nostri giovani che sono cittadini sovrani. Una sua riflessione 

ALL’OMBRA DELL’UOMO DELLA PROVVIDENZA: 2002-2012, DIECI ANNI DI FILOSOFIA AL "SAN RAFFAELE".  Un "avviso a pagamento" di Massimo Cacciari, Edoardo Boncinelli, Elena Loewenthal, Alberto Martinelli, Angelo Panebianco, Giovanni Reale, Marco Santambrogio, Emanuele Severino, Vincenzo Vitiello (fls)

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Il senso del Nuovo Realismo


Altro che Nietzsche, il nucleo sfugge se non si riscopre il pensiero di Gentile
Una prospettiva filosofica largamente diffusa in Italia e ancor più all’estero ha alimentato un vivace dibattito.  Con una grave lacuna

 

di Emanuele Severino (Corriere della Sera/ La Lettura, 16.09.2012)

A proposito del «nuovo realismo», una prospettiva filosofica oggi largamente diffusa, sono stati recentemente pubblicati vari scritti. Mi limiterò qui a due di essi, con l’intento di mostrare come persista il silenzio su uno dei tratti più importanti della cultura contemporanea.

Ho altre volte richiamato quanto sia decisivo il nucleo essenziale del pensiero filosofico del nostro tempo. Sebbene possa sembrare inverosimile, tale nucleo è infatti ciò che fa diventar reale la dominazione del mondo da parte della tecnica - destinata a questo dominio nonostante altre candidature, ad esempio quella capitalistica, politica, religiosa, e anche se la tecno-scienza (ma non solo essa) non è ancora in grado di prestare autenticamente ascolto alla filosofia. Quel nucleo mette in luce che ogni Limite assoluto all’agire dell’uomo, cioè ogni Essere e ogni Verità immutabile della tradizione metafisica, è impossibile; e dicendo questo non solo autorizza la tecnica a oltrepassare ogni Limite, ma con tale autorizzazione le conferisce la reale capacità di superarlo. Non si salta un fosso se non si sa di esserne capaci; e quel nucleo dice alla tecnica che essa ne è capace.

Tra i pochi abitatori del nucleo essenziale c’è sicuramente Nietzsche. Ma anche Giovanni Gentile, la cui radicalità è ben superiore a quella di altre pur rilevanti figure filosofiche, di cui tuttavia continuamente si parla. Invece su Gentile il silenzio, in Italia, è preponderante (sebbene non totale, anche per merito di alcuni miei allievi). All’estero, poi, sia nella filosofia di lingua inglese, sia in quella «continentale», di Gentile, direi, non si conosce neppure il nome. La cosa è interessante, soprattutto in relazione al tema filosofia-tecnica a cui accennavo.

Infatti, nonostante i luoghi comuni, la filosofia gentiliana è un potente alleato della tecnica, sì che il silenzio su Gentile è un elemento frenante, «reazionario», rispetto alla progressiva emancipazione planetaria della tecno-scienza. Argomento di primaria importanza sarebbe quindi la chiarificazione dei motivi che producono quel silenzio. Qui vorrei però limitarmi - come ho incominciato a dire - al tema, molto più modesto, riguardante alcune conferme di tale silenzio e alcune implicazioni.

Per Gianni Vattimo, sostenitore della filosofia ermeneutica (Heidegger, Gadamer eccetera), e cioè «antirealista», la critica alla «concezione metafisica della verità» sarebbe una «scoperta» di Heidegger (Della realtà, Garzanti, 2012). Si tratta della critica alla definizione di «verità» come «corrispondenza tra intellectus e res», tra «l’intelletto» e «la cosa». In tutto il libro Gentile non è mai citato.

Ma ben prima di Heidegger, e con maggior nitore, Gentile aveva già mostrato (rendendo radicale l’idealismo hegeliano) l’insostenibilità di quella definizione. In sostanza - egli argomentava - per sapere se l’intelletto corrisponda alla cosa, intesa come «esterna» alla rappresentazione che l’intelletto ne ha, è necessario che il pensiero confronti la rappresentazione dell’intelletto con la cosa; la quale, quindi, in quanto in tale confronto viene ad essere conosciuta, non è «esterna» al pensiero, ma gli è «interna».

Ciò significa che il pensiero, per essere vero, non ha bisogno e non deve «corrispondere» ad alcuna cosa «esterna». Solo che Vattimo si fa guidare, prendendolo alla lettera, da un appunto di Nietzsche in cui si annota - probabilmente per studiarne il senso - che «non ci sono fatti, ma solo interpretazioni» e che «anche questa è un’interpretazione», ossia una prospettiva che si forma storicamente e che quindi è revocabile, sostituibile. Poiché Vattimo intende tener ferma questa «sentenza» di Nietzsche, dovrà dire allora che anche la critica alla concezione metafisica della verità è un’interpretazione, ossia qualcosa di revocabile.

Capisco quindi che egli consideri anche la propria filosofia soltanto come un’«interpretazione rischiosa», una «scelta», una «volontà» le cui motivazioni sono soltanto decisioni etico-politiche (pagina 53): «Come Heidegger, noi vogliamo uscire dalla metafisica oggettivistica perché la sentiamo come una minaccia alla libertà e alla progettualità costitutiva dell’esistenza» (pagina 122, corsivo mio).

In sostanza, come tanti altri, esclude ogni verità incontrovertibile perché altrimenti libertà e democrazia verrebbero distrutte; ma in questo modo mostra di considerare come verità incontrovertibile la difesa della libertà e della democrazia (la qual cosa è soltanto una bandiera politica o teologica). Oppure - chiedo a lui e a tanti altri - anche l’affermazione che la libertà è «costitutiva» dell’esistenza è solo un’interpretazione revocabile?

En passant, egli è stranamente fuori strada quando mi attribuisce l’intento di oltrepassare la metafisica «attraverso la restaurazione di fasi precedenti del suo sviluppo» (pagina 164 e seguente), e pertanto rifacendomi a Heidegger. Il quale però sostiene che l’Essere è «evento» (contingenza e storicità assoluta, assoluto divenire) e che anche le cose sono avvolte da questo carattere; mentre i miei scritti sostengono che ogni cosa è un essere eterno. E infatti essi indicano qualcosa di abissalmente lontano anche dalla filosofia gentiliana, che afferma la totale storicità del contenuto del pensiero (sebbene Gentile differisca da Heidegger perché, platonicamente, intende il Pensiero come indiveniente).

