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www.ildialogo.org "PER TUTTI" O "PER MOLTI"? DI RISPETTO E GIUSTIZIA NE SA PIU' ZEUS CHE IL DIO DI BENEDETTO XVI. Il mito di Prometeo narrato da Protagora,a c. di Federico La Sala

IL "PANE QUOTIDIANO" DEL "PADRE NOSTRO", VENDUTO A "CARO PREZZO", MOLTO CARO (= "CARITAS")! ULTIMA CENA ED ECONOMIA VATICANA: LA CARESTIA AVANZA!!! Benedetto XVI "cambia la formula dell’Eucarestia"! «Il calice fu versato per molti», non «per tutti»!!!
"PER TUTTI" O "PER MOLTI"? DI RISPETTO E GIUSTIZIA NE SA PIU' ZEUS CHE IL DIO DI BENEDETTO XVI. Il mito di Prometeo narrato da Protagora

Ermes chiese a Zeus in quale modo dovesse distribuire rispetto e giustizia agli uomini: «Devo distribuirli come sono state distribuite le arti? Per queste, infatti, ci si è regolati così: se uno solo conosce la medicina, basta per molti che non la conoscono, e questo vale anche per gli altri artigiani. Mi devo regolare allo stesso modo per rispetto e giustizia, o posso distribuirli a tutti gli uomini?« «A tutti - rispose Zeus - e tutti ne siano partecipi; infatti non esisterebbero città, se pochi fossero partecipi di rispetto e giustizia, come succede per le arti. Istituisci inoltre a nome mio una legge in base alla quale si uccida, come peste della città, chi non sia partecipe di rispetto e giustizia»


a c. di Federico La Sala

Materiali sul tema:

ULTIMA CENA ED ECONOMIA VATICANA: LA CARESTIA AVANZA!!! Benedetto XVI "cambia la formula dell’Eucarestia"! «Il calice fu versato per molti», non «per tutti»!!!

SE UN PAPA TEOLOGO SCRIVE LA SUA PRIMA ENCICLICA, TITOLANDOLA "DEUS CARITAS EST" ("CHARITAS", SENZA "H"), E’ ORA CHE TORNI A CASA, DA "MARIA E GIUSEPPE", PER IMPARARE UN PO’ DI CRISTIANESIMO

RATZINGER ’A SCUOLA’ DEL VISIONARIO SWEDENBORG. Una nota di Leonard Boff e una di Immanuel Kant   (Federico La Sala

 

___________________________________________________________________

PLATONE, PROTAGORA NARRA IL MITO DI PROMETEO

Nel "Protagora", il noto sofista di Abdera illustra la propria tesi col mito di Epimeteo e Prometeo: Zeus, per render loro possibile vivere in società, ha distribuito aidos e dike a tutti gli uomini. Gli uomini hanno bisogno della cultura e dell’organizzazione politica perché sono creature prive di doti naturali, come artigli, denti e corna, immediatamente funzionali ai loro bisogni. Tutti partecipano di queste due virtù "politiche". Ma esse non vanno viste come connaturate all’uomo, bensì come qualcosa di sopravvenuto, qualcosa che è stato trasmesso in maniera consapevole, e non semplicemente attribuito in un processo cieco, "epimeteico", del quale si può render conto soltanto ex post: per questo è possibile insegnare aidos e dike agli uomini, mentre non si può "insegnare" a un toro ad avere corna e zoccoli. *

 

Ci fu un tempo in cui esistevano gli dei, ma non le stirpi mortali. Quando giunse anche per queste il momento fatale della nascita, gli dei le plasmarono nel cuore della terra, mescolando terra, fuoco e tutto ciò che si amalgama con terra e fuoco.

Quando le stirpi mortali stavano per venire alla luce, gli dei ordinarono a Prometeo e a Epimeteo di dare con misura e distribuire in modo opportuno a ciascuno le facoltà naturali. Epimeteo chiese a Prometeo di poter fare da solo la distribuzione: "Dopo che avrò distribuito - disse - tu controllerai".  

Così, persuaso Prometeo, iniziò a distribuire. Nella distribuzione, ad alcuni dava forza senza velocità, mentre donava velocità ai più deboli; alcuni forniva di armi, mentre per altri, privi di difese naturali, escogitava diversi espedienti per la sopravvivenza. [321] Ad esempio, agli esseri di piccole dimensioni forniva una possibilità di fuga attraverso il volo o una dimora sotterranea; a quelli di grandi dimensioni, invece, assegnava proprio la grandezza come mezzo di salvezza.

