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www.ildialogo.org IL NOME DEL BENE E IL NOME DEL POTERE. Dio non ha bisogno del sangue per salvare gli uomini, non è dunque Paolo il vero fondatore della Chiesa di Cristo. Una riflessione di Roberta Monticelli, sul libro ("Obbedienza e libertà") di Vito Mancuso,a c. di Federico La Sala

SENZA GRAZIA ("CHARIS"). IL NOME DI DIO DI BENDETTO XVI: "MAMMONA" ALLA GUIDA DELLA CHIESA! ALLA LUCE DEL SOLE, LA "SAPIENZA" FILOLOGICA, FILOSOFICA E TEOLOGICA DELLA TRADIZIONE CATTOLICO-COSTANTINIANA....
IL NOME DEL BENE E IL NOME DEL POTERE. Dio non ha bisogno del sangue per salvare gli uomini, non è dunque Paolo il vero fondatore della Chiesa di Cristo. Una riflessione di Roberta Monticelli, sul libro ("Obbedienza e libertà") di Vito Mancuso

(...) il cattolicesimo «non ha più una visione del mondo dai tempi di Dante», perché ha tradito, da Galileo in poi, la ricerca del vero (...)


a c. di Federico La Sala

MATERIALI SUL TEMA:

IL NOME DI DIO. L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"

 KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").

ALLE RADICI DELLA BELLICOSA POLITICA DEL VATICANO. LA GUERRA NELLA TESTA DELLA GERARCHIA DELLA CHIESA CATTOLICO-ROMANA E L’INDICAZIONE ’DIMENTICATA’ DI GIOVANNI PAOLO II.

VIVA L’ITALIA. LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.   (Federico La Sala)

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 Non è teologia se non ci libera

di Roberta De Monticelli (Il Sole 24 Ore, 22 aprile 2012)

Tanti sono i sapienti che hanno commentato la pagina forse più famosa di Dostoevskij, La leggenda del Grande Inquisitore. Eppure poche sono le spiegazioni convincenti del bacio con il quale il Cristo della Leggenda - tornato in terra al tempo dell’Inquisizione, e subito gettato in carcere - risponde al lungo monologo del vecchio Inquisitore: che pure rivendica per la sua Chiesa il pietoso nichilismo con cui questa ha spento la «libera decisione del cuore», alla quale il Cristo affidava il Regno di Dio. E l’ha sostituita con l’obbedienza degli uomini-bambini al potere spirituale-temporale dell’istituzione.

L’Inquisitore ha raccontato in ogni dettaglio il baratto ispirato dal demonio: libertà contro "felicità", obbedienza (e licenza di peccato, e perdono) in cambio del sollievo di non dover dubitare, e cercare, e scegliere, e portare responsabilità delle proprie scelte. Ha ricordato "il segreto del mondo", la sapienza del tentatore, che è sapienza politica e riguarda il meccanismo dell’obbedienza, nutrita dal bisogno che gli uomini hanno di inchinarsi "tutti insieme" a qualcuno, cioè dalla dimensione sociale della religione. Ha evocato la contraffazione del divino mediante le forze che da sempre corteggiano l’"umiltà del male" (come direbbe Franco Cassano): «miracolo, mistero, autorità». E per tutta risposta il Nazareno bacia le sue labbra esangui, di un bacio che brucia l’anima del vecchio e lo induce ad aprirgli la porta della libertà. Perché?

Aprendo l’ultimo libro di Vito Mancuso - Obbedienza e libertà - troviamo una risposta nuova. «Gesù vede che il vero prigioniero è proprio il suo carceriere, racchiuso in una prigione non fisica ma mentale, da cui è molto più difficile uscire». Quel bacio è un varco offerto alla mente prigioniera dell’Inquisitore. Aljoscia Karamazov, il monaco novizio - che più tardi sceglierà di vivere nel mondo - ripete questo gesto, e bacia il fratello Ivan, il filosofo, il cui pensiero racchiude entrambe le possibilità: l’Istituzione che imprigiona la mente e il nazareno che la libera. Ecco: Mancuso è Aljoscia. Proseguite nella lettura e ve ne convincerete.

