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www.ildialogo.org CONTRO IL "NEW REALISM", IL PENSIERO DEBOLE E' ANCORA FORTE. Una nota di Pier Aldo Rovatti,a c. di Federico La Sala

"NUOVO REALISMO". DATO L’ ADDIO A KANT, MAURIZIO FERRARIS SI PROPONE COME IL SUPERFILOSOFO DELLA CONOSCENZA (QUELLA SENZA PIU’ FACOLTA’ DI GIUDIZIO)!
CONTRO IL "NEW REALISM", IL PENSIERO DEBOLE E' ANCORA FORTE. Una nota di Pier Aldo Rovatti

(...) la storia e la verità. Storia significa provenienza, genealogia, processo sociale attraverso cui si forma la coscienza politica del presente e al di fuori del quale la parola “critica” e anche la stessa parola illuminismo (invocata da Ferraris) rischiano di restare parole senza spessore. “Verità” (con le virgolette!) vuol dire appunto negazione della pretesa di possedere una volta per tutte la verità (senza virgolette).


a c. di Federico La Sala

Materiali sul tema:

"NUOVO REALISMO", IN FILOSOFIA. DATO L’ ADDIO A KANT, MAURIZIO FERRARIS SI PROPONE COME IL SUPERFILOSOFO DELLA CONOSCENZA (QUELLA SENZA PIU’ FACOLTA’ DI GIUDIZIO).

FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.

L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO. Cristianesimo, democrazia e necessità di "una seconda rivoluzione copernicana" ________________________________________________________________

Il pensiero debole è ancora “forte”

 Un intervento sul dibattito filosofico intorno al Nuovo realismo
 Nell’agosto scorso Ferraris ha lanciato su queste pagine il manifesto del
New Realism che ha aperto il dibattito sul superamento del Pensiero debole

di Pier Aldo Rovatti (la Repubblica, 16.06.2012)

Non possiamo far finta che non si stia combattendo un sintomatico conflitto di idee. Esso esisteva ancor prima che venisse alla superficie attraverso articoli, saggi e libri. Con il Manifesto del nuovo realismo ( Laterza) Maurizio Ferraris ha il merito di averlo fatto emergere e di avere surriscaldato la scena. Umberto Eco, nel suo intervento intitolato Di un realismo negativo (in “alfabeta2”, n. 17, e su questo stesso giornale), ha stemperato i toni.

Gianni Vattimo, pubblicando (da Garzanti) Della realtà, cioè quello che ha detto e scritto nell’ultimo decennio, ha documentato la propria dissidenza filosofica con la consueta chiarezza, ed è a partire da questo libro che vorrei esprimere alcune mie considerazioni.

Lascio perdere le punte polemiche (per esempio, Vattimo che pubblica sul manifesto una lettera a Eco, e Ferraris che gli risponde contestualmente, come a dire «se vuoi parlare con me, fallo direttamente»). E vengo subito al conflitto delle idee: in gioco mi pare soprattutto la domanda «dove sta andando la filosofia? » e, più precisamente, «che fine stanno facendo il “sociale” e il “politico” in questa svolta di pensiero? ».

Nessuno dei contendenti si sogna di dichiararsi “contro il realismo”: da una parte, però, si propone di salvare il nocciolo “ontologico” della questione sbarazzandosi di tutto quanto è avvenuto dal ’68 a oggi, dall’altra si valuta con preoccupazione quel che si perderebbe procedendo così.

A detta di Vattimo si rinuncerebbe al potenziale di trasformazione che la filosofia può ancora avere e che anzi, proprio adesso, in tempi in cui la crisi tende a comprimere anche gli spazi di pensiero, dovremmo cercare di attivare e valorizzare. Il suo punto di vista è netto: per lui rischiamo di ingabbiarci in un atteggiamento ultraconservativo dal sapore accademico, se togliamo alla filosofia quel mandato sociale e politico costruito in decenni di lavoro ermeneutico e fenomenologico, attraverso la rilettura critica di Nietzsche e di Heidegger, gli apporti mutuati dalla microfisica del potere di Foucault e dal decostruzionismo di Derrida, senza dimenticare il ruolo non marginale giocato da Benjamin.

Tutto questo percorso - che ora si vorrebbe devitalizzare (omologandolo in un generico postmodernismo) - conduce secondo Vattimo proprio a una descrizione critica della “realtà”, nella sua complessità ma soprattutto nei suoi dispositivi oggettivanti e che limitano la libertà dei soggetti in quanto cittadini in lotta per i loro diritti.

Come è noto, anche se non mi sono mai del tutto identificato filosoficamente con Vattimo (per formazione e scelte specifiche), ne condivido nella sostanza l’impianto (cfr. in Della realtà soprattutto le “Lezioni di Glasgow” del 2010): è una posizione che permette, nell’attuale conflitto di idee, di vedere bene i rischi del disboscamento in atto e soprattutto di illuminare il tratto più sorprendente di questa “pulizia” culturale, e cioè la rimozione della soggettività.

Sembra infatti che il realismo ora rilanciato voglia e possa fare a meno della soggettività, quasi fosse inglobata o sottintesa e non una questione aperta e cruciale. Un realismo senza soggetto, per dir così, chiude o comunque squalifica come irrilevanti i problemi che, secondo Vattimo (e secondo me), dovrebbero invece essere considerati vitali per il discorso filosofico: quelli, per esempio, dell’identità e dell’alterità e di cosa può significare oggi socializzazione o legame sociale; oppure quelli della prossimità e della distanza e di cosa, appunto, può voler dire “soggetto” nel momento in cui è chiaro che nessuno può essere più padrone a casa propria e che l’idea di individuo neoliberale sembra ormai andare in frantumi.

