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www.ildialogo.org SENZA PIU' FIDUCIA E SENZA PIU' GRATITUDINE. Il senso della comunità al tempo della crisi. Una recensione del libro di Michela Marzano ("Avere fiducia") di Roberto Esposito - con note,a c. di Federico La Sala

L'ASTUZIA DELLA RAGIONE E L'EPOCALE DERIVA ANTROPOLOGICA E POLITICA. Come la filosofia (e la teologia) senza grazia (gr.: "charis") e senza grazie (gr.: "charites") perde la testa e ricade nel sacco o, che è lo stesso, è incapace di salvare non solo capra cavolo lupo ma anche se stessa ...
SENZA PIU' FIDUCIA E SENZA PIU' GRATITUDINE. Il senso della comunità al tempo della crisi. Una recensione del libro di Michela Marzano ("Avere fiducia") di Roberto Esposito - con note

La fiducia, ridotta a credito economico, o a contratto giuridico, non è che l’ombra deformata della diffidenza. A quel punto, rotti gli argini etici che tengono insieme gli uomini, nulla può più arrestare la valanga. Quando, già nel 1937, Franklin D. Roosevelt affermava che l’egoismo è cattivo non solo moralmente, ma anche economicamente, coglieva l’anello decisivo della catena di crisi economiche che avrebbero squassato il sistema capitalistico.


a c. di Federico La Sala

LA GRATITUDINE NON ESISTE. Note sul tema:

Il lupo e il contadino [che con l’aiuto della volpe ridiventa un animale cacciatore, come il lupo e peggio del lupo]

Un lupo supplicò un contadino di nasconderlo ma, quando il pericolo fu passato, saltò fuori e volle mangiarsi il suo salvatore. «Non è giusto che tu mangi chi ti ha aiutato!» esclamò il contadino, ma il lupo ribatté: «Nessuno mai ricorda i benefici ricevuti. Perché dovrei essere io il primo a ricordarlo?». «Ti prego, lupo, sentiamo cosa ne pensano i passanti, prima di decidere».

Si trovava a passare di là un vecchio cane e confermò che il suo padrone, dopo anni di fedele servizio lo trattava, ora che non gli era più utile, con immensa ingratitudine. Giunse anche un cavallo e ammise di aver ricevuto lo stesso trattamento del cane.

Il contadino oramai disperava di dissuadere il lupo dal mangiarlo e quindi di salvarsi quando, d’improvviso, vide arrivare una volpe e, confidando nella sua astuzia, le fece un cenno d’intesa e rivolgendosi al lupo disse: «Interroghiamo anche quest’ultimo passante, poi farai quello che vorrai». «Volpe cara, questo lupo non vuole essermi grato di averlo nascosto nel sacco dai cacciatori che lo inseguivano. Cosa ne pensi?».

E la volpe: «Un lupo così grosso in un sacco così piccolo? Non posso crederlo. Fatemi vedere.» Il lupo rientrò nel sacco e subito la volpe aiutò il contadino a chiuderlo ben bene con un grosso nodo. L’uomo prese allora un bastone, riempì di legnate il lupo ch’era dentro il sacco e poi si girò verso la volpe e atterrò anche lei con un gran colpo in testa esclamando poi: «Sai, volpe? A forza di dirmelo hanno convinto anche me che la gratitudine non esiste affatto!». (da I libri di Gulliver)

CHI SIAMO NOI IN REALTA’? Relazioni chiasmatiche e civiltà. Lettera da ‘Johannesburg’ a Primo Moroni (in memoriam)

 DIO, MONDO, UOMO - OLTRE!!! BASTA CON LE ROBINSONATE. A partire da due, e non da uno!!! Una nota su una polemica tra "esportatori di democrazia" e di "libertà" (Giovanni Sartori e Gian Maria Vian) e la proposta di una Fenomenologia dello Spirito di "Due Soli"

LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE. AL GOVERNO DELLA CHIESA UN PAPA CHE PREDICA CHE GESU’ E’ IL FIGLIO DEL DIO "MAMMONA" ("Deus caritas est") E AL GOVERNO DELL’ **ITALIA** UN PRESIDENTE DI UN PARTITO (che si camuffa da "Presidente della Repubblica"), che canta "Forza Italia" con il suo "Popolo della libertà" (1994-2012). (Federico La Sala)

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Sulla fiducia. Il senso della comunità al tempo della crisi

di Roberto Esposito (la Repubblica, 3 settembre 2012)

Chi si aspettasse di trovare nel libro di Michela Marzano Avere fiducia. Perché è necessario credere negli altri, appena tradotto da Mondadori, un esercizio di tradizionale filosofia morale, rimarrebbe positivamente sorpreso. Non solo esso prende una salutare distanza da luoghi comuni sempre più diffusi - come quello della equivalenza tra verità e assoluta trasparenza -, ma annoda con esiti di particolare rilievo il linguaggio filosofico a quelli sociologico, antropologico, economico.