Comunque, già l’idealismo classico tedesco, soprattutto quello hegeliano, è ben consapevole dell’impossibilità che la verità sia corrispondenza o adeguazione dell’intelletto a una realtà esterna, e tuttavia l’idealismo è una grande metafisica; sì che la critica a tale corrispondenza toglie di mezzo solo un certo tipo di metafisica. Per mostrare l’impossibilità di ogni Limite assoluto, metafisico, all’agire dell’uomo, e in generale al divenire delle cose, occorre altro, che, ripeto, è sì presente in Nietzsche e in Gentile (e in pochi altri, come Leopardi), ma non in Heidegger. Né qui intendo indicare ciò che occorre e che sopra chiamavo il «nucleo essenziale» della filosofia del nostro tempo.

Se Vattimo, che condivide la critica heideggeriana alla verità come corrispondenza, su questo punto è inconsapevolmente d’accordo con Gentile, invece un filosofo tedesco, Markus Gabriel sostiene ora un «nuovo realismo» (che peraltro condivide con molti altri) al quale forse rinuncerebbe se conoscesse Gentile. Egli non è d’accordo con Heidegger, né quindi con Vattimo, ma è d’accordo con Maurizio Ferraris (non più allievo di Vattimo), che presenta in Italia il libro di Gabriel Il senso dell’esistenza (Carocci, 2012). Vi si sostiene subito un «argomento» che conduce alla tesi seguente: «C’è qualcosa che noi non abbiamo prodotto, e proprio questo esprime anche il concetto di verità» (pagina 21).

L’«argomento» è che, una volta ammesso che «noi» produciamo qualcosa, noi però non produciamo il «fatto» consistente nell’esser produttori di qualcosa - il «fatto» che dunque è indipendente da «noi», Gabriel lascia indeterminato il significato di quel «noi» (sebbene egli interpreti in modo a volte condivisibile l’idealismo tedesco).

Ma l’idealista e quell’idealista rigoroso che è Gentile risponderebbero che, certo, questo o quell’individuo non producono il «fatto» consistente nella produzione umana di qualcosa, e tuttavia questo «fatto» è pensato (anche da Gabriel, sembra) e, in quanto pensato, non può essere, come invece questo libro sostiene, una «realtà indipendente» dal pensiero, ossia da «noi» in quanto pensiero.

«Io propongo di definire l’esistenza come l’apparizione-in-un-mondo», scrive Gabriel (pagina 46). Intendo: l’apparizione di qualcosa in un mondo. Ma nel suo libro non ho trovato alcun chiarimento sul significato del termine chiave «apparizione». Chi legge quanto vado scrivendo ne conosce l’importanza. L’apparizione non è il qualcosa (o «ente») che appare (anche se essa stessa è un ente). Se Gabriel intende che c’è apparizione di un mondo anche senza che appaia questo o quell’individuo empirico, allora, su questo punto, sono d’accordo con lui da più di mezzo secolo. Ma allora si dovrà dire che ciò che esiste è ciò che appare (e un caso di esistenza è l’apparire in cui tutto-ciò-che-non-appare appare, appunto, come «tutto ciò che non appare»). Ma Gabriel intende così l’«apparizione»?

Per lui ciò che esiste, esiste necessariamente «all’interno di un campo di senso», cioè all’interno di un contesto. Se il motivo è (come mi sembra di capire) che qualcosa esiste solo in quanto differisce da ciò che è altro da esso, sì che questo «altro» è il contesto del qualcosa, sono d’accordo (ma esortando Gabriel a rendersi conto che egli, contrariamente ai suoi intenti, sta sollevando il principio di non contraddizione - ossia il differire dal proprio «altro» - al rango di assoluto principio incontrovertibile). Ma dalla necessità che l’esistente abbia un contesto egli crede di dover concludere che qualcosa come «il Tutto», la «totalità degli enti», non può esistere perché il Tutto non può avere un contesto, e non può nemmeno contenere se stesso, giacché è necessario che il Tutto, in quanto contenente differisca dal Tutto in quanto contenuto (pagina 52 e seguenti).

Mi limito a rilevare che, poiché il Tutto è l’«apparizione» del Tutto (anche per Gabriel dovrebbe esserlo), allora questa apparizione contiene se stessa proprio perché il Tutto contenente è lo stesso Tutto contenuto: il contenente è insieme il contenuto e il contenuto è insieme il contenente.

Da gran tempo i miei scritti si sono soffermati su questo tema come su quello del significato che compete all’affermazione che il «nulla» è il contesto del Tutto. (A proposito del tema del «nulla» è curioso che Vattimo, per il quale - come per Gabriel e l’intera cultura del nostro tempo - tutto è contingente, neghi a un certo punto - pagina 60 - l’annullamento delle cose. Curioso, dico, perché senza il loro annullamento e nullità iniziale non si vede in che possa consistere la loro contingenza e storicità).

L’idealismo assoluto di Gentile è poi un assoluto realismo, perché il contenuto del pensiero non è una rappresentazione fenomenica della realtà esterna, ma è la realtà in se stessa. Un rilievo, questo, che potrebbe invogliare Gabriel e i vari neo-realisti a studiare Gentile. E a studiare lo sfruttamento in senso realistico che di Gentile è stato dato da Gustavo Bontadini (del cui pensiero è uscita recentemente una puntuale ricostruzione, Gustavo Bontadini, di Luca Grion, edita dalla Lateran University Press nella collana dedicata ai «Filosofi italiani del Novecento», che la Chiesa non ritiene quindi opportuno passare sotto silenzio).

Certo, la difficoltà maggiore è capire il carattere «trascendentale» del pensiero, che si è presentato in modo sempre più rigoroso da Kant all’idealismo tedesco e al neohegelismo di Gentile. L’«al di là» di ogni pensiero, l’«assolutamente Altro», l’«Ignoto», gli infiniti tempi in cui l’uomo non c’era e non ci sarà: ebbene, di tutto questo possiamo parlare solo in quanto tutto questo è pensato. Per questo Gentile afferma che il pensiero non può essere trasceso e che è esso a trascendere tutto ciò che si vorrebbe porre al di là di esso e come indipendente da esso. Questo trascendimento è la verità.