Secondo questo stesso criterio distribuiva tutto il resto, con equilibrio. Escogitava mezzi di salvezza in modo tale che nessuna specie potesse estinguersi. Procurò agli esseri viventi possibilità di fuga dalle reciproche minacce e poi escogitò per loro facili espedienti contro le intemperie stagionali che provengono da Zeus. Li avvolse, infatti, di folti peli e di dure pelli, per difenderli dal freddo e dal caldo eccessivo. Peli e pelli costituivano inoltre una naturale coperta per ciascuno, al momento di andare a dormire. Sotto i piedi di alcuni mise poi zoccoli, sotto altri unghie e pelli dure e prive di sangue. In seguito procurò agli animali vari tipi di nutrimento, per alcuni erba, per altri frutti degli alberi, per altri radici. Alcuni fece in modo che si nutrissero di altri animali: concesse loro, però, scarsa prolificità, che diede invece in abbondanza alle loro prede, offrendo così un mezzo di sopravvivenza alla specie.

Ma Epimeteo non si rivelò bravo fino in fondo: senza accorgersene aveva consumato tutte le facoltà per gli esseri privi di ragione. Il genere umano era rimasto dunque senza mezzi, e lui non sapeva cosa fare. In quel momento giunse Prometeo per controllare la distribuzione, e vide gli altri esseri viventi forniti di tutto il necessario, mentre l’uomo era nudo, scalzo, privo di giaciglio e di armi. Intanto era giunto il giorno fatale, in cui anche l’uomo doveva venire alla luce.

Allora Prometeo, non sapendo quale mezzo di salvezza procurare all’uomo, rubò a Efesto e ad Atena la perizia tecnica, insieme al fuoco - infatti era impossibile per chiunque ottenerla o usarla senza fuoco - e li donò all’uomo. All’uomo fu concessa in tal modo la perizia tecnica necessaria per la vita, ma non la virtù politica. [322] Questa si trovava presso Zeus, e a Prometeo non era più possibile accedere all’Acropoli, la dimora di Zeus, protetta da temibili guardie. Entrò allora di nascosto nella casa comune di Atena ed Efesto, dove i due lavoravano insieme. Rubò quindi la scienza del fuoco di Efesto e la perizia tecnica di Atena e le donò all’uomo. Da questo dono derivò all’uomo abbondanza di risorse per la vita, ma, come si narra, in seguito la pena del furto colpì Prometeo, per colpa di Epimeteo.

Allorché l’uomo divenne partecipe della sorte divina, in primo luogo, per la parentela con gli dei, unico fra gli esseri viventi, cominciò a credere in loro, e innalzò altari e statue di dei. Poi subito, attraverso la tecnica, articolò la voce con parole, e inventò case, vestiti, calzari, giacigli e l’agricoltura. Con questi mezzi in origine gli uomini vivevano sparsi qua e là, non c’erano città; perciò erano preda di animali selvatici, essendo in tutto più deboli di loro. La perizia pratica era di aiuto sufficiente per procurarsi il cibo, ma era inadeguata alla lotta contro le belve (infatti gli uomini non possedevano ancora l’arte politica, che comprende anche quella bellica). Cercarono allora di unirsi e di salvarsi costruendo città; ogni volta che stavano insieme, però, commettevano ingiustizie gli uni contro gli altri, non conoscendo ancora la politica; perciò, disperdendosi di nuovo, morivano.

Zeus dunque, temendo che la nostra specie si estinguesse del tutto, inviò Ermes per portare agli uomini rispetto e giustizia, affinché fossero fondamenti dell’ordine delle città e vincoli d’amicizia. Ermes chiese a Zeus in quale modo dovesse distribuire rispetto e giustizia agli uomini: «Devo distribuirli come sono state distribuite le arti? Per queste, infatti, ci si è regolati così: se uno solo conosce la medicina, basta per molti che non la conoscono, e questo vale anche per gli altri artigiani. Mi devo regolare allo stesso modo per rispetto e giustizia, o posso distribuirli a tutti gli uomini?« «A tutti - rispose Zeus - e tutti ne siano partecipi; infatti non esisterebbero città, se pochi fossero partecipi di rispetto e giustizia, come succede per le arti. Istituisci inoltre a nome mio una legge in base alla quale si uccida, come peste della città, chi non sia partecipe di rispetto e giustizia» [323]

Per questo motivo, Socrate, gli Ateniesi e tutti gli altri, quando si discute di architettura o di qualche altra attività artigianale, ritengono che spetti a pochi la facoltà di dare pareri e non tollerano, come tu dici - naturalmente, dico io - se qualche profano vuole intromettersi. Quando invece deliberano sulla virtù politica - che deve basarsi tutta su giustizia e saggezza - ascoltano il parere di chiunque, convinti che tutti siano partecipi di questa virtù, altrimenti non ci sarebbero città.