Del resto quale concetto, più di quello di fiducia, si pone nel punto di incrocio e di tensione tra il lessico teologico della fede, quello sociale della credenza e quello economico del credito? Per inquadrarlo in tutta la sua valenza l’autrice attiva uno sguardo genealogico che dall’età classica - ancora basata sull’onore ed il rispetto della promessa - arriva alla modernità, in cui la categoria di fiducia subisce una serie di contraccolpi che finiscono per rovesciare la société de confiance nella société de défiance - come si intitolano rispettivamente i saggi di A. Peyrefitte (Odile Jacob, 2005) e di Y Algan e P. Cahuc (Presse de l’Ecole normale supérieure, 2007).

Il punto di innesco di questo processo di secolarizzazione è costituito dalla critica cui i moralisti francesi, come Pascal, La Rochefoucauld e La Bruyère, sottopongono le antiche virtù eroiche dell’onore e della lealtà. Mandeville e Adam Smith assumono la medesima concezione disincantata, pur capovolgendone le conclusioni: sono proprio i vizi privati, e cioè gli interessi particolari, a costituire, nel loro insieme, la sorgente della ricchezza sociale. Ma questo passaggio dal negativo al positivo, presto traslato nell’immagine liberale della ‘mano invisibile’, si basa sulla sovrapposizione indebita tra la nozione, etica, di fiducia e quella, economica, di interesse: la “società di fiducia” di cui parla Smith poggia in realtà sulla generalizzazione della sfiducia reciproca.

È qui che l’autrice innesta il vettore forse più originale della propria ricerca, profilando con rapidi tratti il transito, genialmente intuito dall’economista scozzese John Law, dal sistema monetario incentrato sull’oro a quello fondato sull’emissione dei biglietti bancari e delle carte di credito. Il quale non può poggiare che sulla fiducia reciproca degli attori economici. Ma proprio qui inizia ad aprirsi quella frattura antropologica che oggi minaccia di diventare una vera e propria voragine: come conservare la fiducia nella solvibilità degli individui, delle banche o degli stessi Stati che le garantiscono, quando gli uomini si comportano in maniera palesemente egoistica? È come se tutto il castello dell’economia moderna poggiasse su un fondamento di carta destinato a strapparsi al primo urto.

La storia delle molteplici crisi finanziarie, dalla bancarotta del 1720 in Francia a quella dei nostri giorni, al di là delle ovvie differenze di tempo e di contesto, rimanda a questo vuoto originario, a partire dal quale la sfiducia tende sempre più rapidamente a sfondare le fragili pareti della fiducia: come scriveva Duclos nelle sue Memorie segrete, “la fiducia si ispira per gradi, ma basta un istante per distruggerla, e, allora è in qualche modo impossibile ristabilirla”. Senza una credibilità diffusa, l’intero sistema economico minaccia di crollare, ma per crearla occorre che da qualche parte si dia prova di meritarla.

È il cortocircuito in cui la speculazione finanziaria ha trascinato prima l’economia americana e poi il resto del mondo: il mancato pagamento dei subprimes ha portato alla caduta del prezzo degli alloggi ipotecati senza copertura. Ciò, a sua volta, ha determinato una generale crisi del credito e una conseguente perdita di fiducia nei confronti dell’intero sistema finanziario.

Tutto ciò è ben noto agli economisti. Che però tendono a restare chiusi all’interno del loro orizzonte, impedendosi così di vedere quella faglia che lo sottende, sulla quale concentra invece l’attenzione la Marzano. Quando il senso comune diventa quello efficacemente stilizzato nel film di Ridley Scott Nessuna verità (2008) “Non fidarti di nessuno. Inganna tutti”, la soglia di guardia è abbondantemente superata.

La fiducia, ridotta a credito economico, o a contratto giuridico, non è che l’ombra deformata della diffidenza. A quel punto, rotti gli argini etici che tengono insieme gli uomini, nulla può più arrestare la valanga. Quando, già nel 1937, Franklin D. Roosevelt affermava che l’egoismo è cattivo non solo moralmente, ma anche economicamente, coglieva l’anello decisivo della catena di crisi economiche che avrebbero squassato il sistema capitalistico.

Ad uscirne non bastano i - pur necessari - provvedimenti economici. E neanche solamente quelli politici. Serve un sommovimento generale delle coscienze che liberi l’idea, e la pratica, della fiducia dalla sua sudditanza all’ideologia dell’interesse. Alla sua base non vi può essere solo la fiducia in se stessi predicata dai nuovi addestratori di manager e trader, quanto il coraggio di fare la prima mossa - credere negli altri prima ancora che questi credano in te.

Con tutto il rischio che tale opzione comporta. Certo, guardarsi dalla sempre possibile cattiva fede altrui è opportuno, ma senza per questo presumere di dovere avere tutto sotto controllo. Un discorso - quello della Marzano - traducibile nelle categorie di comunità e di immunità: l’eccesso di protezione immunitaria contro il possibile pericolo conduce non solo alla rottura del legame sociale, ma anche al rischio mortale di una malattia autoimmune.

 

 

 

 

 



Lunedì 03 Settembre,2012 Ore: 19:40
 
 
Commenti

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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 04/9/2012 12.30
Titolo:IN FRANCIA, COME IN ITALIA. Chi ha paura dei corsi di morale laica?
Chi ha paura dei corsi di morale laica?

di Michela Marzano (la Repubblica, 4 settembre 2012)

Si può insegnare la morale come si insegna la grammatica o l’aritmetica? Spetta alla scuola pubblica spiegare ai cittadini di domani “cosa è giusto”, oppure uno stato liberale non dovrebbe permettersi di intervenire nell’ambito del “bene” e del “male”?