Ipotizzo che Vattimo si sia rivolto a Eco (nella lettera che ho sopra ricordato) perché gli attribuisce una sensibilità sull’intera questione, nonostante il fatto che Eco appaia schierato nel campo avverso. Una sensibilità innanzi tutto “storica”: una cautela nel buttar via il bambino con l’acqua sporca, salviamo almeno l’insegnamento in fatto di “ironia” che ci arriva da quella stagione che ora vorremmo frettolosamente cancellare. E poi una sensibilità verso un “realismo minimo”, inteso come un limite «che non ci garantisce che noi possiamo domani possedere la verità».

Ecco gli ulteriori e imprescindibili fronti della battaglia in corso, molto evidenti nel libro di Vattimo: la storia e la verità. Storia significa provenienza, genealogia, processo sociale attraverso cui si forma la coscienza politica del presente e al di fuori del quale la parola “critica” e anche la stessa parola illuminismo (invocata da Ferraris) rischiano di restare parole senza spessore. “Verità” (con le virgolette!) vuol dire appunto negazione della pretesa di possedere una volta per tutte la verità (senza virgolette).

Le due questioni sono ovviamente intrecciate: per combattere le pretese di chi ha creduto o ancora crede di avere in mano la verità, occorre che gli “eventi” vengano ogni volta attraversati dalla storicità e che i soggetti storici ne siano i responsabili effettivi, concreti, politici: tutti i soggetti, non solo quei supposti “funzionari dell’umanità” che chiamiamo filosofi. Vattimo ha costantemente combattuto questa battaglia e continua a farlo anche in Della realtà. Qualcuno ritiene che sia ormai passato il suo tempo. A me pare lampante che la sostanza del suo programma filosofico sia ancora incisiva, oggi - forse - ancora più di ieri.



Sabato 16 Giugno,2012 Ore: 17:11
 
 
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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 01/9/2012 22.45
Titolo:LA LEZIONE E LA MEMORIA DI ENZO PACI R-ESISTE ANCORA ....
L’attenzione ai non credenti

di Carlo Sini (l’Unità, 1 settembre 2012)

Ho incontrato per la prima volta il cardinale Martini in occasione della preparazione dei programmi per la Cattedra dei non credenti. Mi accolse nel suo studio in Arcivescovado, in ora serale. Nella penombra mi venne incontro con quel fare semplice e cordiale, mai affettato e mai impostato, che tutti coloro che lo conoscevano ricordavano e ammiravano in lui. Il tratto accogliente contrastava, senza che lui certo se ne avvedesse, con quella sua figura singolarmente alta e ieratica che non poteva non colpire chi per la prima volta lo incontrava e che comunque restava impressa poi nella memoria.

Parlammo del dialogo che, qualche giorno dopo, ci avrebbe visti insieme nell’aula magna della Università degli studi di Milano. L’argomento di quell’anno, per la Cattedra, era il tempo e io avevo proposto di concentrare il mio intervento su Agostino. Mi aspettavo qualche discreta domanda relativa alla impostazione che intendevo dare al discorso, ma con signorile distacco e discrezione Martini non vi fece il minimo cenno.

Si trattava semplicemente di un contatto preliminare per conoscerci un po’ e fu soprattutto lui a parlare di sé, del suo amore per gli studi teologici, purtroppo da tempo limitati dai suoi incarichi pastorali, della sua convinzione che la ricerca vive di libertà: l’iniziativa della Cattedra dei non credenti era pensata appunto in questo spirito di carità e di apertura.

Parlava con una modestia non affettata e con una serenità di tono che da un lato attraevano alla confidenza, dall’altro e nel contempo imponevano un istintivo riserbo. Da tempo avevo maturato una meditata stima per questo arcivescovo di Milano che coraggiosamente si adoperava e si esponeva in favore dei diritti del lavoro e della giustizia sociale e si batteva per l’accoglienza dei fratelli che venivano da lontano.

Per la mia relazione all’università mi preparai con molto impegno, naturalmente: anche i non credenti hanno, a loro modo, un’anima; ma Martini, prendendo dopo di me la parola, disse letteralmente: «Il professor Sini ci ha messo in parete!» Alludeva scherzosamente, con questa metafora da scalatori, ai passaggi forse troppo ardui della mia relazione. Per parte sua, abbassò considerevolmente il livello e il tono: parlava per i suoi credenti e per il buon popolo di Dio, senza nessuna pretesa di ben figurare. Anche in questo lo ammirai: a ognuno la sua parete e la sua parte, con reciproco rispetto e trasparente onestà.

Un seconda volta incontrai Martini in occasione della enciclica «filosofica» di papa Woityla: si trattava di un convegno organizzato dalla diocesi milanese per il quale ero invitato a portare una interpretazione «laica» del testo. Non feci mistero della mia posizione critica su certe tesi, ma Martini non mi ascoltò: dopo aver aperto i lavori e ringraziato i presenti, se ne andò, adducendo impegni improrogabili.

Aveva fatto il suo dovere, organizzando al meglio la manifestazione; ebbi però l’impressione che dell’enciclica non fosse entusiasta. Se ripenso alla conversazione privata all’Arcivescovado e ai suoi riferimenti al modo di intendere gli studi religiosi, l’insistenza dell’enciclica in favore di una filosofia universale che caratterizzerebbe l’intera umanità, consapevole o inconsapevole, non poteva trovarlo consenziente, o così mi parve e mi pare.

La grande e nobile figura di Martini mi ricorda ciò che disse Enzo Paci in occasione del discorso di Paolo V all’ONU: se un papa parla così, noi non possiamo che rallegrarcene. Lo spirito soffia dove vuole e non chiede a noi di decidere dove, come e per chi. La Cattedra per i non credenti ne è stato un segno indelebile.

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