Tutti i suoi libri infine sono questo: un bacio che brucia di un fuoco soave, "purificatore", in cui possa incenerirsi l"’autorità" di una Chiesa costruita nei millenni sopra il "miracolo" e il "mistero", per lasciar spazio all’autenticità" cui Gesù richiamava l’anima («svegliati, ragazza»). In cui l’obbedienza si depuri del suo diabolico fondamento - il potere  e si inchini soltanto alla "legge della libertà", all’autonomia della coscienza.

Il bacio offre a quella Chiesa da cui Mancuso proviene il varco di una libertà che è a lei ben nota, nutrita com’è, fin nei suoi ultimi papi, del pensiero europeo moderno e contemporaneo, dal quale sorgono (come dal pensiero di Ivan Karamazov) entrambi gli interlocutori: l’obbedienza asservita e la libertà autentica, il nichilismo morale e il primato della coscienza, la "fede" come devozione atea e la fede come «esperienza che l’intelligenza è illuminata dall’amore» (S.Weil).

Questa chiave di lettura illumina tutta la complessa dialettica di questo libro, giustamente presentato come "sintesi matura" del pensiero del suo autore. Un libro pubblicato nella collana "Campo dei fiori" - la piazza romana in cui arse il rogo di Giordano Bruno - e dedicato «alla memoria degli italiani uccisi in quanto "eretici", martiri della libertà religiosa, testimoni obbedienti del primato della coscienza». E i cui nomi sono riportati nell’Appendice.

Eppure è a questa stessa Chiesa che li ha bruciati che Mancuso si rivolge con il sottotitolo del suo libro: Critica e rinnovamento della coscienza cristiana. Lo afferma chiaramente: un cristianesimo non può esistere senza chiesa, senza magistero, senza tradizione, senza liturgia, senza comunità/comunione. Non si tratta quindi di eliminare la "sua" Chiesa, si tratta di spezzare la subordinazione alla Chiesa della teologia. In una "teologia laica" si dispiega il bacio liberatorio. E la liberazione, si badi, è rigorosamente teologica. Biblica anzitutto: Dio non ha bisogno del sangue per salvare gli uomini, non è dunque Paolo il vero fondatore della Chiesa di Cristo.

La salvezza non va pensata come redenzione, ma secondo l’annuncio di Gesù: «Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia». Di teologia fondamentale, in secondo luogo. All’inizio dell’avventura umana non c’è il peccate originale, ma «l’energia caotica... che ha bisogno di essere ordinata e disciplinata per diventare volontà di bene e di giustizia»: cioè la libertà.

Dio è il nome del bene, e non il nome del potere.

Ed ecco le due radici di quella logica dell’obbedienza e del potere che attanaglia la mente del moderno Inquisitore: il pessimismo relativo all’uomo, con la dottrina del peccato originale che avvinghia l’esercizio del potere all’umiltà del male; e il fatto che il cattolicesimo «non ha più una visione del mondo dai tempi di Dante», perché ha tradito, da Galileo in poi, la ricerca del vero. Il bacio, dunque, fiorisce proprio dai due temi principali dell’innovazione teologica di Mancuso. E offre scampo al duplice disagio, della coscienza e dell’intelligenza, e al tragico paradosso della Chiesa: «L’istituzione per merito della quale ancora oggi nel mondo continua a risuonare il messaggio di liberazione di Gesù è governata nel suo vertice da una logica che rispecchia proprio quel potere contro cui Gesù lottò fino a essere ucciso». Sarà finalmente aperta, quella porta?

 

 



Martedì 24 Aprile,2012 Ore: 08:27
 
 
Commenti

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Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 24/4/2012 09.41
Titolo:Dire a nostra volta: “Io sono.” ...
La grande obbedienza della fede

di Jacques Noyer, vescovo emerito di Amiens

in “www.temoignagechretien.fr” del 22 aprile 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)

Troppo spesso si parla dell’atto di fede come di un abbassarsi: accettare di non comprendere, di non giudicare, accettare la superiorità di Dio o l’autorità della Chiesa. L’obbedienza della fede sarebbe quindi una rinuncia. I nostri contemporanei rifiutano per lo più questo atteggiamento da pecoroni, anche se, in altri ambiti, il “gregarismo” pone loro meno problemi...