In Francia, in questi ultimi giorni, il dibattito sulla morale a scuola è estremamente vivo. Visto che, prima dell’inizio del nuovo anno scolastico, il ministro dell’Educazione Vincent Peillon ha detto che il compito della scuola non può più essere solo quello di trasmettere una serie di nozioni, ma anche quello di educare all’etica, per permettere ai più giovani di capire che «alcuni valori sono più importanti di altri: la conoscenza, l’abnegazione, la solidarietà, piuttosto che i valori del denaro, della concorrenza e dell’egoismo».

E così il linguaggio dei valori, rifiutato per anni dalla sinistra in quanto sinonimo di un ritorno all’ordine morale, fa la sua comparsa “scandalosa”. Provocando polemiche. Rilanciate, all’indomani delle dichiarazioni di Peillon, dall’ex-ministro del governo sarkozista Luc Chatel, che accusa il socialista di utilizzare argomenti “ pétainistes”. Chiedere alla scuola di inculcare nei giovani la morale, perché il risanamento di una nazione non può essere solo materiale, ma anche spirituale, significa, per Chatel, fare un passo indietro nella storia: solo il Maresciallo Pétain, negli anni 1940, aveva osato fare dichiarazioni di questo genere.

Come se parlare di decadenza spirituale fosse all’appannaggio della destra. Oppure della Chiesa. Visto che anche da parte del mondo cattolico si sono sollevate alcune obiezioni, per paura che questi famosi valori da insegnare non siano in conformità con il magistero della Chiesa. Ma di quale morale stiamo allora parlando?

Per Peillon, la sola morale che la scuola può insegnare è una “morale laica”. Non si tratta di tornare alle nozioni tradizionali di “patria” e di “famiglia”, né ai concetti di “ordine” e di “disciplina”, ma solo di stimolate la capacità di ragionare, di dubitare e di criticare dei più giovani. È per questo che a scuola si dovrebbe tornare a parlare di libertà, di rispetto, di dignità e di giustizia. Come non dar ragione al ministro dell’educazione, quando si sa che anche solo per formulare correttamente un giudizio critico si devono avere alcune basi? Certo, all’era dell’autonomia individuale, qualunque forma di ritorno al paternalismo sarebbe incongrua. Non si tratta di dare agli studenti un breviario delle azioni da compiere e di quelle da evitare, né di insegnare cosa si debba o meno pensare della vita, della morte, o della sessualità. Si tratta solo di spiegare il significato preciso dei valori che giustificano l’agire umano. Nozioni come il rispetto, la dignità, la responsabilità o la libertà, che sono alla base di ogni etica pubblica contemporanea, non possono essere utilizzate a casaccio. Ognuna di loro ha una propria “grammatica”; per utilizzarle correttamente si devono conoscere le regole del gioco linguistico.

Ecco quale è lo scopo della scuola oggi: insegnare di nuovo ad utilizzare correttamente le parole della morale per permettere l’organizzazione del “vivere-insieme”; evitare che alcuni radicalismi religiosi interferiscano nella sfera pubblica; alimentare il dibattito democratico, senza che la violenza prenda il posto della critica. Esattamente il contrario di ciò che voleva fare Pétain. Ma anche l’opposto di quello che sognerebbero oggi i nuovi integralisti della morale.
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 05/9/2012 09.30
Titolo:Se manca la solidarietà essere liberi è solo un’illusione
Un mondo senza regole. Perché se manca la solidarietà essere liberi è solo un’illusione

di Zygmunt Bauman (la Repubblica, 5 settembre 2012)

«Chi ha detto che dobbiamo stare alle regole?» La domanda appare con grande rilievo in testa al sito internet locationindependent.com. Immediatamente più in basso, viene suggerita una risposta: «Sei stufo di dover seguire le regole? Regole che ti impongono di ammazzarti di lavoro e guadagnare un mucchio di soldi in modo da permetterti una casa e un mutuo imponente? E lavorare ancora più duramente per ripagarlo, sino al momento in cui avrai maturato una bella pensioncina [...] e finalmente potrai iniziare a goderti la vita? A noi quest’idea non andava - e se non va neanche a te, sei finito nel posto giusto».

Leggendo queste parole non ho potuto fare a meno di ricordare una vecchia barzelletta che circolava all’epoca del colonialismo europeo: mentre passeggia tranquillo per la savana, un inglese che indossa gli irrinunciabili simboli di un compìto colonialista, con tanto di elmetto di ordinanza, s’imbatte in un indigeno che russa beato all’ombra di un albero. Sopraffatto dall’indignazione, per quanto mitigata dal senso di missione di civiltà che lo ha portato in quelle terre, l’inglese sveglia l’uomo con un calcio, gridando: «Perché sprechi il tuo tempo, fannullone, buono a nulla, scansafatiche?». «E cos’altro potrei fare, signore?», ribatte l’indigeno, palesemente interdetto. «È pieno giorno, dovresti lavorare!». «Perché mai?», replica l’altro, sempre più stupito. «Per guadagnare denaro!». E l’indigeno, al colmo dell’incredulità: «Perché?». «Per poterti riposare, rilassare, goderti l’ozio!». «Ma è esattamente quello che sto facendo!», aggiunge l’uomo, risentito e seccato.