Questa è la spiegazione, Socrate. Ti dimostro che non ti sto ingannando: eccoti un’ulteriore prova di come in realtà gli uomini ritengano che la giustizia e gli altri aspetti della virtù politica spettino a tutti. Si tratta di questo. Riguardo alle altre arti, come tu dici, se qualcuno afferma di essere un buon auleta o esperto in qualcos’altro e poi dimostri di non esserlo, viene deriso e disprezzato; i familiari, accostandosi a lui, lo rimproverano come se fosse pazzo.

Riguardo alla giustizia, invece, e agli altri aspetti della virtù politica, quand’anche si sappia che qualcuno è ingiusto, se costui spontaneamente, a suo danno, lo ammette pubblicamente, ciò che nell’altra situazione ritenevano fosse saggezza - dire la verità - in questo caso la considerano una follia: dicono che è necessario che tutti diano l’impressione di essere giusti, che lo siano o no, e che è pazzo chi non finge di essere giusto. Secondo loro è inevitabile che ognuno in qualche modo sia partecipe della giustizia, oppure non appartiene al genere umano. Dunque gli uomini accettano che chiunque deliberi riguardo alla virtù politica, poiché ritengono che ognuno ne sia partecipe.

 

Ora tenterò di dimostrarti che essi pensano che questa virtù non derivi né dalla natura né dal caso, ma che sia frutto di insegnamento e di impegno in colui nel quale sia presente. Nessuno disprezza né rimprovera né ammaestra né punisce, affinché cambino, coloro che hanno difetti che, secondo gli uomini, derivano dalla natura o dal caso. Tutti provano compassione verso queste persone: chi è così folle da voler punire persone brutte, piccole, deboli? Infatti, io credo, si sa che le caratteristiche degli uomini derivano dalla natura o dal caso, sia le buone qualità, sia i vizi contrari a queste. Se invece qualcuno non possiede quelle qualità che si sviluppano negli uomini con lo studio, l’esercizio, l’insegnamento, mentre ha i vizi opposti, viene biasimato, punito, rimproverato.

Platone, Protagora, 320 C - 324 A



Venerdì 27 Aprile,2012 Ore: 20:43
 
 
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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 29/4/2012 20.29
Titolo:RISPETTO. Il bene è più della fede, e l'altro (la relazione con l'altro) è più d...
Il bene vale più della fede?

di Roberto Escobar (Il Sole 24 Ore, 29 aprile 2012)

«I1 bene è più della fede», dice il vecchio prete raccontato da Ermanno Olmi in Il villaggio di cartone. Dopo che la sua chiesa è stata svuotata del sacro, a cominciare dal crocifisso, a lui resta
solo l'attesa della morte. In una solitudine colma di ricordi, pensa agli occhi di una donna, perduti nel rimpianto. E pensa al suo mestiere, intrapreso per fare il bene. Ma uno scoramento profondo lo
vince. Per fare il bene, confida a un medico "positivista", non serve la fede. Il bene, appunto, è più della fede.

Tutto questo si può leggere ora in un piccolo libro che riproduce la sceneggiatura del film (Ermanno Olmi, Il villaggio di cartone, edizioni Archinto).

In una bella introduzione, Vito Mancuso torna al cruccio del vecchio prete, e allo scandalo del suo scoramento. Lo fa per illuminare quella che chiama «conversione della religione». Tratta dal pensiero di Raimon Panikkar, l'espressione indica la necessità che il cristianesimo torni sale della terra, smettendo d'essere «accettazione intellettualistica di una dottrina (la “fede”)», e diventando, o ridiventando, convinzione radicata del primato del bene e della vita buona». Non più ortodossia, o retta opinione, esso si trasformerebbe in ortoprassi, o retto comportamento. E ancora: all'obbedienza ossequiosa del credente nei confronti della gerarchia si sostituirebbero le sue azioni concrete, non riconducibili all'utile (nemmeno a quello della salvezza promessa e gestita dalla gerarchia, si deve supporre).

È rischiosa, questa prospettiva, e scandalosa al pari del vecchio prete di Olmi. Se vien meno non tanto la dòxa, l'opinione, quanto il controllo della sua "rettitudine" da parte di un dispositivo di
controllo dottrinale e gerarchico, nasce appunto il rischio che le opinioni si moltiplichino, ognuna certa di valere quanto ogni altra. Insomma, ammette Mancuso, si può finire per cedere a quella che
Joseph Ratzinger ha bollato come «dittatura del relativismo […] che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie». D'altra parte, prosegue citando Dietrich Bonhoefer, il senso dell'essere cristiani sta nell'imitazione di Cristo, che è «esistere-per-gli altri». Il figlio di Dio è tale non perché sia diverso e distante da noi, ma «in virtù del compimento della legge suprema dell'essere che è la relazionalità. fino a collocare nella relazione assoluta dell'amore il senso ultimo dell'essere e della
vita». Si ritrova così un fondamento saldo per l'ortoprassi e un viatico contro il rischio del relativismo. Sta, questo fondamento, nell'espressione relazione assoluta, un ossimoro evidente: quel che è
relativo non può essere assoluto, e quel che è assoluto non può essere relativo. D'altra parte, negli ossimori più d'una volta può nascondersi il senso dell'umano.