La Bibbia ci parla di un Dio che dice di chiamarsi “Io sono, io esisto”. Nel capitolo 8 di Giovanni, Gesù ci dice: “Credete che Io sono.” Seguirlo, non è chiudere gli occhi. Seguirlo, è svegliarsi alla sua parola, uscire dalla tomba, decidere, assumere le proprie responsabilità, dire a nostra volta: “Io sono.”

La tradizione spirituale ha spesso sviluppato questo “risveglio” con parole brevi: il Fiat di Maria, l’Amen dei sacramenti, l’adsum dell’ordinazione, il Sì di Cristo. Tutte queste risposte ci mettono in piedi. A volte si è visto in esse della rassegnazione. Al contrario, è una mobilitazione del nostro essere. “Ci sono! Assumo la missione! Si può contare su di me.” Come per l’adolescente rannicchiato al calduccio, ci vuole una voce, una luce, un richiamo, per farci uscire dalla nostra sonnolenza. Per esistere, per vivere, abbiamo bisogno di un’urgenza, di un compito che non possiamo lasciare ad altri.

Certo, questo grido di fede sempre personale può unirsi ad altri in un “noi esistiamo”. La Chiesa è questo “noi ci siamo” che riunisce i credenti. Ma la storia ha mostrato la possibile deriva di una Chiesa in cui alcuni decidono del credere degli altri. L’obbedienza diventa una virtù passiva, un rifiuto di essere, una preoccupazione di non farsi notare. Non possiamo credere che sia a questa obbedienza che Benedetto XVI ha invitato i preti “disobbedienti” dell’Austria e di altri paesi. Se la Chiesa non accoglie più le indignazioni, le urgenze, le invenzioni che i suoi membri fanno sentire come grida di fede, allora è solo un’istituzione morta.

Gli apostoli hanno inteso la Resurrezione come un appello a prolungare la presenza di Gesù, a mobilitarsi per il suo progetto ad inventare le azioni necessarie per annunciare il Vangelo. La Chiesa ha avuto per molto tempo delle audace per le quali non ha chiesto permessi a Gesù. Perché dovrebbe “immobilizzarsi” oggi?

Come ogni gruppo umano, la Chiesa ha bisogno di una disciplina per evitare la presa di potere da parte di alcuni, per organizzare la diversità di queste grida, per assicurare la comunione nello stesso Vangelo. Ma non è lì che si situa la Grande Obbedienza della Fede. Dire “Sì” a questo Padre che ci autorizza ad essere a sua immagine, seguire il Figlio assumendo con lui la responsabilità del Regno, condividere lo Spirito che dà a tutti il diritto di essere e la libertà di inventare il futuro degli uomini, ecco la Grande Obbedienza.

Possa il “Padre Nostro” risuonare come una generosa risposta a colui che ci ha fatti figli eredi: il suo Nome è il nostro Nome, il suo Regno è il nostro Regno, i suoi obiettivi sono i nostri obiettivi. Sì, Padre, siamo i tuoi uomini!
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 24/4/2012 12.44
Titolo:IL VENTENNIO BERLUSCONIANO E LE RIFLESSIONI DI UN PARROCO ....
Un parroco e il ventennio B.B.

di don Giorgio Morlin (“settimana”, n. 15, 15 aprile 2012)

Stendo in libertà alcune riflessioni personali sull’onda mediatica delle miserande vicende d’interesse privato che toccano un personaggio politico di primissimo piano come Umberto Bossi e il partito della Lega Nord. Innanzitutto lui, un personaggio carismatico che, nell’immaginario collettivo, rappresenta da circa 25 anni una specie di totem tribale intoccabile, a cui si deve obbedienza cieca e a cui è permessa ogni forma di turpiloquio e d’insulto, di pernacchie e di minacce, E poi il movimento leghista, una folla sempre plaudente verso il capo e perennemente arrabbiata con l’intero mondo, partecipe di grotteschi riti pagani come le ampolle d’acqua del Po dentro un ridicolo campionario d’innumerevoli scemenze celtiche.