Beh, il cerchio si è chiuso: siamo forse arrivati alla fine di una lunga deviazione e tornati al punto di partenza? Lea e Jonathan Woodward, due professionisti europei estremamente colti e capaci che dirigono il sito locationindependent citato prima, stanno forse riconoscendo, esplicitamente e direttamente, senza tanti giri di parole, un concetto premoderno, innato e intuitivo che i pionieri, gli apostoli e gli esecutori della modernità avevano screditato, ridicolizzato e tentato di estirpare quando esigevano invece che le persone lavorassero duramente per tutta la vita e che solo in seguito, alla fine di interminabili fatiche, iniziassero a «spassarsela»?!

Per i Woodward, così come per l’«indigeno» del nostro aneddoto, l’insensatezza di una tale proposta è talmente lampante da non meritare alcuna spiegazione, né una riprova discorsiva. Per loro, così come per l’«indigeno», è chiaro come il giorno che anteporre il lavoro al riposo - e quindi, indirettamente, rimandare una soddisfazione potenzialmente istantanea (quella sacrosanta regola a cui il colonialista dell’aneddoto e i suoi contemporanei si attenevano alla lettera) - non è una scelta più saggia né più utile di quella di chi mette il carro davanti ai buoi.

Che oggi i Woodward possano affermare con tale sicurezza e convinzione delle opinioni che solo una o due generazioni fa sarebbero state considerate un’abominevole eresia è indice di un’imponente «rivoluzione culturale». Una rivoluzione che non ha trasformato soltanto la visione che i rappresentanti delle classi colte hanno del mondo, ma il mondo stesso in cui sono nati e cresciuti, che impararono a conoscere e sperimentarono. Affinché potesse apparire lampante, la loro filosofia di vita doveva basarsi sulla realtà contemporanea e su solide fondamenta materiali che nessuna autorità costituita sembra intenzionata a mettere in discussione.

Le fondamenta della vecchia/nuova filosofia di vita appaiono ormai incrollabili. Quanto profondamente e irreversibilmente il mondo sia cambiato nella sua transizione alla fase «liquida» della modernità è dimostrato dalla timidezza delle reazioni dei governi di fronte alla più grave catastrofe economica verificatasi dalla fine della fase «solida», quando ministri e legislatori hanno deciso, quasi per istinto, di salvare il mondo della finanza - ma anche i privilegi, i bonus, i «colpacci» in Borsa e le strette di mano che suggellavano accordi miliardari e ne consentivano la sopravvivenza: quella potente forza causale e operativa che è stata alla base della deregulation, e principale paladina ed esponente della filosofia dell’«inizieremo a preoccuparcene quando accadrà»; di pacchetti azionari suddivisi in parcelle rimasti immuni dalla responsabilità delle conseguenze; di una vita che si basa sul denaro e sul tempo presi a prestito, e di una modalità di esistenza ispirata al «godi subito e paga dopo». In altre parole, quelle stesse abitudini, che il potere ha facilitato, a cui in definitiva il terremoto economico in questione potrebbe (e dovrebbe) essere ricondotto. (...)

Tuttavia, nell’appello dei Woodward c’è qualcosa di più in gioco, molto di più, della differenza tra un posto di lavoro ancorato a un luogo, tutto racchiuso all’interno di un unico edificio commerciale, e uno itinerante, diretto verso mete predilette quali la Tailandia, il Sudafrica e i Caraibi. (...) A essere realmente in gioco è, come loro stessi ammettono, la «libertà di scegliere ciò che è giusto per te» - per te, e non «per gli altri» - o di come condividere il pianeta e lo spazio con questi altri.

Assumendo tale principio a parametro con cui misurare la correttezza e il valore delle scelte di vita, i Woodward si trovano sulla stessa linea di pensiero delle persone contro le quali si ribellano, come i dirigenti e i manager della Lehman Brothers e tutti i loro innumerevoli emuli, nonché coloro che - come scrive Alex Berenson, del New York Times - ricevono «stipendi a otto cifre» (accusa che con ogni probabilità i Woodward rifiuterebbero indignati).

Tutti, unanimemente, approvano il fatto che «l’ordine dell’egoismo» abbia preso il sopravvento su quell’«ordine della solidarietà», che un tempo aveva il suo vivaio più fertile e la cittadella principale nella protratta condivisione (ritenuta senza fine) dei locali in uffici e fabbriche.

Sono stati i consigli di amministrazione e i dirigenti delle multinazionali, con il tacito o manifesto sostegno e incoraggiamento del potere politico in carica, a occuparsi di smantellare le fondamenta della solidarietà tra impiegati mediante l’abolizione del potere di contrattazione collettivo, smobilitando le associazioni di tutela dei lavoratori e obbligandole ad abbandonare il campo di battaglia; tramite l’alterazione dei contratti di lavoro, l’esternalizzazione e il subappalto delle funzioni manageriali e delle responsabilità dei dipendenti, deregolamentando (rendendo «flessibili») gli orari di lavoro, limitando i contratti di lavoro e al tempo stesso intensificando l’avvicendarsi del personale e legando il rinnovo dei contratti alle prestazioni individuali, controllandole da vicino e in continuazione. Ovvero, per farla breve, facendo tutto il possibile per colpire la logica dell’autotutela collettiva e favorire la sfrenata competitività individuale per assicurarsi vantaggi dirigenziali.