L’idealistica trascendentalità del pensiero è stata sostituita oggi dal consenso, cioè dall’accordo sociale su un insieme di convinzioni. Insieme a molti altri Popper vede nel consenso il fondamento della verità. È vero ciò su cui la comunità più ampia possibile è d’accordo. Anche Vattimo sostiene questo concetto della verità: per lui il linguaggio, entro cui tutto si presenta, è il linguaggio della «comunità», giacché «siamo esseri storici e "la massima evidenza disponibile qui e ora" si costruisce solo con un accordo, che può essere messo in questione e rinegoziato» (pagina 109).

Ma, daccapo, questa sua affermazione è una verità incontrovertibile? Oppure che gli uomini esistano, ed esistano storicamente, accordandosi o discordando, è soltanto un accordo rinegoziabile? Rinegoziando, non ci si potrebbe forse trovar d’accordo nel far rivivere la metafisica e altre cose non desiderate dalla filosofia ermeneutica? Ma soprattutto a Heidegger (non solo a lui) andrebbe chiesto come mai, se il suo intento è di prendere le distanze da ogni evidenza oggettiva, la configurazione dello sviluppo storico (la sequela delle «epoche» dell’Essere) finisca col valere, nel suo discorso, come un’evidenza oggettiva e indiscutibile.


 

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Perché la multa è una cosa in sè

Il dibattito sul nuovo realismo: risposta a Severino

di Maurizio Ferraris (la Repubblica, 18.09.2012)

  • Il dibattito sul Nuovo Realismo è iniziato dal Manifesto di Ferraris uscito su Repubblica l’8/8/2011 e ora saggio per Laterza

Emanuele Severino, domenica scorsa, su La lettura del Corriere della Sera, rimprovera al nuovo realismo di non tener conto della “svolta trascendentale” del pensiero, avviata da Kant e realizzata da Gentile. Per questa svolta, il pensiero è il primo e immediato oggetto della nostra esperienza, e noi non abbiamo contatto con nessun mondo “là fuori”, se non appunto tramite la mediazione del pensiero e delle sue categorie. In altri termini, e richiamandoci alle cose - il tema del festival di filosofia appena conclusosi a Modena - noi non abbiamo mai a che fare con cose in sé, ma sempre e soltanto con fenomeni, con cose che appaiono a noi.

In effetti, i realisti sono ben consapevoli della rilevanza storica di questa svolta, ma non ne sono convinti per motivi teorici. Questi: la svolta trascendentale ci pone in una perenne contraddizione, e fa sì che, nei nostri rapporti con il mondo, siamo afflitti da uno strabismo divergente. Da una parte, nella vita di tutti i giorni, siamo dei realisti ingenui, convinti che le cose siano quello che appaiono. Dall’altra, siamo degli idealisti costretti a pensare che nulla esorbita dal nostro pensiero e che non abbiamo a che fare con cose, ma con dati di senso, fenomeni, apparenze.

La versione moderna dell’idealismo gentiliano, e cioè il postmodernismo, dice invece che tutto è socialmente costruito (di passaggio, Severino ha perfettamente ragione nel notare che i postmodernisti non hanno riconosciuto il loro debito nei confronti di Gentile). La domanda che si pone il realismo, allora, è semplicemente: è davvero così, o non è una superstizione filosofica, una abitudine inveterata e niente più?

Prendiamo gli oggetti naturali. Per Kant (e a maggior ragione per Gentile, che lo estremizza) sono dei fenomeni per eccellenza: sono situati nello spazio e nel tempo, che però non sono cose che si diano in natura. Stanno nella nostra testa, insieme alle categorie con cui diamo ordine al mondo, al punto che se non ci fossero uomini potrebbe non esserci né lo spazio né il tempo. Se ne dovrebbe concludere che prima degli uomini non c’erano oggetti, almeno per come li conosciamo, ma chiaramente non è così. I fossili ci tramandano esseri che sono esistiti prima di qualunque essere umano, prima di Gentile, prima di Berkeley, prima di Cartesio e prima di qualunque “io penso” in generale.

Come la mettiamo? E come spieghiamo il fenomeno, comunissimo, del giocare con il nostro gatto? Visto che lui ha schemi concettuali e apparati percettivi diversi dai nostri, dovrebbe vivere in un altro mondo, altro che giocare con noi (inoltre, se davvero Gentile avesse ragione, ogni gioco, non solo con il gatto ma anche con un amico, sarebbe virtualmente un solitario).

Ma a ben vedere anche gli oggetti sociali, che dipendono dai soggetti (pur non essendo soggettivi) sono cose in sé e non fenomeni. Questo sulle prime può apparire complicato perché se gli oggetti sociali dipendono da schemi concettuali, allora sembra ovvio che siano dei fenomeni. Ma non è così.

Per essere un fenomeno non basta dipendere da schemi concettuali. Per essere un fenomeno bisogna anche contrapporsi a delle cose in sé. Prendiamo una multa. Quale sarebbe il suo in sé? Dire che una multa è una multa apparente significa semplicemente dire che non è una multa. Una multa vera e propria è una cosa in sé, così come è una cosa in sé e non semplicemente un riflesso del nostro pensiero la crisi economica che ci provoca tante preoccupazioni. Soprattutto, sono cose in sé le persone, che nella prospettiva di Gentile si trasformerebbero in fantasmi, in umbratili proiezioni del pensiero.

E adesso veniamo agli eventi, cose come gli uragani o gli incidenti d’auto. Che spesso sono imprevedibili. L’irregolarità, ciò che disattende i nostri dati e attese, è la più chiara dimostrazione del fatto che il mondo è molto più esteso e imprevedibile del nostro pensiero. Come nel caso della sorpresa, che - se non si è pessimisti, e soprattutto se si è fortunati - può anche essere bellissima. Per esempio, non prevedevo che un grande filosofo (che considero non un fenomeno, ma una cosa in sé: una persona con caratteristiche insostituibili e indipendenti dal mio pensiero) come Severino decidesse di intervenire sul realismo con tanta ampiezza e profondità. Lo ringrazio di nuovo, e spero che trovi questa risposta soddisfacente, o almeno tale da aprire un dialogo.