Il crollo del leader padano arriva puntuale dopo alcuni mesi dal crollo di un altro suo compare nazionale, quel Silvio Berlusconi che è riuscito a catturare per quasi due decenni il consenso di masse d’italiani osannanti. Cos’è successo all’Italia di fine ’900 e inizio 2000? Sembra impossibile, eppure è successo che, nel giro di nemmeno un ventennio, si sono tra loro miscelati due filoni culturali dirompenti, il leghismo e il berlusconismo. Due fenomeni, autonomi ma tra loro interdipendenti, che, dopo aver inoculato un virus eticamente letale, hanno plasmato un’opinione pubblica addomesticata, ad immagine e somiglianza dei due capi che godevano effettivamente di un largo consenso di massa.

Mentre cala squallidamente il sipario sulla scena politica dei due succitati leaders, la terribile miscela culturale-etica da loro innescata sembra ormai stabilmente metabolizzata dentro un tessuto civile senza anticorpi, determinando l’assimilazione di nuovi modelli collettivi di vita e di pensiero. Abbiamo visto un’Italia umiliata e mortificata da una molteplicità di truci slogans, contro i magistrati, contro inesistenti comunisti, contro Roma ladrona, contro gli immigrati, che infiammavano istericamente le masse ma impoverivano l’anima e l’identità del popolo italiano.

Fino a poco più di un anno fa, non solo la maggioranza del mondo cattolico ma anche una parte dell’istituzione ecclesiastica apparivano ammaliate dalla seducente sirena berlusconiano-leghista.

L’incantamento di una parte della Chiesa italiana probabilmente nasceva da una tacita e reciproca intesa in cui, sempre e comunque, gli uni lucravano qualcosa dagli altri. Dalla parte politica, si lucrava il consenso elettorale dei cattolici e, dalla parte ecclesiastica, si lucrava la difesa dei valori cosiddetti non negoziabili (famiglia, bioetica, scuola) ed eventuali altre prebende, magari anche di tipo economico.

In un’intervista al Corriere della Sera, mons. Fisichella, esponente ecclesiastico di rilievo, il 30 marzo 2010, dichiarava che la Lega Nord, «per quanto riguarda i problemi etici, manifesta una piena condivisione con il pensiero della Chiesa».

Poco dopo, alla suddetta intervista rispondeva lo scrittore Claudio Magris con una lettera aperta in cui, riportando solo qualche stralcio, si poteva leggere: «Caro mons. Fisichella, mi permetto di scriverle per esprimerle lo sconcerto che ho provato leggendo la sua recente intervista in cui lei dichiarava che il partito politico Lega Nord si fonda su valori cristiani. Non intendo esprimere alcun giudizio politico sul suddetto partito. Ma, tutto l’atteggiamento del medesimo partito nei con fronti degli immigrati costituisce la negazione dello spirito cristiano. La Lega spesso fomenta un volgare rifiuto razziale, che è la perfetta antitesi dell’amore cristiano del prossimo e del principio paolino secondo il quale "non ha più importanza essere greci o ebrei, circoncisi o no, barbari o selvaggi, schiavi o liberi; ciò che importa è Cristo e la sua presenza in tutti noi!" (cf. Col 3,11).

Questa lettera non è indirizzata alla Chiesa, ma ad uno dei tanti - ancorché autorevoli - suoi rappresentanti, le cui opinioni non possono essere addebitate alla Chiesa, ma possono destare sconcerto e scandalizzare non pochi fedeli» (Corriere dello Sera, 11 aprile 2010).

Come avrei desiderato leggere quest’inequivocabile presa di posizione dell’illustre intellettuale italiano, forse credente o forse agnostico, magari in uno dei tanti documenti magisteriali della Cei negli ultimi due decenni! È vero - dirà qualcuno -, basta leggere il Vangelo e la dottrina sociale della Chiesa. Appunto! Però, queste due primarie fonti dell’annuncio cristiano vanno riscoperte, attualizzate e storicizzate dentro le emergenze culturali ed etiche che segnano il nostro tempo, proclamando a voce alta, senza se e senza ma, valori quali la dignità umana, il rispetto per lo straniero, la giustizia, la legalità, il bene comune, l’etica pubblica... Questi, oltre naturalmente a quelli tradizionali predicati dalla Chiesa, sono o no da riconoscere come valori non negoziabili sui quali non si può e non si deve transigere?