Il passo definitivo per porre fine una volta per tutte a qualsiasi occasione di solidarietà tra dipendenti - che per la grande maggioranza delle persone rappresenta l’unico mezzo per raggiungere la «libertà di scegliere ciò che fa per te» - richiederebbe, comunque, l’abolizione della «sede di lavoro fissa» e dello spazio condiviso dai lavoratori, in ufficio o in fabbrica.

Ed è questo il passo che Lea e Jonathan Woodward hanno compiuto. Con le loro competenze e credenziali se lo sono potuti permettere. Tuttavia non sono molte le persone che si trovano nella condizione di cercare un rimedio alla propria mancanza di libertà in Tailandia, in Sudafrica o ai Caraibi, non necessariamente in questo stesso ordine.

Per tutti gli altri che non sono in una simile posizione, il nuovo concetto/stile di vita/impostazione mentale dei Woodward confermerebbe una volta per tutte quanto le loro perdite siano definitive, dal momento che meno persone rimarrebbero impegnate nella difesa collettiva delle loro libertà individuali. L’assenza più cospicua sarebbe quella delle «classi colte», a cui un tempo spettava il compito di sollevare dalla miseria gli oppressi e gli emarginati.

(Traduzione di Marzia Porta)
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 06/9/2012 10.20
Titolo:UNA MAREA CHE TRAVOLGE OGNI COSA ....
Chi vuole bloccare il cambiamento

di Michele Ciliberto (l’Unità, 06.09.2012)

IN ITALIA SIAMO ABITUATI, SE NON A TUTTO, A MOLTE COSE. MA LA DICHIARAZIONE di Pietro Grasso sulle «menti raffinatissime» che sono all’opera, come nel 1992, per impedire una soluzione positiva della crisi italiana non può passare inosservata. Quale è la situazione dell’Italia in questo momento? Qual è il nostro problema principale? Credo debba essere questo il punto centrale della discussione, né, a mio giudizio, ci sono dubbi sulla risposta. In questione oggi è il destino, e il futuro, dello Stato nazionale italiano, per motivi sia di ordine interno che internazionale. Riguardo a questi ultimi, sono sotto gli occhi di tutti le gravissime difficoltà in cui si trova il nostro Paese, e i problemi che sono oggi aperti intorno ai rapporti tra sovranità nazionale e sovranità europea.

Ma non meno decisivi, e gravi, sono i problemi di ordine interno. Anzi, per molti aspetti, è anzitutto qui che bisogna guardare per capire cosa sta effettivamente accadendo.

In Italia sono oggi in profonda crisi sia il potere esecutivo che quello legislativo e giudiziario. Se si volesse usare una espressione del linguaggio ordinario si potrebbe dire che stanno «saltando» i binari e che viviamo in una situazione eccezionale, in cui tutto è diventato possibile.

L’azione del presidente della Repubblica compreso il conflitto di attribuzione sollevato presso la Corte costituzionale si situa in questo contesto: è un momento importante ma un momento di un’azione che, restando nell’ambito delle proprie prerogative, si sta sforzando da tempo di evitare che il Paese deragli e di ricostituire le fondamenta della legalità e le regole repubblicane. In questo senso è anche, oggettivamente, una iniziativa politica opportuna, a mio giudizio. Ma certo, esposta, proprio per questa sua natura, alla possibilità di critiche di varia natura.

Detto questo, resta però da capire perché la presidenza della Repubblica venga attaccata con questa violenza e perché sia stata individuata da un fronte composito come il nemico principale, l’ostacolo da abbattere con tutti gli strumenti possibili. Si può cominciare a capirlo se si analizzano gli schieramenti in campo e, quando ci siano, le strategie da essi proposte, sapendo che il governo Monti periodizza anche da questo punto di vista la storia della Repubblica.

Semplificando, le proposte principali di soluzione della crisi sono in sostanza tre: la democratica; la tecnocratica; la neo-giacobina. Esse ed è un punto interessante non sono, peraltro, specifiche di un singolo partito: ad esempio, la soluzione democratica e quella tecnocratica convivono nel Pd.

A conferma della complessità, della vischiosità e anche della novità della situazione, va però subito detto che a queste tre se ne aggiunge una quarta, altrettanto importante: paradossalmente, si potrebbe definire quella della non-soluzione della crisi. In altre parole, è quella che, in una situazione come quella attuale, punta, da un lato, a una sorta di «feudalizzazione» dei poteri economici e politici (con un nuovo ruolo politico e organizzativo affidato ai giornali); dall’altro a un declino del nostro Stato nazionale come realtà autonoma e specifica, con una strategia che non ha nulla a che fare con le vecchie politiche della Lega di Bossi: qui è l’idea di Stato in quanto tale che viene subordinata a una riorganizzazione proprietaria dei poteri, refrattaria ad ogni regola a cominciare da quelle sindacali -, e proiettata in un orizzonte post-statale e post-nazionale.