Mercoledì 19 Settembre,2012 Ore: 11:35
 
 
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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 19/9/2012 12.41
Titolo:IL POPULISMO FILOSOFICO ....
La filosofia popolare e il populismo filosofico

Perché si può parlare di certi temi ai festival ma bisogna evitare le semplificazioni

di Pier Aldo Rovatti (la Repubblica, 19.09.2012)

Una volta, tanti anni fa, andai in televisione a parlare di filosofia. Il programma, allestito da Rai Educational, si chiamava “Il grillo”. Ero circondato da studenti delle scuole superiori, c’era un tema, e poi dovevo fare tutto da solo, compresa un’autopresentazione. “A cosa serve la filosofia?”, questa era la domanda; avevo un’ora (televisivamente, un tempo enorme) per rispondere assieme ai ragazzi. Me la cavai dicendo che a rigore la filosofia non serviva a nulla, tranne che a interrogarsi in modo critico attorno al senso della parola “servire”.

Non si combatte il populismo filosofico chiudendosi in casa (o nel proprio studiolo, o nella propria aula, che è una specie di casa), insomma rivendicando un atteggiamento elitario. Semmai lo si affronta davvero solo “scendendo in piazza” e rischiando di abbandonare il comodo piedistallo dello studioso solitario o attorniato solo da una sparuta cerchia di pari. Ma, allora, cosa significa fare filosofia e cosa vuol dire combattere il populismo filosofico?

Ci sono parecchi equivoci da stanare e da chiarire. Una filosofia che abdichi al proprio compito critico, anche radicalmente critico, forse anche masochisticamente autocritico, non serve a nulla: legittima di volta in volta l’opinione corrente, le fornisce un po’ di belletto teoretico.

Perciò il cosiddetto “filosofo” è da sempre un personaggio alquanto scomodo, talora irritante, e da sempre, se è un “vero” filosofo, rischia la sua faccia e deve avere il coraggio di sfidare il potere delle idee prevalenti e già codificate. Non basta dire che il filosofo è uno che ama le idee in un mondo involgarito: la filosofia serve a qualcosa solo se accende dei segnali rossi attorno a certe idee lanciando un allarme.

Per esempio, dovrebbe riuscire a distinguere tra populismo filosofico e filosofia popolare, saper individuare bene la natura, il senso e le conseguenze di questo equivoco abbastanza clamoroso sul quale si è costruito il recente dibattito sulle feste filosofiche e sulla filosofia prêt-à-porter (inaugurata a luglio su Repubblica, da Roberto Esposito e proseguita con altri interventi in questi mesi).

Fin dall’antichità la filosofia ha avuto una vocazione popolare: ciò significa che essa si occupa e si preoccupa dell’esperienza quotidiana, si rivolge ai “cittadini” proponendo loro uno stile di vita. La filosofia ha da sempre una vocazione pubblica ed etica, anche quando sembra essere solo un esercizio del soggetto su se stesso. Questa vocazione attraversa tutta la sua storia, solo che oggi i cittadini non sono più un gruppo limitato di persone ma un insieme che riguarda tendenzialmente l’intera società senza distinzioni. Il bisogno di filosofia è avvertito oggi da tutti e perciò hanno presa le feste filosofiche che chiunque può frequentare, e si sviluppano di continuo iniziative di massa che hanno come scopo la divulgazione.

La filosofia popolare deve cessare di essere critica? No, certamente, ma essa si annoda, oggi, con la cosiddetta “cultura televisiva” e accade così che la mediatizzazione appiattisca questa criticità o addirittura la elimini. Può esistere una filosofia popolare senza una tale “semplificazione” che snatura la filosofia stessa? Sì, può esistere, ma qui si deve innestare una vera e propria battaglia culturale contro il “populismo” filosofico, cioè contro la tendenza a ridurre il pensiero filosofico a modelli semplici e unificati. La battaglia tra chi asseconda questa riduzione e chi la combatte, magari anche nelle piazze, dunque anche nelle feste filosofiche (a FilosofiaGrado, qualche giorno fa, ho parlato proprio di questo).

Combattere la semplificazione populistica che è visibilmente in atto significa spingere il pedale della criticità, e battersi per il pensiero critico vuol dire, a mio parere, evidenziare gli aspetti paradossali del discorso filosofico, il suo connaturato pluralismo, il suo piacere della sfumatura, il suo rifiuto delle fissazioni, la sua vocazione storica e genealogica. Non a caso questa battaglia ha ora come campo un’idea di verità non bloccata né presupposta.

Uno dei miei autori preferiti, A.N. Whitehead, aveva lanciato una campagna contro le “cattive astrazioni”. Il populismo filosofico è una cattiva astrazione. Riduce la filosofia a un’ideologia prêt-à-porter. Lavorare contro il populismo filosofico e le sue cattive semplificazioni significa allora accettare la sfida mediatica e tentare di salvare l’identità del filosofo, oggi decisamente messa a rischio. Questa identità è attraversata da parte a parte da una tensione ironica. Se dalla cassetta degli attrezzi del filosofo si toglie l’ironia, con la quale è possibile spiazzare i problemi e farli vedere in una luce inabituale, il cosiddetto filosofo rischia di diventare un funzionario del pensiero abbastanza grigio.
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 21/9/2012 08.47
Titolo:PER UN NUOVO REALISMO" ALL'UNIVERSITA'. I decreto sull'abilitazione ...
Università, chi dà i voti ai prof?

di Angelo d’Orsi (il Fatto, 19.09.2012)

Uno spettro si aggira per l’università italiana: si chiama “Terza Mediana”. Che un giorno emetterà i suoi vagiti (o strepiti inconsulti), qualcuno ci scommette, altri pensano il contrario. Siamo nelle viscere profonde della “riforma” Gelmini-Profumo. Ma il mondo accademico, non contento delle bastonate ricevute da una campagna che lo ha dipinto come dedito alla corruzione, al fannullonismo (ve lo ricordate il Brunetta fantuttone?) se non addirittura alla crapula, si divide, con gli uni pronti ad afferrare l’osso che il collega Profumo getta (a taluni) e a condannare ai margini del campo tutti gli altri. In generale, si sa, è il comparto scientifico (le scienze pretese “esatte”), a fare la parte del leone; agli umanisti restano le briciole. La “riforma” ha partorito il mostro, l’ANVUR, l’Agenzia della Valutazione, una entità che sembra perfetta per incarnare gli “arcana imperii” evocati da Tacito.