In quest’ultimo ventennio italiano si è collettivamente dissolto quel nucleo portante di valori civili che, ad esempio, aveva efficacemente retto durante la gravissima emergenza del terrorismo negli anni 70. E proprio la Chiesa postconciliare dell’epoca, assieme a tante altre istituzioni, si era direttamente messa in gioco e a servizio della società italiana con l’obiettivo di ricostruire il tessuto sociale che rischiava la degenerazione della convivenza (cf. il profetico documento Cei La Chiesa italiana e le prospettive del paese del 1981!).

Nella prolusione del card. Ruini al Consiglio permanente della Cei (19 settembre 1994) veniva ufficialmente proclamato che il Progetto culturale della Chiesa italiana rappresentava «un terreno d’incontro tra la missione della Chiesa e le esigenze più urgenti della nazione!». Sante parole!

Invece, proprio a partire dal 1994, con la micidiale miscela berlusconiano-leghista, paradossalmente iniziava per l’Italia una lenta ma progressiva deriva etica che ha portato al disastro attuale. Certamente i tradizionali valori cari alla Chiesa (vita, scuola, famiglia) sono salvi! Però, rimane il forte disagio per una deriva antropologica già raggiunta in tanti ambiti, evidente soprattutto negli immorali e amorali modelli di vita, indotti anche da una certa politica che mette l’interesse privato al centro. Lo ha detto, finalmente con chiarezza, il card. Bagnasco, proprio negli squallidi giorni del bunga bunga berlusconiano: «La collettività guarda sgomenta gli attori della scena pubblica e respira un evidente disagio morale» (Consiglio permanente, 24 gennaio 2011).

Come cittadini e come credenti, è proprio da questo disagio morale che bisogna ripartire per farsi carico delle sorti della società e delle generazioni che verranno, dopo un ventennio triste e nefasto che ha reso irrespirabile l’aria della convivenza civile.
Autore Città Giorno Ora
Federico La Sala Milano 24/4/2012 12.54
Titolo:UOMINI E DONNE CHE STANNO IN PIEDI. Bonhoeffer, un anniversario ...
Dietrich Bonhoeffer, un anniversario

di Xavier Charpe

in “www.baptises.fr” del 23 aprile 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)

«Widerstand und Ergebung», «Resistenza e resa», è questo il titolo della raccolta di lettere scritte dalla prigione militare di Tegel dal pastore Dietrich Bonhoeffer. Questo giovane teologo luterano, dallo spirito acuto, si è impegnato a servizio della sua Chiesa come pastore, poi nella lotta per difenderla dall’influenza dei cristiani filonazisti, infine nella resistenza politica contro Hitler. Dopo il fallimento del tentativo di assassinio del 22 luglio 1944, sarà trasferito dalla prigione militare di Berlino a quella della Gestapo. Sarà il silenzio. Nella disfatta tedesca, Hitler vigilerà personalmente affinché tutti i congiurati siano trovati e giustiziati. Dopo un processo sbrigativo, fatto solo per l’apparenza, Bonhoeffer e i suoi compagni saranno impiccati nella notte tra l’8 e il 9 aprile 1945.

Quindi, quest’anno, il 67° anniversario della sua morte cadeva proprio il giorno di Pasqua. Impiccati, o più esattamente suppliziati: sono appesi in modo che la punta dei piedi tocchi il suolo; quando, estenuati, stanno per soccombere, li si rianima e si ricomincia. Un’agonia che viene fatta durare a lungo: come il sadismo della morte di coloro e di colui che è stato sospeso al legno della croce. Poi i corpi vengono bruciati, di modo che non ci sia sepoltura. Il vuoto di una non-tomba. I torturatori avevano la consapevolezza che, procedendo in quel modo, accomunavano Bonhoeffer e i suoi compagni ad un altro suppliziato, che Bonhoeffer aveva seguito, nel servizio e nell’obbedienza? Il giorno di Pasqua, quest’anno, mi è stato difficile non pensare a Dietrich e all’anniversario della sua “Pasqua”.