Riprendendo la distinzione schematica ora proposta, sono forze che si oppongono frontalmente alla proposta «democratica»; ma sono distanti anche dalla prospettiva «tecnocratica» o dall’ipotesi di una «grande coalizione». Né c’è da fare dietrologia. Basta limitarsi alla lettura di alcuni giornali per vedere all’opera forze che tengono in una condizione di tensione permanente il Paese per evitare che la crisi trovi una soluzione politica. Sono forze favorite, e alimentate, da alcuni dati obiettivi: la crisi dei partiti e delle culture politiche tradizionali; la decomposizione dei vecchi legami sociali ed economici; la frantumazione delle strutture associative, a cominciare dal sindacato; e, naturalmente, la crisi della sovranità nazionale...

Dicendo questo non penso solo alla camorra o alla mafia (cosa ben nota); ma a forze economiche ed politiche che puntano alla crisi e alla dissoluzione dei «vincoli» essenziali dello Stato, proprio mentre il problema del rapporto tra sovranità nazionale e sovranità europea si configura in termini, per molti aspetti, drammatici. La violenza e la durezza dell’attacco alla presidenza della Repubblica e al suo ruolo nasce qui: essa è, di fatto, individuata come l’ostacolo politico principale a questo disegno. Quella che si sta svolgendo in questi mesi è una battaglia integralmente politica, condotta con tutte le armi-lecite ed illecite-; ed è strategica per una serie di forze che stanno cercando di ricollocarsi dopo la fine del berlusconismo per fronteggiare e risolvere la crisi internazionale a proprio vantaggio. Questa è la sostanza della cosa. Si tratta di un complesso di forze potenti, ed è, certo, possibile che, alla loro testa, siano «menti raffinatissime»; ma per capire come esse agiscono e cosa vogliono basta Karl Marx. Quelli che sono in campo sono interessi precisi, materiali, che si sono schierati sulla base di quelle che considerano le proprie convenienze.

Credo che sia un altro, invece, il punto principale da sottolineare per capire la situazione in cui ci troviamo: la realtà dei fatti, specie in queste ultime settimane, è stata fortemente annebbiata, e confusa, da uno scontro ideologico di estrema violenza. Non è la prima volta, né sarà l’ultima. Ma in questo caso la nebbia si è particolarmente infittita perché l’ideologia si è «colorata» in buona o in cattiva fede (mi guardo bene dal fare di ogni erba un fascio) di «legalismo» e di «moralismo», diffondendosi e trovando consensi anche a sinistra. E si capisce: il «moralismo», oltre ad essere una cosa in sé rispettabile, è un classico, ed eccezionale strumento ideologico anche se non è mai servito per capire, o per cambiare, la realtà. Ma questa «coloritura» (parola cara a Machiavelli) ha contribuito ad accentuare ulteriormente la confusione sotto il cielo.

A differenza di quanto pensava il presidente Mao, da questa confusione è però necessario uscire, e per farlo bisogna richiamare l’attenzione di tutti sul punto centrale, mettendolo in piena luce: il nostro destino come Stato, come comunità nazionale imperniata sui diritti e sui doveri sanciti dalla Costituzione.

Giorno dopo giorno, intorno a noi sale una marea che travolge ogni cosa, anche i principi elementari di un possibile confronto. Per cercare di ristabilire le fondamenta del nostro «vivere civile» a cominciare da quello costituzionale occorre andare alla sostanza delle cose ponendo al centro della discussione, in modo rigoroso e disincantato, le ragioni interne e internazionali della lunga crisi dello Stato italiano, i motivi profondi del conflitto attuale, interrogandosi ed è il punto decisivo su quale possa essere un suo possibile futuro, mentre si esaurisce il paradigma «moderno» della statualità.
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 06/9/2012 12.26
Titolo:LE REGOLE DEL GIOCO. Nell’infanzia abbiamo la capacità di imparare le «regole» ...
L’intervento della De Monticelli a Torino Spiritualità

Sono i giochi dei bimbi a distinguerci dalle scimmie

Nell’infanzia abbiamo la capacità di imparare le «regole»

di Roberta De Monticelli (La Stampa, 06.09.2012)

LA DIFFERENZA. Gli altri primati seguono gli istinti, solo gli umani vivono secondo «norme»
LA COOPERAZIONE. Quest’interazione non sempre ha un connotato positivo, oggi spesso si trasforma in consorteria

L’ uomo è animale normativo. Questo vuol dire che mentre gli altri primati vivono, per intenderci rapidamente, in base agli istinti, tutta la nostra vita è invece soggetta a norme. Bisognerebbe imparare a sentire, nella parola «normalità», proprio il senso pervasivo della normatività radicata nel nostro comportamento quotidiano.

Tutta la nostra vita cosciente, che si tratti di azioni, decisioni, emozioni, pensieri, percezioni, è soggetta alla questione se sia come dovrebbe. C’è una coscienza normativa - tipicamente, un senso di (in) adeguatezza - che attraversa ogni nostro fare, dire, pensare, percepire, sentire: ci rendiamo conto del suo essere più o meno adeguato, corretto, opportuno, riuscito, «esatto» (da «esigere»).