Chi decide, chi sceglie, in nome di quale autorità morale e intellettuale? Non si sa. Un’aura di segretezza avvolge il meccanismo della “valutazione”, che, proprio grazie alla campagna mediatica di cui sopra - sostenuta anche da docenti come Giavazzi, Alesina, Perotti, sulla base di dati diciamo “discutibili” - è stata accolta dalla gran parte della pubblica opinione come il toccasana per dare una “regolata” a questa masnada di professori ribaldi.

ORA FINALMENTE saranno valutati in modo oggettivo, e farà carriera chi lo merita. Ecco, il grande totem del Merito, associato alla suprema divinità del Mercato. Mentre dunque l’Università riapre dopo la pausa estiva, tra mille difficoltà, si trova ad affrontare questi nuovi mostri. E accanto alle “mediane”, si parla di “semafori”, quando, per rendere ridicolo il tutto, non ci si butta a capofitto nell’inglese, convinti di rendere più “moderno” il passaggio. Verso dove? Verso il nulla rivestito di smalto, per richiamare un bell’aforisma di Gottfried Benn.

Dunque, un’oligarchia che agisce in nome della totalità del corpo docente, ma non per suo conto, sta decidendo come valutare i “prodotti della ricerca”, ossia come consentire la progressione di carriera dei docenti, come far accedere i giovani che premono, se, come capita sempre più sovente, non hanno mollato, emigrando, oppure hanno cambiato prospettiva di vita e di lavoro. Tutto questo seguendo il mito dell’internazionalizzazione, che è un semplice piegarsi al modello statunitense, quasi che le università le avessero inventate aldilà dell’Atlantico. Mai nella storia italiana era accaduto che un governo facesse una intromissione così rozza e brutale, seppur ammantata di smalto (appunto), nei criteri di valutazione universitaria. Come si fa a non rimpiangere Giovanni Gentile?

Dopo che le discipline “dure” si sono buttate a capofitto nei famigerati “criteri bibliometrici” (ossia più sei citato più vali, il che equivale a un incentivo agli accordi tra colleghi: tu citi me e io cito te, e diventiamo importanti!), le materie umanistiche hanno vagamente resistito, ora rischiano di piegarsi a una logica che nulla ha a che fare con la scienza e con la cultura.

IL DECRETO sull’abilitazione nazionale prevede tre “mediane”: monografie; articoli su rivista scientifica e contributi in volume; articoli su rivista scientifica “di fascia A”: per l’ammissibilità alla abilitazione al candidato basta il possesso di una sola di queste mediane. Essere in fascia A, dunque, significa che puoi non aver pubblicato mai un libro, o null’altro che un articolo che, in quanto collocato nella “prima divisione”, a prescindere dal suo valore, e al limite senza neppure essere valutato, ti accredita come studioso meritevole.

Insomma, qualcuno decide, in base a criteri imperscrutabili, quali siano le riviste elette all’empireo segnato dalla lettera A, ossia la mediana n. 3 sancisce una disuguaglianza tra i concorrenti, talmente clamorosa che Valerio Onida, presidente emerito della Suprema Corte, ha steso un ricorso, a nome dei costituzionalisti italiani (una categoria che di legge qualcosa capisce), contro un’aberrazione giuridica, oltre che scientifica. Purtroppo alcune società accademiche, in base a calcoli di potere e di conventicola, hanno steso un patetico appello al “mantenimento della terza mediana”.

Tra esse, ahinoi, c’è la SIS-SCO, la società dei contemporaneisti, che da anni si segnala per il suo discutibile “modernismo”; del resto l’appello è stato steso dal suo ex presidente. Un socio, Lucio D’Angelo (Università di Teramo) ha osato gridare: “il re è nudo”, facendo notare che se passasse la terza mediana “si arriverebbe all’aberrante risultato che un articolo di 15 pagine pubblicato in una rivista della fascia A verrebbe equiparato automaticamente, senza essere letto, a dieci saggi di 30 o 40 pagine ciascuno apparsi in altre riviste o in volumi collettanei oppure a due monografie, anche se di 400 pagine ognuna”.

COME SPIEGARE una pretesa del genere, se non come una furbata dei boss delle discipline di far passare un loro protetto di scarso valore?

I criteri di valutazione ci devono essere, ma non possono essere inventati da esperti di nomina politica, e con valore retroattivo; devono essere equi e sensati, condivisi dalla comunità scientifica, e non solo da alcune lobby, magari corrive alle centrali del potere. E se quella della terza mediana (ma in generale della “riforma”) è una bandiera di progresso, io mi dichiaro francamente conservatore.
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 21/9/2012 11.01
Titolo:Il «realismo» dei banalizzatori di Kant ..
Quando i filosofi si confrontano con lo scetticismo

di Gianni Vattimo (Corriere della Sera, 21.09.2012)

Caro direttore,

i «nuovi» realisti, a cui Emanuele Severino («la Lettura», 16 settembre) fa l’immeritata gentilezza di prenderli sul serio, saranno «in sé» o «fuori di sé»? Essi (Maurizio Ferraris, «Repubblica», 17 settembre) lo ricambiano facendo dire al povero Kant che i fenomeni, per essere tali, devono avere dietro delle «cose in sé» (ogni fenomeno la sua cosa; multe, colapasta, sciacquoni, ecc); e siccome questo è impossibile (lo era soprattutto per Kant, che non avrebbe mai parlato di cose in sé al plurale), multe, colapasta e sciacquoni non sono fenomeni, ma essi stessi cose in sé. Ma a parte l’imprudenza di dialogare con simili interlocutori, Severino argomenta anche in modo serio; serio e anzi eterno, perché le sue ragioni sono sempre le stesse (del resto lui non se ne preoccupa: «Ogni cosa è un essere eterno», dunque anche il suo discorso sull’incontrovertibile). Due i punti essenziali dell’articolo.

a) Gentile. Come i suoi maestri neoscolastici dell’Università Cattolica, Severino riconduce tutto a Gentile e al suo idealismo estremo e soggettivistico. Sono loro che gli hanno insegnato a preferire Gentile a Croce: più facilmente riducibile ad absurdum: tutto sarebbe nelle mani dell’uomo empirico, io lui loro; soggettivismo, nichilismo, ecc. Se questo è l’esito del pensiero moderno, è chiaro che bisogna tornare agli antichi e agli eterni: Parmenide, alla faccia di ogni esperienza vissuta di storicità, libertà, cambiamento.

b) L’incontrovertibile. Se io, con Nietzsche (e Gadamer e Heidegger; ma anche Marx critico dell’ideologia), dico che non ci sono fatti ma solo interpretazioni, e anche questo è un’interpretazione, Severino sostiene che anch’io (e i sunnominati) pretendo di fare una affermazione metafisica e incontrovertibile. E perché? Lo dico, qui, ora, leggendo così la mia condizione ed eredità storica. La leggo così e non altrimenti. Ah, ecco, il principio di non contraddizione da cui dovrebbe discendere la verità incontrovertibile dell’eternismo severiniano.