Tradurre «Widerstand und Ergebung» con «Resistenza e resa»*, è assolutamente corretto, poiché è il senso corrente di queste due parole. Ma vorrei far sentire le risonanze che vibrano dietro le parole tedesche.

«Wider-stand». In «stand» sento la radice «stehen», che non significa solo stare, ma “stare in piedi”. «Donne e uomini in piedi», perché è Cristo che li fa stare in piedi. Cristo, colui che era morto, che la morte aveva disteso a terra, ma che Dio Padre aveva rialzato, rimesso in piedi. È la parola greca «anastasis», che noi traduciamo con resurrezione. Dopo la disfatta dell’arresto e della morte sulla croce, ecco che i suoi discepoli sono rimessi in piedi, e, di conseguenza, rimessi «in cammino» quando erano già «distesi, a terra»; sanno che è Cristo che li ha rimessi in piedi; nella fede, sanno che Cristo è vivo presso il Padre. La vera prova che Cristo è vivo e che possono riconoscerlo come loro «Signore», è che Cristo li ha rimessi in piedi e che li fa vivere della sua vita con il suo Spirito.

«wider»: di fronte, davanti a. Uomini e donne che stanno in piedi e che «fanno fronte». Affrontare, affrontare il reale, affrontare la propria responsabilità davanti alla chiamata di Dio, davanti alla vocazione che ha voluto per noi e davanti alla quale sarebbe bene non tirarsi indietro. Far fronte nell’impegno e nella solidarietà con i propri fratelli. «Ascolta la mia chiamata, impegnati alla mia sequela sulla via su cui ti condurrò e di cui tu non conosci lo sbocco». Credete che impegnandosi nell’obbedienza e tentando molto semplicemente di fare ciò che doveva fare, Dietrich Bonhoeffer conoscesse lo sbocco del cammino al termine del quale egli sarebbe stato, qualunque cosa accadesse, nelle mani di Dio? «Solo colui che crede obbedisce; solo colui che obbedisce, crede», scriveva in «Nachfolge» (seguire Cristo). Stare in piedi e far fronte, nella responsabilità e nella fede in Cristo.

Affrontare il reale, non sfuggirlo, non credere che separandosi dalla vita si potrà incontrare Dio in non si sa quale “sacro”, affrontare la propria responsabilità davanti all’Altro e davanti a ciascuno degli altri che sono posti sul nostro cammino, affrontare la prova quando arriva, e come non potrebbe arrivare, un giorno o l’altro, a meno di prenderci per (o di pretenderci) dei privilegiati. Siamo «chiamati», certo, ma non a considerarci o a comportarci da privilegiati. Cristo si è fatto solidale con quelli che incontrava. Come potremmo noi sottrarci alla solidarietà? Far fronte, nella responsabilità.

«Ergebung». In «gebung», c’è la radice su cui è costruito il verbo «geben»: «dare». Più che la resa, c’è «l’abbandono», a condizione di sentire il dono, che è nella parte finale della parola. È questione del dono, del dono di sé, del dono della propria vita. Quando si è tentato, con la grazia di Dio, di stare in piedi, da donne e da uomini responsabili, accettando di obbedire alla chiamata di Dio, alla propria «vocazione», insomma quando si è tentato di stare in piedi alla sequela di Cristo, quando ciò che doveva essere fatto è stato fatto, allora ci si può abbandonare a Dio, mettere la propria vita nelle mani di Dio: «Tra le tue mani, Signore, rimetto il mio spirito». «Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza».

Far fronte, in piedi, poi, quando arriva il tempo della prova, abbandonarsi a Dio, nelle sue mani. Occupiamoci della nostra vita. Dio saprà come occuparsi della nostra morte; almeno, è ciò che noi crediamo, se pensiamo che la nostra vita è stata nelle mani di Dio e che è da lì che è venuta la fecondità. Oso pensare che Dietrich Bonhoeffer abbia vissuto questa Pasqua.

* Ndr.: la traduzione in francese è “Résistance et Soumission” (resistenza e sottomissione).

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