Del resto, l’anima di ogni cultura - a cominciare dalla suo stesso scheletro, la lingua di quella cultura - è un’anima normativa, è in qualche modo coscienza di un dovuto.

Nell’esempio della lingua lo si vede con la massima chiarezza. Nessuno parla come gli passa per la testa, perché non parlerebbe affatto. Parlare è piegarsi alle norme di senso della lingua in cui si parla...

Da dove viene il potere obbligante delle norme? Da Dio, dalla Natura, dalla Società, dalla Ragione? Possiamo ricostruire la storia della filosofia in base alle risposte che si danno a questa questione. Ma se il mondo antico e quello moderno ancora disputano in noi con le loro risposte, è dai tempi di Socrate che noi conosciamo un modello di «normalità» umana che è centrato sul potere dell’interrogativo.

Socrate incentrò su questo potere la sua paideia, l’educazione dell’uomo alla ricerca dei fondamenti di giustificazione delle norme, di qualunque tipo, inclusi i nostri mores. Lungo la via di Socrate è cresciuto, nell’anima d’Europa, quasi tutto ciò per cui vale la pena di vivere: la libera ricerca nelle scienze, nelle arti, nell’etica, nel diritto, nella politica, nella religione.

La «normalità» socratica è il rinnovamento morale quotidiano, che idealmente presuppone la libertà e la ricerca di verità, per dare alla norma quotidiana verifica, o allora ragionevole e giusta modifica.

Husserl nello stesso spirito pensava che «etica» e «rinnovamento» quotidiano siano quasi sinonimi. Il gioco socratico della verifica delle regole è in un certo senso l’eterna giovinezza: in un senso opposto a quello della grottesca, scimmiesca simulazione di giovinezza che abbiamo sotto gli occhi nelle viziose gerontocrazie di oggi.

Oggi però sappiamo molto di più di un tempo sulle basi naturali della cultura. Sulla differenza fra noi e le specie più evolute di primati la scienza ha detto molto.

La differenza è minima in termini genetici, eppure enorme all’apparenza. Come mai? Michael Tomasello, ugualmente esperto nella psicologia sperimentale dei primati e degli infanti umani, è diventato famoso per aver individuato questa differenza nel fatto che questa pur minima differenza ha fatto di noi degli animali cooperativi.

Tomasello ha giocato a lungo coi bambini più piccoli, e ha studiato il loro giocare. Qui, nel loro gioco, ha scoperto quello che ci distingue davvero dai primati. Noi abbiamo delle capacità naturali in cui questa attitudine cooperativa si fonda. Noi sappiamo veramente imitare, cioè non semplicemente copiare le azioni, ma capire le loro intenzioni e riprodurle: direi, afferrare la regola che anima un gesto.

Mentre le scimmie, quand’anche scimmiottino, sanno solo «emulare»: cioè imitare l’uso di un mezzo per scopi che già hanno indipendentemente. Non apprendono per imitazione fini e intenzioni nuove. Non imparano le regole di giochi per loro nuovi, come i bambini anche piccolissimi. Non imparano a scambiarsi il ruolo nei giochi, quindi a relativizzare il proprio punto di vista sulla realtà, capire ce ne sono anche altri. Non sanno condividere l’attenzione, e quindi il riferimento a un comune contesto. Non sono fatti per condividere un linguaggio, e neppure una cultura materiale. Non c’è propriamente crescita tramite accumulo e innovazione nel mondo animale.

Un equivoco grava su questa scoperta: una sorta di tesi neo-roussoviana, per cui noi saremmo allora «naturalmente» buoni, simpatici. È l’equivoco della naturalizzazione dell’etica: questa starebbe già nella nostra natura cooperativa - e non soltanto competitiva.

Un equivoco, perché non è affatto il carattere cooperativo come tale a rendere un’interazione umana, o addirittura una società umana, giusta. È vero che le società umane sono organizzate in modo cooperativo. Ma la cooperazione funziona tanto nella giustizia quanto nell’ingiustizia, tanto è vero che fin dall’inizio delle civiltà si dibatte sull’alternativa fondamentale: la legge si fonda sulla forza o sulla giustizia?

Socrate e Trasimaco aprono una disputa che dura fino ai nostri giorni - e se la filosofia tende a dar ragione a Socrate la storia tende a darla a Trasimaco.

Il fenomeno più palese della cooperazione senza giustizia è la consorteria, origine di ogni forma di criminalità organizzata, che è la tendenza a co-operare conformemente al vantaggio dei cooperanti qualunque sia lo svantaggio di terzi estranei all’accordo, e quindi della comunità più vasta cui il gruppo dei cooperanti appartiene.

Il modello di «normalità» che sembra oggi dominante in Italia è quella dell’uomo di consorteria. È la soggettività così caratteristica dei nostri giorni: la «normalità» priva di ogni senso di (in) adeguatezza, priva perfino dell’ombra di un interrogativo, mera funzione di quella collettiva della consorteria d’appartenenza.

È la mentalità dell’esecutore - che sia poi quella del complice, del servitore o di quel mezzo fra i due che è il moderno «mediatore»: il faccendiere, il referente politico per l’attività lobbistica, il funzionario di partito, il giornalista deferente. La sua funzione è quella del topo roditore di normatività. Si parla oggi più correntemente di erosione di legalità, perché di questa abbiamo dati contabili, l’enorme fatturato annuale che comporta.