Che poi questo vada a braccetto con il «realismo» dei banalizzatori di Kant con cui egli dialoga può solo far da tema a un racconto patafisico. Oltre alla confutazione del pensiero moderno identificato con Gentile, il discorso di Severino (qui e sempre) si riduce tutto al vecchio argomento antiscettico: se dici che tutto è falso, pretendi che la tua tesi sia vera. Dunque... Ma c’è mai stato uno scettico che si sia «convertito» sulla base di questo giochetto logico-metafisico?
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 27/9/2012 11.49
Titolo:Risposte di Ferraris ai critici e di Taddio a vattimo ....
- «Il nuovo realismo sradica il populismo»

- Parla Maurizio Ferraris, filosofo teoretico, che risponde ai suoi critici

- Una riflessione che parte da lontano: dalla scuola di Pareyson e Vattimo
- E che alla fine si è rovesciata nella difesa dell’oggettività del reale.
- Contro il relativismo e la società dei simulacri

- di Bruno Gravagnuolo (l’Unità, 27.09.2012)

DISCUSSIONE LUNARE: ESISTONO OGGETTIVAMENTE LE COSE E IL MONDO? O TUTTO È INTERPRETABILE E MANIPOLABILE? Ma è da millenni che la filosofia ci ritorna, con corollari pratici per nulla innocui. Capita che un filosofo torinese di 56 anni, allievo di Vattimo, si ribelli al maestro, dopo averne condiviso il pensiero (debole). Pensiero libertario che affermava: tutto è interpretazione e non «verità», in virtù della tecnica e della civiltà delle immagini. La ribellione dell’allievo coltivata a lungo tra i libri esplode nel 2011 con la querelle su «il nuovo realismo». Vi si sono accapigliati Vattimo, Severino, Eco, e filosofi di diverse scuole. Il ribelle è Maurizio Ferraris, filosofo a Torino, assertore del «nuovo realismo», che afferma di averlo scoperto quando si è accorto col trionfo di Berlusconi che la civiltà delle immagini e delle interpretazioni era oppressiva e ingannevole. Dunque carne al fuoco politica oltre che teoretica. Sentiamo Ferraris.

Professor Ferraris, non crede che limitarsi a dire che le cose e i fatti esistono «oggettivamente» non ci faccia fare nessun passo avanti, né etico né conoscitivo?

«Prendiamo la cosa da un altro verso: non crede che dire che le cose e i fatti non esistono oggettivamente (se vuole può anche aggiungere le virgolette, anche se io non ne vedo il motivo) ci faccia fare dei passi in avanti sotto il profilo etico e conoscitivo? Crede che dire che il bianco è nero, che il mondo è una rappresentazione, o che non c’è niente di oggettivo, nemmeno la Shoah, costituisca un avanzamento morale e un progresso del sapere? Io non lo credo, e penso che non lo creda neanche lei. Senza dimenticare poi che il fatto che le cose e i fatti esistano oggettivamente è vero, e il suo contrario è falso. Mi sembra un argomento non trascurabile. È qui che ha inizio il lavoro della filosofia, che personalmente ho articolato negli ultimi vent’anni analizzando i livelli di realtà degli oggetti naturali, degli oggetti sociali e degli oggetti ideali; discutendo la distinzione tra ontologia ed epistemologia; confrontandomi con la tradizione filosofica e le dottrine contemporanee. Se il realismo si limitasse a dire che i fatti esistono sarebbe una scemenza. E spiace che taluni critici lo riducano a questo, non so se per malizia o per insipienza».

Nulla è nell’intelletto che prima non fosse nei sensi, diceva un filosofo a Lei ben noto. Che aggiungeva: sì, a parte lo stesso intelletto. Qualche a-priori dovremmo pure ammetterlo, per articolare concettualmente alcunché. Che obietta?

«Se si riferisce al detto “Nulla è nell’intelletto che non fosse prima nei sensi, a parte l’intelletto», i filosofi sono due. Tommaso d’Aquino, nel Medio Evo, sosteneva per l’appunto che “nulla è nell’intelletto che non fosse prima nei sensi”. Quattro secoli dopo, Leibniz, in polemica con gli empiristi, ha aggiunto “sì, a parte lo stesso intelletto”. Voleva dire che non tutto si impara per esperienza, per esempio posso concepire un poligono di mille lati senza averlo mai incontrato nell’esperienza. Non ho niente da obiettare neanche su questo. Morale: sono d’accordo sia con Tommaso, sia con Leibniz. Mi sembrano affermazioni molto ragionevoli, che però non sono pertinenti al dibattito tra realismo e antirealismo, che non riguarda la contrapposizione tra conoscenze apriori e conoscenze aposteriori, bensì lo stabilire se gli oggetti naturali dipendano in qualche modo dai soggetti (come sostengono gli antirealisti) oppure no (come sostengono i realisti, i quali peraltro ammettono tranquillamente che gli oggetti sociali dipendono dai soggetti)».

Crede che gli idealisti moderni Hegel primo fra tutti ritenessero che la realtà fosse un fantasma spirituale e non avesse nulla di oggettivo? Non era quello di Hegel un idealismo oggettivo dove tutto era logico e massimamente oggettivo e razionale, perfettamente conoscibile e senza trascendenza religiosa? Per inciso: quando Umberto Eco afferma con Aristotele che v’è un «senso» nelle cose, lei come reagisce?