Fin qui Mancuso, e la sua lettura religiosa di Olmi. Ma a noi ne sembra possibile un'altra, del tutto e solo umana. Si tratta della nostra, che non pretendiamo sia condivisa da Olmi (come certo non
pretende Mancuso). Così vale sempre per un'opera d'arte: uscita dalle mani del suo autore, non è più sua, ma d'ogni suo spettatore o lettore.

Ripartiamo dalle parole del vecchio prete, e prendiamole sul serio, cioè per quello che dicono del suo scoramento. La chiesa vuota s'è riempita di migranti, di prossimo, per usare una grande parola
evangelica, o di altri, per usare un'altra parola non meno grande. Se stesse cercando la "relazione assoluta", la relazionalità come compimento della legge suprema dell'essere, il vecchio prete ne
sarebbe consolato. E però nel film non c'è per lui acquietamento, ma solo cruccio e rimpianto. E questo suggerisce in lui qualcosa di radicale, che non può essere rimediato con una conversione
ipotetica della religione.

Quando dice che il bene è più della fede, intende proprio solo che la sua fede in Dio è in crisi, e che questa crisi gli si manifesta nella sua superfluità per fare il bene. Siamo qui sul punto di precipitare in piena dittatura del relativismo, se volessimo dirla di nuovo con
Ratzinger. D'altra parte, il termine dittatura del relativismo è un altro ossimoro evidente, ma non dei più felici. Per loro (trista) natura, le dittature sono assolutistiche, non relativistiche. E l'io che ha se stesso e le proprie voglie come unica misura può forse essere nichilistico, ma mai relativistico.

Il nichilista è sicuro che niente sia vero, e che tutto sia permesso. Ma così afferma già due verità, legate in una sorta di sillogismo: che niente sia vero, e che (perciò) tutto sia permesso. Ben
diversamente opina il relativista, nel senso che a noi piace dare al termine.

Mettiamoci ora nei panni del vecchio prete, e domandiamoci come potrebbe tornare a fare il bene, al di là della sua fede in crisi. Ebbene, potrebbe smettere di attendersi giustificazioni assolute per la sua prassi, accontentandosi di quelle che gli mostrano i suoi occhi. Potrebbe cioè guardare l'altro che gli sta davanti, senza mediazioni e senza aneliti verso leggi supreme dell'essere. Se poi volesse un conforto intellettuale e filosofico, potrebbe rivolgersi ad Adam Smith, e alla sua nozione di simpatia.

Quando si vede l'altro che patisce, scrive il filosofo scozzese, si è portati a immaginare di soffrire la sua stessa sofferenza, o almeno a immaginare che si soffrirebbe come lui se si fosse nella sua condizione. Ma si tratta di un'illusione vera e propria: la sofferenza dell'altro non può essere davvero la mia, né mia può essere davvero la sua condizione. E tuttavia questa very illusion è
fortunata e produttiva: mi apre all'altro, e mi mette in relazione con lui.

Che tutto questo abbia grandi conseguenze non solo morali ma anche politiche è dimostrato per esempio da Richard Sennett nel suo splendido Rispetto (il Mulino).

E poi si potrebbe raccomandare al prete di Olmi anche la rivolta camusiana, ossia la scelta con cui un essere umano pone termine alla sofferenza cui un altro essere umano costringe la propria vittima.
Non c'è bisogno di assoluti, per rivoltarsi. Basta guardare l'altro vedendolo, vedendo il suo dolore e soffrendolo come se fosse nostro. Può bastare questo perché l'io e l'altro insieme producano da sé i
motivi e i "fondamenti" di una prassi retta. Questo è il relativismo, questo essere in relazione, questo gusto per quello che è umano, molto umano, senza il bisogno di dispositivi dottrinari e gerarchici che certifichino la rettitudine della prassi, e poi magari dell'opinione. Rispetto a quello popolato di assoluti, questo intessuto di umanissimi, concretissimi "valori relativi" è un mondo più libero. Ed è un mondo attento ai singoli esseri umani, alla loro materialità sofferente.

Insomma, per parafrasare il vecchio prete, e per andare oltre il suo scoramento, il bene è più della fede, e l'altro (la
relazione con l'altro) è più del bene.

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