Ma non è che la punta dell’iceberg, dove l’iceberg è l’erosione di legalità interiore. Ne esiste una gamma quasi infinita di varianti, a seconda del tipo di consorteria: dalle cordate dei concorsi universitari alle cosche mafiose.

Ciò che l’erosione di legalità esterna e interiore produce, è la sostituzione della regola esplicita, che si rivolge alla coscienza personale e alla sua facoltà di dubbio e interrogazione, con il potere normativo della pressione sociale, la cui caratteristica è la delegittimazione del dissenso. Ne sappiamo qualcosa in questi giorni, quando torna in auge una frase che potevamo sperare sepolta nel cimitero degli orrori politici: «Se dici così fai il gioco dell’avversario».
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 12/9/2012 13.08
Titolo:Per ogni nostro rapporto comunicativo .....
«Il modello? Il dialogo misterioso nel sepolcro di Gesù»

di Carlo Maria Martini (Avvenire, 12 settembre 2012)

Solitamente si dà della comunicazione una definizione empirica: comunicare è «dire qualcosa a qualcuno». Dove quel «qualcosa» si può allargare a livello planetario, attraverso il grande mondo della rete che è andato ad aggiungersi ai mezzi di comunicazione classici. Anche quel «qualcuno» ha subìto una crescita sul piano globale, al punto che gli uditori o i fruitori del messaggio in tempo reale non si possono nemmeno più calcolare.

Questa concezione empirica, alla luce dell’odierno allargamento di prospettive, dove sempre più si comunica senza vedere il volto dell’altro, ha fatto emergere con chiarezza il problema maggiore della comunicazione, ossia il suo avvenire spesso solo esteriormente, mantenendosi sul piano delle nude informazioni, senza che colui che comunica e colui che riceve la comunicazione vi siano implicati più di tanto.

Per questo vorrei tentare di dare della comunicazione una descrizione «teologica», che parta cioè dal comunicarsi di Dio agli uomini, e lo vorrei fare enunciando qui alcune riflessioni che potrebbero servire per una nuova descrizione del fenomeno.

Nel sepolcro di Gesù, la notte di Pasqua, si compie il gesto di comunicazione più radicale di tutta la storia dell’umanità. Lo Spirito Santo, vivificando Gesù risorto, comunica al suo corpo la potenza stessa di Dio. Comunicandosi a Gesù, lo Spirito si comunica all’umanità intera e apre la via a ogni comunicazione autentica. Autentica perché comporta il dono di sé, superando così l’ambiguità della comunicazione umana in cui non si sa mai fino a che punto siano implicati soggetto e oggetto.

La comunicazione sarà dunque anzitutto quella che il Padre fa di sé a Gesù, poi quella che Dio fa a ogni uomo e donna, quindi quella che noi ci facciamo reciprocamente sul modello di questa comunicazione divina. Lo Spirito Santo, che riceviamo grazie alla morte e resurrezione di Gesù e che ci fa vivere a imitazione di Gesù stesso, presiede in noi allo spirito di comunicazione. Egli pone in noi caratteristiche, quali la dedizione e l’amore per l’altro, che ci richiamano quelle del Verbo incarnato. Di qui potremmo dedurre alcune conclusioni su ogni nostro rapporto comunicativo.

Primo. Ogni nostra comunicazione ha alla radice la grande comunicazione che Dio ha fatto al mondo del suo Figlio Gesù e dello Spirito Santo, attraverso la vita, morte e resurrezione di Gesù e la vita di Gesù stesso nella Chiesa. Si capisce perciò come i Libri sacri, che in sostanza parlano di questa comunicazione, siano opere di grande valore per la storia del pensiero umano. È vero che anche i libri di altre religioni possono essere ricchi di contenuto, ma questo è dovuto al fatto che sottostà a essi il dato fondamentale di Dio che si dona all’uomo.

Secondo. Ogni comunicazione deve tenere presente come fondante la grande comunicazione di Dio, capace di dare il ritmo e la misura giusti a ogni gesto comunicativo. Ne consegue che un gesto sarà tanto più comunicativo quanto non solo comunicherà informazioni, ma metterà in rapporto le persone. Ecco perché la comunicazione di una verità astratta, anche nella catechesi, appare carente rispetto alla piena comunicazione che si radica nel dono di Dio all’uomo.

Terzo. Ogni menzogna è un rifiuto di questa comunicazione. Quando ci affidiamo con coraggio all’imitazione di Gesù, sappiamo di essere anche veri e autentici. Quando ci distacchiamo da questo spirito, diveniamo opachi e non comunicanti.

Quarto. Anche la comunicazione nelle famiglie e nei gruppi dipende da questo modello. Essa non è soltanto trasmissione di ordini o proposta di regolamenti ma suppone una dedizione, un cuore che si dona e che quindi è capace di muovere il cuore degli altri.

Quinto. Anche la comunicazione nella Chiesa obbedisce a queste leggi. Essa non trasmette solo ordini e precetti, proibizioni o divieti. È scambio dei cuori nella grazia dello Spirito Santo. Perciò le sue caratteristiche sono la mutua fiducia, la parresia, la comprensione dell’altro, la misericordia

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