«Hegel, come Kant, come tanti filosofi dei secoli scorsi, confondeva l’epistemologia (quello che sappiamo) con l’ontologia (quello che c’è). Era probabilmente il risultato del grande e meritevole progresso della scienza moderna: riusciamo a fare delle previsioni attendibili, riusciamo a matematizzare la natura, dunque il mondo si risolve nel sapere. Questa posizione ci trasforma tutti in piccoli fisici e in piccoli chimici, è come se noi, nel rapportarci al mondo, fossimo sempre in un laboratorio, e invece non è così. Se io mi scotto, o se sono depresso, lo sono sia che io sappia tutto di fisiologia, sia che lo ignori completamente. Ed è per questo che, con Eco, con Aristotele, con Gibson, con i gestaltisti, con Husserl, con Hartmann, e con il mondo intero quando non indossa i panni del filosofo trascendentale, affermo che le cose hanno un senso anche indipendentemente dalla nostra attività conoscitiva».

Davvero il realismo empirico può salvarci dalle ideologie e dai populismi e pertanto è intimamente democratico? Non teme lo scientismo e la conversione in dato naturale di relazioni economiche e sociali storicamente determinate, come accade nell’economia liberale e liberista?

«Anche qui mi piacerebbe capovolgere la domanda e chiederle: davvero l’idealismo trascendentale è intimamente democratico e può salvarci dalle ideologie e dai populismi? La domanda suona assurda, quasi comica. E allora perché se capisco bene mi attribuisce una tesi non meno assurda e comica come quella secondo cui il realismo empirico (che per inciso non è affatto la mia posizione, visto che, per esempio, sono realista anche rispetto ai numeri, che non sono oggetti d’esperienza) ci salverebbe dal populismo? Io dico semplicemente che il populismo, come si è visto ad abundantiam, attua il principio secondo cui “non ci sono fatti, solo interpretazioni”, e sono convinto che su questo punto sarà d’accordo anche Lei, insieme a tanti realisti empirici e idealisti trascendentali che hanno assistito alle cronache degli ultimi vent’anni. Quanto allo scientismo, ho appena spiegato che la confusione tra ontologia ed epistemologia, dunque lo scientismo e il naturalismo, sono un errore molto diffuso nella filosofia dopo Kant, a cui reagisce il realismo. Perciò quando invito a non confondere gli oggetti sociali con gli oggetti naturali mi impegno proprio a evitare la naturalizzazione di elementi sociali. Non era proprio quello che proponeva Marx quando criticava gli economisti del Settecento?».

Secondo i suoi critici, debolisti, ontologi, metafisici, o post-marxisti, il pensiero è inseparabile dal processo conoscitivo delle cose. Lo era anche per Kant, per il quale l’oggetto andava costruito con le categorie dell’intelletto. Anche Kant stringi stringi era anti-realista?

«La mia posizione realista si fonda proprio sulla tesi secondo cui, confondendo l’essere con il sapere, il trascendentalismo kantiano ha avuto un esito antirealista. Dunque non c’è tanto da stringere: gli antirealisti degli ultimi due secoli derivano da Kant, per il quale “le intuizioni senza concetto sono cieche”, quanto dire che non si possono avere esperienze di oggetti senza averne dei concetti. Il che è problematico e richiede delle distinzioni che Kant non ha fatto: vale per gli oggetti sociali (un tipo di oggetti che Kant non aveva preso in considerazione) ma non per gli oggetti naturali (quelli a cui Kant si riferiva). Certo, se non avessi il concetto di “intervista” non saprei che cosa stiamo facendo in questo momento, ma ciò non significa che per avere mal di testa devo avere il concetto di “emicrania”. Quanto alla prima parte della sua domanda, sinceramente non capisco: poiché sono fermamente convinto del fatto che “il pensiero è comunque inseparabile dal processo conoscitivo”, sono perfettamente d’accordo, su questo punto, con i debolisti, con gli ontologi (che è poi la categoria a cui appartengo) e con tutti gli altri tipi filosofici che Lei menziona, e che non mi risulta mi abbiano mai obiettato nulla del genere. Se poi qualcuno, per avventura, lo avesse fatto, mi permetto educatamente di dirgli che si è sbagliato, e che non troverebbe nei miei libri una sola riga a sostegno di una tesi così stravagante come quella secondo cui si può conoscere senza pensare».

CHI È

Dal debolismo alla lotta contro il mondo ridotto a immagine

Maurizio Ferraris, laureatosi con Gianni Vattimo, insegna filosofia teoretica a Torino. Da vent’anni ha rifiutato il pensiero debole, proponendo una filosofia realista, in libri come «Estetica razionale» (1997), «Il mondo esterno» (2001), «Goodbye Kant» (2004) e «Documentalità» (2009). Nel 2011 ha avviato sui media un ampio dibattito via via estesosi, sulla sua proposta di un «Nuovo realismo». La rassegna di tutta la discussione fin qui svoltasi è consultabile su . Nel marzo di quest’anno ha pubblicato per Laterza «Il Manifesto del nuovo realismo»

Ma il realismo non è tutto nuovo

di Luca Taddio (Corriere della Sera, 27.09.2012)

Dentro il Nuovo Realismo ci sono voci diverse, posizioni non sovrapponibili. A differenza di Ferraris, col quale condivido il senso generale del Nuovo Realismo, non ho mai provato l’ebbrezza di una svolta realista. Quel «Nuovo» che accompagna il termine realismo è occasionale: è l’aggettivo usato da Ferraris in un suo intervento a un convegno e poi ripreso per esigenze di divulgazione filosofico-giornalistica.

Ho appreso la fenomenologia da Paolo Bozzi che è stato un inguaribile realista in anni in cui andavano di moda altre posizioni; lo stesso Ferraris ha un forte debito teoretico, oltre che teorico, con il filosofo e psicologo sperimentale goriziano. Severino ha ragione quando nota come un’eccellente sartoria filosofica, quale quella italiana, venga ignorata per inseguire modelli meno originali. Egli ricorda spesso Leopardi e Gentile, ma ci sono casi meno eclatanti, come quello di Bozzi, rimasto ai margini della psicologia perché non allineato agli standard dei convegni internazionali o dei paper scientifici delle università americane. Potrei aggiungere che lo stesso Severino, o meglio la sua opera difficilmente eguagliabile per rigore e originalità, dovrebbe stare sugli scaffali delle librerie di tutto il mondo.

Severino si è mosso per lungo tempo controcorrente: quando uscì Essenza del nichilismo, pochi in Italia parlavano di verità, parola bandita per coloro che volevano occuparsi di filosofia «seriamente». Ma la radicalità del suo discorso si spinge ben oltre gli ultimi decenni del dibattito filosofico. Egli indaga il senso dell’eterno che ci porta al cuore del discorso metafisico, ossia verso l’interpretazione del divenire propria della metafisica occidentale, l’impossibilità che la «cosa» possa diventar altro da sé. Da qui il riferirsi di Severino al principio di identità e di non contraddizione.

Ferraris chiude la sua risposta su «Repubblica» (18 settembre) auspicando un confronto. Il primo richiamo l’abbiamo indicato implicitamente col termine «verità», che ci consente di fare un tratto di strada assieme; il secondo tratto comune può essere dato da quella «metà di secolo», evocata da Severino su «la Lettura», che lo porta ad affermare «un mondo anche senza che appaia questo o quell’individuo empirico». Questo tratto di strada forse è destinato ad interrompersi presto, quando comincia il vero confronto sul significato dell’apparire e della verità, ma qui usciamo dai confini che la divulgazione ci impone. Ancora una volta dobbiamo limitarci a indicare le prime linee fondamentali della contesa teoretica, il senso dell’affermazione del «Tutto». Scrive Severino: «il Tutto contenente è lo stesso Tutto contenuto: il contenente è insieme il contenuto e il contenuto è insieme il contenente». Qui Severino ci sta indicando il «sentiero del Giorno» che trova inizio ne La struttura originaria (1958, Adelphi 1981), ossia nell’opposizione fondamentale tra essere e nulla.

Contrariamente a quanto dichiarato su questo giornale da Vattimo (21 settembre), ritengo il confronto auspicato da Ferraris sull’«apparire fenomenico» una questione serissima, che investe il significato del trascendentale. Certo, nasce nel segno della distanza, ma può prendere corpo a partire dal senso dell’apparire della cosa e di un mondo: di questo mondo indubitabile sia per noi che per Severino, se pur per ragioni diverse.
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 29/10/2012 11.05
Titolo:Risposta di Markus Gabriel a Severino ....
Il tutto non esiste, ci sono solo i fatti

di Markus Gabriel *

Emanuele Severino è un realista. Ritornando a Parmenide egli accetta, infatti, che ci sia un essere indipendente dall’ambiente umano. Spero non suoni eccessivo affermare che entrambi apparteniamo alla stessa famiglia, il cui capostipite fu Parmenide in persona.

Ciò che accomuna tutti gli appartenenti a tale famiglia, credo, è la convinzione che ci sia almeno un fatto che noi non abbiamo prodotto, aspetto che ho chiamato nel mio libro Il senso dell’esistenza «l’argomento della fatticità». Parmenide lo chiamava semplicemente «l’essere» e argomentava a favore della possibilità di poterlo conoscere. Come minimo un fatto è conoscibile, io interpreto così la celebre sentenza «l’essere e il pensare sono lo stesso».

Nel suo articolo del 16 settembre, Severino formula tre importanti e acute questioni in merito alla mia posizione: 1) Cosa significa «apparizione»? 2) Accetto il principio di non contraddizione in quanto assoluto? 3) La contingenza di cui parlo è, in fin dei conti, una forma di necessità? Rispondiamo.

1) Per «apparizione» intendo l’appartenenza di un oggetto a un campo di senso. Questa relazione non è in generale matematica per il semplice fatto che non tutti gli oggetti sono matematici. La cittadinanza non è una proprietà degli insiemi. Essere italiano significa appartenere al campo di senso della Costituzione italiana, che non è certo identico all’insieme di tutti gli italiani. Proprio per questo non può esistere qualcosa come «il tutto». Perché quest’ultimo non può appartenere ad alcun campo di senso. Nemmeno a se stesso. Se appartenesse a se stesso, tutto ciò che appare, accadrebbe come minimo due volte. Il tutto esisterebbe come raddoppiato: in quanto tutto e in quanto il tutto nel tutto. Io non distinguo fra l’essere e l’ente, come ha fatto Heidegger, bensì tra il campo di senso e gli oggetti che appaiono in esso.

2) Per il campo di senso della costruzione di teorie filosofiche io accetto il principio di non contraddizione. I filosofi devono sempre ambire alla coerenza, fornendo motivazioni per il loro argomentare. La filosofia è una forma d’Illuminismo ed è democratica, essa non contempla meramente la verità, ma propone o confuta principi e teorie per l’opinione pubblica. Il principio di non contraddizione non regna però sul tutto. In primo luogo perché non c’è qualcosa come il tutto e in secondo luogo perché esistono contraddizioni. L’ingenua teoria degli insiemi è contraddittoria, ma non solo, gli esseri umani si contraddicono di continuo, talvolta senza nemmeno rendersene conto. La realtà è dunque parzialmente contraddittoria, per questo ci sforziamo di eliminare le contraddizioni.

3) La necessità esiste solo come proprietà locale in un campo di senso, così come la contingenza. Nel Senso dell’esistenza spero di non aver affermato che tutto è contingente, proprio perché non c’è un campo di senso come il tutto. Io non credo dunque che tutto sia contingente o necessario, ma soltanto che tutto esista (salvo il Tutto). Io concordo con Severino nell’affermare che sia necessario che esista qualcosa e non, piuttosto, il nulla. Ma a differenza di lui, affermo che esistono infiniti campi di senso e infinite forme dell’apparizione. L’apparizione si dice in molti modi. La filosofia non può valutare tutti i campi di senso. Per questo non esiste una filosofia onnicomprensiva. Alcuni campi di senso sono senza dubbio costruttivistici, per esempio alcuni oggetti sociali, come rileva Ferraris.

Che tutto esista non significa inoltre sostenere che ogni affermazione sia vera. Il relativismo in filosofia è una posizione falsa. Perché in essa non si tratta d’altro che della verità e dello scoprire la verità. Chi rinuncia alla verità, rinuncia alla libertà e si abbandona alle tirannie sofistiche. La famiglia di Parmenide rifiuta tale atteggiamento ed è dunque sempre disposta al dialogo, un dialogo in cui la posta in gioco è sempre la verità stessa.

* Professore all’Università di Bonn

* Corriere della Sera, 29.10.2012

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